Luigi Spaventa un eminente economista in Consob

di Filippo Cavazzuti

Mario Mancini
39 min readApr 28, 2020

Estratto dal libro Il capitalismo finanziario italiano. Un’araba fenice? Racconti di politica economica, Firenze, goWare, 2020

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Introduzione

Nel suo primo «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per l’anno 1998, Luigi Spaventa affermò che:

Un mercato libero, per offrire i suoi benefici, non può essere privo di regole […]; un sano sviluppo finanziario richiede che alla crescita dei mercati si accompagni uno sviluppo delle istituzioni preposte a stabilire le regole necessarie e a farle rispettare […]; l’internazionalizzazione dei mercati rende ormai praticamente impossibile considerare la regolamentazione e la vigilanza solo in un’ottica nazionale.

A un anno (o poco più) dalla scadenza del suo mandato, Luigi Spaventa, forte dell’esperienza maturata, aggiunse che:

L’efficacia delle leggi, delle regole, delle istituzioni, dipende in non piccola misura dall’ambiente in cui le prime vengono fatte valere e le seconde operano […]; ma molta strada si deve ancora percorrere.

Sono parole che fanno intendere che Spaventa aveva una conoscenza effettiva dei mercati finanziari che gli faceva rifiutare sia l’ipotesi riduttiva di una morfologia dei mercati unica e dominante da imitare, sia quella che postula che i mercati finanziari sono in grado di autoregolarsi. Secondo Spaventa, attenzione andava poi posta sull’ambiente economico e sociale che concorre a condizionare la morfologia dei mercati stessi, per meglio seguirli nella loro evoluzione e mutazione, poiché i mercati lasciati a se stessi generano patologie.

Queste riflessioni — che muovono principalmente da alcune tracce lasciate da Luigi Spaventa nei suoi cinque «Discorsi del Presidente della Consob al mercato finanziario» (contenuti nelle rispettive Relazioni annuali della Consob) — non pretendono di esaurire ogni aspetto della presidenza di Luigi Spaventa alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, anche perché in ogni incontro della Commissione, in cui lo assistevo nel muoversi sul campo dei mercati finanziari, oppure nel corso delle frequenti e più rilassate conversazioni private, mi tornavano alla mente le parole con cui J.M. Keynes descrisse il «buon economista», colui (rarissima avis secondo Keynes) che:

Deve essere in un certo modo, matematico, storico, statista, filosofo; maneggiare simboli e parlare in vocaboli; vedere il particolare alla luce del generale; toccare astratto e concreto con lo stesso colpo d’ala del pensiero. Deve studiare il presente alla luce del passato e in vista dell’avvenire.

In sintesi, Luigi Spaventa era un «buon economista», al pari di un altro «buon economista» come Nino Andreatta, con cui ebbi frequentazioni altrettanto ricche e stimolanti.

Più modestamente, in questa sede ho voluto limitarmi a riflettere sulle questioni che più sono rimaste nella mia memoria, con particolare riferimento sia ai nuovi compiti assegnati alla Consob dal Testo unico della Finanza (TUF), sia a come si è evoluta (o non evoluta) la finanza privata in Italia, sia infine all’ambiente della finanza e alla presenza delle pur sempre possibili patologie.

Obiettivi della nuova normativa

I principali compiti assegnati alla Consob di Luigi Spaventa erano già stati definiti in due audizioni parlamentari tenute rispettivamente da Mario Draghi, direttore generale del Tesoro (il 10 dicembre 1997) e da Tommaso Padoa Schioppa, presidente della Consob (il 10 gennaio 1998), sugli aspetti e le novità più importanti del Testo unico della Finanza che il Parlamento si apprestava ad emanare. Mario Draghi sostenne che il mercato di borsa «è relegato […] in una funzione del tutto sussidiaria rispetto a un sistema fondamentalmente banco centrico», e aggiunse che «l’obiettivo è la costituzione di un sistema finanziario che massimizzi l’ammontare di risorse indirizzate verso il sistema produttivo». Più in particolare Mario Draghi sostenne che si trattava di perseguire;

Tre obiettivi: allineare le regole del nostro governo societario a quelle di altri paesi europei che competono con sistemi finanziari pienamente sviluppati; evitare una eccessiva diversificazione tra società quotate e società che fanno appello al pubblico risparmio […]; considerare questo lavoro come il presupposto per una complessiva rivisitazione del diritto societario.

Annotò a sua volta Tommaso Padoa Schioppa che la Consob avrebbe dovuto operare lungo tre linee guida:

a) «realizzare una legislazione semplice e per principi» che superasse l’insieme delle norme esistenti, poco flessibili e non sufficientemente coordinate;
b) «rafforzare i meccanismi societari» per accrescere la capacità dell’impresa di produrre ricchezza per tutti i suoi azionisti;
c) «rafforzare lo sviluppo della borsa italiana» superando gli ostacoli che permanevano insieme «all’antica riluttanza ad accettare le regole della trasparenza e del mercato».

Apparve del tutto evidente alla Commissione che allora si confidasse principalmente sull’idoneità dell’incipiente nuova normativa, tesa a creare un ambiente della finanza più adatto per lo sviluppo dei mercati dei capitali di rischio e di debito, per affrancare le imprese dal prevalente finanziamento bancario e per una più efficiente diversificazione delle fonti di finanziamento degli investimenti delle imprese. Ciò, tra l’altro, avrebbe comportato la riduzione della fragilità finanziaria del passivo delle imprese, rendendole più solide a fronte dell’insorgenza di eventuali rischi finanziari, di mercato o di controparte. In altre parole si confidava che il Testo unico della Finanza potesse rendere più moderno il capitalismo italiano, soprattutto nei confronti del capitalismo d’oltreoceano.

Parlare europeo

Luigi Spaventa assunse la presidenza della Consob nel giugno del 1998, per terminare il mandato quinquennale alla fine di giugno del 2003, così come previsto dalla legge istitutiva (del 1974) della Commissione, allora ancora vigente in alcune sue parti. Spaventa concluse il suo mandato con il «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per il 2002, che conviene riassumere nei seguenti punti:

a) permangono vincoli burocratici e amministrativi che limitano l’indipendenza della Consob;
b) la realtà proteiforme dell’industria finanziaria, lasciata a se stessa, genera patologie;
c) vanno individuate di volta in volta le aree ove si manifestano i rischi maggiori;
d) è indispensabile il mantenimento del colloquio continuo e trasparente con i mercati per elaborare soluzioni regolamentari efficienti;
e) occorre perseverare senza sosta nella tutela degli investitori e degli azionisti di minoranza;
f) il «parlare europeo» è necessario per contribuire alla costruzione del mercato unico dei servizi finanziari e, più in generale, del mercato dei capitali.

Il noto «parlare europeo» di Luigi Spaventa fu particolarmente apprezzato nell’anno 2000, in occasione dell’invito rivoltogli a fare parte del gruppetto di wise men presieduto da Alexandre Lamfalussy, il cui compito era quello di redigere un rapporto On the Regulation of European Securities Markets, anche al fine di definire le linee guida per le ineludibili riforme tese a catturare i maggiori benefici dell’integrazione del mercato europeo nel settore dei servizi finanziari e del mercato dei capitali. Il gruppo, composto da sei Saggi, oltre al Presidente, concluse i suoi lavori il 15 febbraio 2001.

Il «Rapporto dei Saggi» fu un fatto importante poiché, invece di muoversi verso la predisposizione di un’unica autorità di regolazione europea (nel giudizio di Spaventa «una sorta di mostro di Loch Ness che riemerge periodicamente») e di una normativa unica per tutti i Paesi della Comunità, da far calare dall’alto, suggeriva l’adozione di un approccio assai più flessibile di regolamentazione, articolato su più livelli. Un primo livello affidava alle direttive comunitarie l’individuazione degli obiettivi generali della regolamentazione; un secondo livello affidava al Securities Committee la definizione delle disposizioni tecniche di dettaglio, che a sua volta si avvaleva della consulenza del SEC (composto da un rappresentante dell’autorità di controllo sui mercati mobiliari di ogni Stato membro); un terzo livello prevedeva che gli Stati membri adottassero le direttive comunitarie nelle legislazioni nazionali; un quarto livello affidava alla Commissione Europea il compito di verificare che gli Stati membri adeguassero correttamente le loro legislazioni alle normative comunitarie.

Il lavoro del Comitato Lamfalussy fu assai apprezzato in sede europea, così come se ne diede atto nella Relazione al Ministro dell’Economia e delle Finanze per il 2001, ove si riassumeva che le soluzioni proposte dal Gruppo dei Saggi erano state condivise dal Consiglio Europeo che ne aveva raccomandato l’attuazione; che la Commissione Europea aveva pertanto istituito il Comitato dei valori mobiliari e il Comitato delle autorità di vigilanza; e che il Forum of European Securities Commissions (FESCO) aveva provveduto a modificare il proprio statuto per renderlo conforme alle predette decisioni, assumendo il nuovo nome di CESR (Committee of European Securities Regulators) che, in aggiunta alle funzioni di consulenza alla Commissione Europea, avrebbe dovuto continuare a svolgere le funzioni di coordinamento e cooperazione tra le autorità di vigilanza, precedentemente attribuite al FESCO. Fu il primo importante passo per giungere dieci anni dopo all’istituzione dell’AESFEM (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati), che si affiancherà alle due nuove autorità europee di vigilanza sugli altri mercati finanziari: l’ABE (Autorità bancaria europea) e l’AEAP (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali).

La Consob tra parlamento e governo

Tra gli anni 1998 e 2003 l’ambiente politico italiano mutò più di una volta. Si passò dalla XIII legislatura (9 maggio 1996–9 marzo 2001) alla XIV legislatura (che si aprì l’11 giugno del 2001). Furono gli anni che videro il susseguirsi dei governi presieduti da Romano Prodi (che nominò Luigi Spaventa alla presidenza della Consob), Massimo D’Alema (I e II) e infine Giuliano Amato. Le elezioni politiche che seguirono (13 maggio 2001) portarono all’insediamento del governo presieduto da Silvio Berlusconi, che nominò il successore di Luigi Spaventa alla presidenza della Consob. Nel corso degli stessi anni la Consob ebbe tra i suoi riferimenti istituzionali prescritti dalla legge i Ministri del Tesoro nelle persone di Ciampi, Amato, Visco e Tremonti, e dei due direttori generali del Tesoro che si succedettero nel tempo, Mario Draghi e Domenico Siniscalco.

In quegli anni, i rapporti della Consob con i diversi governi che si succedettero erano disciplinati prevalentemente dalla legge istitutiva della Consob, del 1974, che in particolare disponeva — coerentemente con il dibattito parlamentare di allora, che molti dimenticano — che il presidente della Commissione «tiene informato» il Ministro del Tesoro sugli atti e sugli eventi di maggior rilievo. Disposizione che conviene richiamare per intero in nota, per comprendere meglio come fossero regolati allora i rapporti tra il potere esecutivo e la Commissione; peraltro senza dimenticare il potere di nomina dei commissari, che dovevano dimostrare, secondo le abituali espressioni di legge, di possedere spiccate doti di indipendenza di giudizio. Curiosamente, va annotato, la richiesta di «indipendenza» era rivolta ai commissari (presidente compreso) ma non era assegnata alla Consob, come istituzione indipendente per la regolazione dei mercati mobiliari.

La richiamata disposizione di legge poneva inopinatamente a carico del presidente della Consob l’onere di «tenere informato» il Ministro del Tesoro, oltre che di sottoporre al Ministro stesso gli atti di natura regolamentare. È però da segnalare che con una disposizione siffatta potevano sorgere le più svariate incertezze interpretative su quali fatti dovessero essere ritenuti di «maggiore rilievo», data la complessità e la rapida evoluzione dei mercati mobiliari negli anni successivi al 1974; soprattutto a partire dagli anni Novanta, che videro l’introduzione di incisive riforme legislative dei mercati finanziari (Testo unico Bancario e Testo unico della Finanza) dovute soprattutto al recepimento, seppure tardivo, di alcune direttive comunitarie nell’ordinamento italiano. Per non dimenticare la successiva riforma del diritto societario, il recepimento delle direttive comunitarie sugli abusi di mercato, sul passaporto europeo, sui servizi di investimento (MiFID), e così via.

Fu necessario attendere il 2004 (nel frattempo la presidenza di Luigi Spaventa era terminata nel giugno del 2003) affinché, con una nuova disposizione legislativa, si evitasse di mantenere la Consob nell’incertezza interpretativa di quali fossero gli «eventi di maggior rilievo» di cui informare il ministro, disponendo il «segreto d’ ufficio» relativo a tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso della Consob; segreto d’ufficio che, in ogni caso, non poteva (e non può) essere opposto al Ministro del Tesoro. Venne così rovesciato l’onere su colui che dovesse muoversi per primo: non più il presidente della Consob, ma il Ministro del Tesoro, con un’esplicita richiesta su fatti e avvenimenti relativi ai mercati mobiliari.

Il collaudo del Testo unico della Finanza

Luigi Spaventa aggiungerà più tardi agli obiettivi, seppure condivisi (come ricorderà in più di una occasione pubblica), assegnati alla Consob da Mario Draghi e Tommaso Padoa Schioppa, che con il Testo unico si volevano perseguire due finalità: la sistemazione delle norme che si erano susseguite fra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90; e l’aumento del grado di tutela dell’investitore sotto almeno tre profili: migliorare la trasparenza dei mercati e la significatività dei prezzi; assicurare la protezione del risparmiatore nei confronti degli intermediari e dei gestori del suo risparmio; garantire meglio i diritti degli azionisti di minoranza delle società quotate, anche tramite la riduzione delle asimmetrie informative di cui è vittima l’investitore «esterno» che subisce la spoliazione ad opera di soggetti controllanti (self dealing).

Non va tuttavia dimenticato che all’azione della Consob, chiamata a realizzare obiettivi sicuramente ambiziosi quali quelli prima ricordati, si opponevano gravi rigidità burocratiche e amministrative. Ricorderà Luigi Spaventa, ancora una volta alla fine del suo mandato e a fronte del permanere degli stessi problemi, che:

La Consob, che sta per compiere trent’anni […] non riuscì a liberarsi da altri lacci burocraticoamministrativi: una struttura di carriere rigida e frammentata in comparti poco permeabili, che è difficile modificare.

Da tempo si ragionava in seno alla Commissione dell’opportunità di riconsiderare l’istituto del visto di esecutività sui regolamenti interni, prevista dall’art. 1 della legge n. 216/74, che rendeva l’operatività della Consob assai più limitata di quanto non fosse concesso alle altre autorità di regolazione. Si osservava infatti che sia l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, sia le autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, istituite con la legge 481 del 1995, avevano previsioni diverse, potendo deliberare le norme concernenti il trattamento giuridico ed economico del personale e l’ordinamento delle carriere, nonché la propria organizzazione, in modo del tutto autonomo. Per uniformare la Consob alle altre autorità indipendenti, un tentativo (miseramente fallito) fu esperito all’inizio del maggio 1999, con la proposta al Governo di un emendamento la cui esplicita motivazione, seppure nella forma forzatamente criptica dell’emendamento, era che in assenza di tale modifica, la Consob sarebbe rimasta l’unica autorità di vigilanza i cui regolamenti di organizzazione, del personale e di contabilità, sarebbero rimasti sottoposti al visto di esecutività da parte del Governo, con indubbi effetti di rigidità sulla sua azione. Ma la proposta rimase nel cassetto del Governo di allora (presieduto da D’Alema).

I mercati finanziari e i rischi di crisi

Negli anni della presidenza di Luigi Spaventa lo spread tra il Bund tedesco a 10 anni ed il BTp decennale raggiunse il suo valore minimo nel primo trimestre del 1999 (0,23%), per mantenersi intorno ai 40 punti base per l’intero periodo; l’indebitamento netto delle Pubbliche amministrazioni si mantenne nell’ordine del 2,5% del PIL; il debito pubblico continuò a scendere verso il suo valore minimo, raggiunto nel 2003, pari a circa il 106% del PIL; la vita media dei titoli del debito pubblico continuava ad allungarsi oltre i sei anni. Invece, il peso del settore bancario sulla capitalizzazione complessiva di borsa si poneva sui valori più alti dell’ultimo decennio (15,6% nel 1990, 26,8% nel 1998), tranne che in Spagna (32,2%), più elevato che in Francia (4,8%), Germania (11,8%), Regno Unito (15,3%), Stati Uniti d’America (8,3%). Dal canto suo, il tasso di crescita del PIL, che aveva sfiorato il +3% nel 2000, cominciò a declinare negli anni successivi, portandosi a tassi sempre più modesti (+0,4% nel 2002) e discostandosi dalla crescita dell’area dell’euro, che in quegli anni presentava un tasso medio del 2,2% annuo. Al pari di altri Paesi, anche in Italia l’ambiente caratterizzato da modesti tassi di crescita reale, bassi tassi di interesse (nel 1999 il tasso di interesse reale a breve termine era sceso al di sotto dell’1%), modesta inflazione, elevato stock di debito pubblico, e importanti squilibri nelle bilance dei pagamenti, costituì la premessa per l’inarrestabile e rischioso processo d’innovazione finanziaria che guidò e sostenne la corsa (altrettanto inarrestabile) verso l’indebitamento a breve (se non brevissimo) termine di famiglie e imprese (finanziarie e non), a scapito del capitale di rischio per il finanziamento a lungo termine degli investimenti. In Italia, il tasso di crescita degli impieghi bancari cresceva a un tasso superiore di quello della raccolta interna, spingendo le banche a coprire il divario con l’indebitamento verso l’estero.

Questo ambiente economico e finanziario motivò Spaventa ad esprimere, già nel suo primo «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per l’anno 1998, le sue preoccupazioni sui rischi finanziari che si stavano accumulando nei mercati, avvertendo che:

[i] problemi riguardano non solo i mercati emergenti, destinatari di ingenti flussi di capitale a breve termine, ma anche i paesi industrializzati, da cui quei flussi originano: se ai primi si può imputare insufficienza di regole prudenziali e mancanza di informazioni e di trasparenza, gli investitori, a caccia di ingenti e facili guadagni, poco si sono preoccupati di valutare i rischi dei loro impieghi.

Sono parole che facevano percepire che, oltre alle cause macroeconomiche della possibile crisi finanziaria (global imbalances), si stavano accumulando anche cause microeconomiche di inadeguatezza della regolamentazione e di errori nelle stima della probabilità del verificarsi dei rischi di default associati ai prodotti finanziari di nuova progettazione (sovente illiquidi), che avrebbero alimentato una possibile crisi finanziaria a livello globale.

Luigi Spaventa riprenderà nel 2007 il tema — annunciato nel 1999 — del rischio degli impieghi delle banche e di default degli emittenti, e in particolare quello del sistema bancario, osservando che questo:

Diversamente da quanto si attendeva, è stato un portatore del contagio […] se ne accorgono ora le banche centrali e le autorità di vigilanza: le quali distribuiscono freneticamente questionari per appurare quale sia, dietro le quinte dei bilanci e per il tramite di terzi, l’esposizione effettiva delle banche sistema a quei rischi del credito che usciti dalla porta sono in parte tornati dalla finestra.

La bolla speculativa della new economy

Nel corso degli anni 1998-2000 crebbe anche una bolla speculativa, principalmente sui titoli della cosiddetta new economy, durante la quale i rapporti che esprimevano la redditività dei detti titoli (quello fra prezzi e utili, quello fra prezzi e dividendi) avevano raggiunto livelli mai toccati prima, sia negli Stati Uniti, in un’esperienza secolare, sia in Europa, in un’esperienza pluridecennale. Si rammenti che alla fine del 1999 il rapporto fra prezzi e utili delle società di telecomunicazioni, di tecnologie informatiche e di mezzi di comunicazione eccedeva di circa il 50% quello dei titoli industriali, ed era il doppio di quello dei titoli bancari. Nel complesso, nel corso del 2000, la capitalizzazione di borsa aveva incrementato ulteriormente il suo peso rispetto al PIL, superando il 70% (66,1% a fine 1999, e 45,4% a fine 1998). Non stupisce che al termine della bolla speculativa l’aggiustamento sia risultato particolarmente violento per i titoli dei settori più innovativi.

La risposta violenta del mercato fu un fulmine a ciel sereno? Ovviamente no. Già l’anno precedente, nel «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per il 1999, dunque ancora nel corso della fase espansiva della bolla speculativa, Spaventa aveva avvertito che:

Ci si chiede sovente, è tutto oro quello che riluce? La capitalizzazione delle imprese neoquotate a livelli multipli dei prezzi di emissione riflette attese ragionevoli di profitti futuri o non è piuttosto l’effetto della «esuberanza irrazionale» che il nuovo, purché sia nuovo, suscita nell’investitore? Il mercato dà a volte risposte brutali. Non spetta alla Consob esprimersi sulla congruità dei livelli di quotazione.

E così, l’anno dopo, la risposta del mercato fu brutale. Nel 2002 Spaventa denuncerà, inascoltato, che:

La luce iridescente della gran bolla dei mercati (quando ogni anno gli utili dovevano crescere a due cifre e a tre cifre le quotazioni) aveva indotto un sonno della ragione: negli investitori; ma anche nei regolatori e in alcuni studiosi del governo di impresa. Gli occhi si sono riaperti su una realtà di insospettato squallore […] né si può parlare di poche mele marce, tanti sono i casi di raggiro degli investitori a opera di chi governava le imprese […] si ricorreva trucchi di finanza e di contabilità creativa […] i presidi interni non hanno funzionato: gli interessi degli amministratori indipendenti e dei revisori si sono allineati con quelli dei manager, da cui dipendeva la conferma dei primi e l’assegnazione di lucrose consulenze ai secondi.

I rimedi alla «realtà di insospettabile squallore» furono rinviati agli esiti di una indagine conoscitiva della Camera dei Deputati, e al recepimento della direttiva comunitaria sugli abusi di mercato. Più tardi, nel 2005, Luigi Spaventa tornò sul ruolo delle minoranze nei consigli di amministrazione e sulla questione degli amministratori indipendenti, che avrebbero dovuto esprimere con chiarezza la loro opposizione qualora una decisione del consiglio di amministrazione potesse danneggiare la società. Si chiedeva infatti, con un certo scetticismo:

Ma chi ci dice che ogni amministratore che soddisfi i requisiti formali di indipendenza, la cui conferma nell’incarico dipende tuttavia dall’azionista di controllo, è sempre pronto a mantenere quell’impegno?

Provvedimenti legislativi di carattere torrentizio

La Consob, per prima tra le istituzioni di vigilanza, si domandava in particolare se alla bolla speculativa avessero contribuito alcune informazioni societarie fornite dagli analisti finanziari. La riflessione riguardava in particolare gli intermediari polifunzionali (che svolgono quanto meno le funzioni di investment bank, commercial bank, broker, emittenti anche di strumenti derivati), che potevano essere indotti a operare in situazioni di conflitto d’interessi ad esempio tramite studi e statistiche aventi a oggetto titoli emessi dalle società quotate, ricerche che potevano presentarsi particolarmente critiche, alla luce dei rapporti che spesso legano i soggetti che le producono agli emittenti, oggetto degli stessi studi e ricerche.

I dati raccolti allora (cfr. tabella 7.1, infra) documentano che oltre la metà degli studi monografici diffusi e pervenuti in Consob dal 1998 al 2004 riportavano consigli di acquisto (buy), mentre soltanto il 6% circa indicava un consiglio di vendita (sell). Si noti anche che la frequenza dei diversi consigli operativi dati dagli analisti sulle prospettive delle società quotate non era variato sostanzialmente dal 1998 al 2004: quasi una «variabile indipendente» da tali prospettive.

Osservò più tardi Spaventa nel «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per l’anno 2002, che:

Il caso Enron ha attirato l’attenzione del pubblico su un problema che era già noto […]: l’affidabilità delle analisi sulle prospettive di società quotate […]. Il problema nasce dall’esistenza di un potenziale o effettivo conflitto fra le esigenze di imparzialità dell’analisi e i rapporti d’interesse intrattenuti con le società dalle istituzioni finanziarie che impiegano l’analista: la forza di quei rapporti troppo spesso travolge le cosiddette muraglie erette dalle regole interne che dovrebbero separare l’attività (molto lucrosa) di assistenza finanziaria e di consulenza da quella di studio (assai meno lucrosa).

Tabella 1 — Distribuzione degli studi monografici per tipologia di consiglio operativo

Nella tabella 1 (supra) si constata che il consiglio operativo aveva continuato a prevalere anche negli anni 1999 e 2000 (rispettivamente con il 57,5% e 58,2% dei consigli operativi), periodo nel quale si sviluppò la bolla speculativa e poi la sua crisi, motivo per cui il sospetto della «variabile indipendente» non appare smentito. Nel corso degli anni successivi al 2000, la propensione degli analisti a consigliare la vendita (sell) ha sempre mostrato percentuali assai modeste, da un minimo del 7,4% a un massimo di appena il 16,9% nel 2009: erano anni in cui la capitalizzazione di borsa cadde dal 49% del PIL nel 2007 al 30,3% nel 2009, per poi scendere al 22,5% del PIL nel 2012. Dal canto loro, i consigli operativi a comprare (buy) passarono da un massimo del 53,4% nel 2007 ad un minimo del 46,5% nel 2009, per raggiungere un nuovo massimo del 55,3% nel 2011 (e al 48,2% nel 2012) quando la capitalizzazione di borsa raggiunse il suo minimo del 20,6% del PIL (del 22,5% l’anno successivo).

Si può così concludere che anche la supposta razionalità degli analisti finanziari fu vittima (forse complice) della loro «esuberante irrazionalità»; oppure (direbbe oggi Luigi Spaventa) dei loro «esuberanti conflitti di interesse» con le società emittenti quotate.

Effetti imprevedibili delle nuove norme

In quel quinquennio i maggiori e più impegnativi sforzi della Commissione riguardarono il «collaudo» sul campo del nuovo testo legislativo costituito dal Testo unico della Finanza (TUF). Si trattava di una legge delegata che, come venne ampiamente dibattuto in sede parlamentare, traeva origine dalla delega al governo prevista negli articoli 8 e 21 (commi 3 e 4) della legge n. 52 del 6 febbraio del 1996, contenente le disposizioni per l’adempimento delle legge comunitaria per il 1994. Delega, tuttavia, che da parte di alcuni si temeva fosse una «delega in bianco» per gli aspetti di diritto societario.

Nel corso degli anni della presidenza di Luigi Spaventa, il Testo unico venne via via modificato dal D.L. 351 del 25/9/2001; dal D.LGS. 61 dell’11/4/2002; infine dal D.LGS. 274 dell’1/8/2003. Ma nel complesso non si trattò di variazioni legislative tali da apportare significative modifiche al quotidiano lavoro interpretativo della Consob.

A differenza di allora, vale invece la pena di segnalare ciò che avvenne negli anni successivi, per il perpetuarsi di provvedimenti legislativi di carattere «torrentizio». Negli anni della Consob di Luigi Spaventa, il Testo unico era composto da poco meno di cento pagine; era perciò agevole tenere a memoria le sue più rilevanti disposizioni legislative. Oggi (2013) il Testo unico si compone di poco meno di duecentocinquanta pagine e l’esercizio mnemonico di allora parrebbe del tutto precluso. Certo è che non pare che la legislazione successiva al 2003, introdotta da Parlamento e Governo, abbia soddisfatto, per la minuzia di molte disposizioni, il requisito richiesto da Padoa Schioppa quando auspicava una legislazione «semplice e per principi», così come auspicava anche la Commissione di allora.

Di ciò avvertì Luigi Spaventa nel suo primo «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per l’anno 1998, esprimendosi come segue:

Il sentiero che deve percorrere chi è chiamato a definire la normativa regolamentare in materia di economia e di finanza è assai stretto. Una normativa a maglie larghe, per principi, se meglio consente di recepire fattispecie nuove prodotte dall’innovazione finanziaria, rischia di lasciare margini troppo ampi di incertezza interpretativa, e pertanto di discrezionalità al regolatore. D’altro canto, una normativa a maglie strette, con una previsione minuziosa di casi, se offre maggiore certezza, con un incasellamento più agevole delle diverse fattispecie, è soggetta a un più rapido tasso di obsolescenza ed è costretta a inseguire le novelle della finanza per tipizzarle con novelle normative.

La cautela e gli auspici della Commissione, espressi dal suo presidente, furono rapidamente travolti negli anni successivi al 2003, quando il Parlamento, il Governo e i più diversi uffici legislativi, afflitti da una esasperata «ipertrofia dell’ego regolatorio», hanno voluto regolare e prevedere tutto minutamente, nel vano tentativo di inseguire l’inarrestabile processo d’innovazione finanziaria.

L’incessante collaudo delle nuove norme

Si è ricordato quanto sopra per sottolineare che, in presenza delle nuove norme, era ben chiaro alla Commissione, fin dall’inizio dei suoi lavori, che con riferimento al Testo unico il vero collaudo doveva essere compiuto soltanto giorno dopo giorno, da parte della realtà della finanza e dei mercati, in continua evoluzione.

Fu una preoccupazione che si manifestò già nel giugno del 1999, quando si dovette osservare sia che gli eventi recenti avevano sottoposto le norme a prove di resistenza di portata forse imprevedibile; sia che, con riferimento al caso dell’OPA su Telecom, le norme legislative e regolamentari che regolavano le offerte pubbliche erano state immediatamente sottoposte a una prova di carico di imprevedibile pesantezza, che non era stata prevista neppure dagli esperti consultati nella fase di redazione dei regolamenti.

Invero alla prova del mercato finanziario, e dell’incessante processo d’innovazione finanziaria che già da qualche anno stava caratterizzando l’industria finanziaria, il Testo unico mostrava un’evidente inadeguatezza anche su un altro aspetto cruciale: quello del suo «perimetro». Il riferimento è soprattutto all’art. 1 (Definizioni) del TUF, ove si enumeravano (anche oggi si enumerano) i singoli strumenti e prodotti finanziari che dovevano (e devono) rientrare entro il perimetro della vigilanza della Consob. Chi avesse oggi la pazienza di rileggere le modifiche ai regolamenti che si sono succedute negli anni, scorgerebbe la Consob impegnata nell’affannoso inseguimento delle innovazioni finanziarie da portare entro il perimetro della sua vigilanza.

Una stima dell’aggregato di attività finanziarie che sarebbe stato, in via teorica, oggetto di controlli sotto il profilo della trasparenza informativa nelle operazioni di offerta al pubblico fu compiuta nel 1998 (tabella 7.2, infra). Ma dal momento che gli ambiti applicativi delle norme del Testo unico erano (e sono) delimitati anche dalla nozione di «strumento finanziario», si configurava (e tutt’oggi si configura) il rischio di una progressiva restrizione del perimetro regolamentato. Quella stima conferma che la lista degli strumenti finanziari esistenti al momento dell’elaborazione del Testo unico (contenuta nell’art. 1) rischiava già allora di divenire rapidamente obsoleta per gli effetti dell’incessante innovazione finanziaria che caratterizzava i mercati, senza che ciò producesse alcuna automatica integrazione di quella lista. In realtà, era lo stesso Testo unico che restringeva notevolmente il perimetro entro cui si esercitavano i controlli di trasparenza della Consob, escludendo in particolare le obbligazioni bancarie.

Va ricordato infatti che valeva allora il caso di inapplicabilità (voluto con determinazione dall’industria bancaria) della normativa (obblighi degli offerenti e obblighi informativi) previsto dall’art. 100 lettera f, riguardanti la sollecitazione all’investimento di strumenti aventi a oggetto prodotti finanziari emessi da banche, diversi dalle azioni o dagli strumenti finanziari che permettevano di acquisire o sottoscrivere azioni, ovvero prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazione. Si dovrà attendere fino al 2005 per vincere la resistenza delle banche e abolire la citata lettera f dell’art. 100 del Testo unico, e per riportare nella loro responsabilità gli obblighi degli offerenti e gli obblighi informativi comuni a tutti gli altri soggetti che effettuassero la sollecitazione all’investimento facendo appello al pubblico risparmio.

Tabella 2 — Attività finanziarie e controllo della Consob

A conferma della rigidità delle enumerazioni dell’art. 1 del Testo unico, la Commissione ebbe occasione di segnalare al Governo (nella «Relazione al Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica» per l’anno 1998) che il Parlamento e il Governo avevano già avuto prova di tale inadeguatezza, allorquando nel disegno di legge in materia di securitization fu necessario affermare esplicitamente, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del Testo unico, l’equiparazione agli strumenti finanziari ivi contemplati dei titoli emessi a fronte delle operazioni di cartolarizzazione dei crediti. Ma tale segnalazione non determinò alcuna discussione sull’opportunità di introdurre nel Testo unico una norma di chiusura, che consentisse alla Consob di inseguire autonomamente il processo d’innovazione finanziaria per portare entro il perimetro della sua vigilanza i nuovi prodotti finanziari non minutamente elencati nell’art. 1 del Testo unico. E così, con notevole ritardo rispetto al processo d’innovazione finanziaria, si dovrà attendere il 2007 per la nuova identificazione e definizione degli strumenti finanziari di nuova progettazione, in assenza di una norma di allargamento del perimetro di vigilanza a disposizione della discrezionalità della Consob.

Le offerte pubbliche di acquisto e il loro breve furoreggiare

L’azione di continuo «collaudo» sul campo del Testo unico, e dei relativi regolamenti affidati dalla legge alla redazione della Consob, comportò che l’attività di manutenzione e revisione dei regolamenti stessi non risparmiasse né il regolamento sugli emittenti, né quello per gli intermediari e neppure quello per i mercati regolamentati. Ma già si avvertiva, con particolare riferimento alle normative sulle OPA, che avevano dovuto affrontare una dura prova di resistenza sul campo, sia che le scelte legislative operate nel Testo unico avrebbero dovuto essere riviste in occasione dell’adozione della direttiva comunitaria sulle offerte pubbliche, sia che il legislatore avrebbe dovuto, in tale occasione, colmare le lacune normative circa la procedura delle OPA e il momento, a decorrere dal quale, trovano applicazione gli obblighi di passività. Era questa una riflessione che nasceva soprattutto dall’esperienza della Consob maturata sul campo in occasione dell’OPA su Telecom, nel corso del 1999. Il «collaudo» di allora dimostrò che, nel caso delle OPA non concordate tra offerente ed emittente, la Commissione si trovava innanzi un problema di non facile soluzione, ovvero, lo segnalò Luigi Spaventa nella «Relazione» per l’anno 1999:

Il contemperamento fra tre diversi obiettivi non complementari fra loro: la tempestiva informazione al mercato, onde impedire un’asimmetria informativa a favore di molti soggetti per troppo tempo; la contendibilità delle società, che è uno stimolo per la creazione di valore a vantaggio degli azionisti; la tutela dei legittimi interessi delle società bersaglio dell’offerta.

Nell’affrontare i problemi posti per la prima volta all’attenzione della Commissione, il ricorso all’esame delle esperienze estere non aiutava. Ad esempio, negli Stati Uniti la società bersaglio poteva sempre e comunque compiere atti e operazioni volti a contrastare l’offerta. Nel Regno Unito, invece, il City Code privilegiava l’informazione al mercato e la contendibilità delle imprese. In presenza di un Testo unico particolarmente lacunoso sugli aspetti della contendibilità delle società quotate, la discussione in seno alla Commissione riguardò principalmente il problema del momento da cui fare decorrere la cosiddetta «regola della passività», ovvero il momento da quando inibire alla società bersaglio ogni attività di difesa.

Nel corso del 1999 il percorso fu accidentato. In un primo caso (OlivettiTelecom) la Commissione interpretò le lacune del Testo unico nel senso di fare decorrere la «regola della passività» dal momento della «prima comunicazione al mercato» della decisione degli amministratori della società offerente, prima della presentazione al mercato stesso del completo documento d’offerta.

Successivamente, anche per effetto di una pronuncia della giustizia amministrativa (relativa all’offerta di Assicurazioni Generali su INA), la Consob modificò il regolamento, aderendo a una interpretazione letterale del Testo unico della Finanza, per cui il momento rilevante per fare decorrere la «regola della passività» divenne quello della presentazione alla Consob del documento di offerta completo nelle sue parti, e non più quello della «prima comunicazione al mercato». Questa soluzione, obbligata dalle pronunce della giustizia amministrativa, ridusse non soltanto la trasparenza informativa, ma anche la contendibilità delle società quotate. Inoltre, non era conforme alle prescrizioni della «posizione comune» del Consiglio Europeo sulla proposta di direttiva sulle offerte pubbliche di acquisto.

L’intervento della giustizia amministrativa costituì un preoccupante segnale della progressiva «amministrativizzazione» dei mercati finanziari, che avvenne (nelle parole di Luigi Spaventa):

In seguito all’affermarsi di orientamenti giurisprudenziali che considerano impugnabili in sede amministrativa atti, come ad esempio pareri, comunicazioni o espressioni di orientamento, tradizionalmente non ritenuti tali perché non producono immediatamente effetti vincolanti sulla situazione di destinatari.

La contendibilità delle imprese

Seppure in presenza delle citate ambiguità di legge, il nuovo Testo unico (come detto, in special modo nella normativa dedicata alle offerte pubbliche di acquisto o scambio) fu l’occasione colta da molte società per modificare il controllo societario di altre imprese mediante la scalata agli assetti proprietari. Di fatto, questi comportamenti erano sconosciuti nei mercati mobiliari italiani e, come detto, misero a dura prova sul campo la tenuta delle norme del Testo unico, insieme alle conseguenti disposizioni regolamentari.

Fu comunque un’esperienza di breve durata, racchiusa entro il 1999 (tabella 3, infra). Concorsero all’eccezionalità dell’anno 1999, con oltre 54 miliardi di controvalore complessivo delle offerte, l’OPA su Telecom Italia (oltre 31 miliardi di euro), di Banca Intesa sulla Banca Commerciale Italiana (quasi 9,7 miliardi) e delle Assicurazioni Generali sull’INA (oltre 9,88 miliardi). Di fatto le tre OPA ora ricordate esaurirono il controvalore delle offerte che si manifestarono nel 1999 sul mercato del controllo societario.

Tabella 3 — Il mercato del controllo societario: offerte pubbliche di acquisto e/o di scambio su titoli di società quotate, in milioni di euro correnti

Poco o nulla invece è mutato nella struttura azionaria delle società quotate, che resta molto concentrata e poco contendibile. Infatti, quasi i tre quarti delle società quotate, pari a circa metà della capitalizzazione di borsa, sono tutt’oggi controllate di diritto o di fatto da un singolo azionista. Inoltre, permane elevata la separazione fra diritti di controllo e diritti patrimoniali, realizzata attraverso il mantenimento di strutture piramidali di gruppo.

Si può dunque trarre il convincimento che l’enorme lavoro condotto dal legislatore e dai regolatori per apprestare un quadro giuridico (principalmente tramite il Testo unico sulla Finanza) e regolamentare che favorisse il capitale di rischio pare non abbia avuto grande successo. Certo è che le aspettative di Mario Draghi e di Tommaso Padoa Schioppa riportate all’inizio di queste note non hanno avuto realizzazione, e le illusioni di molti sono andate perdute. Tempo sprecato? Oppure, come annoterà, con qualche disillusione, Luigi Spaventa a conclusione del suo mandato:

Il problema vero risiede nella persistenza di una scarsa propensione alla quotazione delle imprese italiane, le cui cause si rinvengono a loro volta in alcune caratteristiche della nostra struttura finanziaria e industriale. Dominano ancora banche inclini al finanziamento tradizionale, ma meno disposte o meno preparate (come risulta da studi fatti per Borsa Italiana) a offrire i servizi preliminari alla quotazione. Le imprese sono piccole e riluttanti ad aumentare la loro dimensione. Si privilegia il controllo familiare e il ricorso all’autofinanziamento. Ci si arrocca in settori tradizionali, ove si richiede un modesto impegno di investimenti per l’innovazione e lo sviluppo e dunque vi è minore necessità di capitale esterno di rischio. In conseguenza, i benefici ottenibili dalla raccolta di capitale sono modesti in rapporto ai costi della quotazione e agli obblighi da essa derivanti.

Oggi, a fronte di queste considerazioni di Luigi Spaventa, e dopo quindici anni dall’approvazione del Testo unico della Finanza e dalle illusioni perdute sullo sviluppo dei mercati dei capitali di rischio, ci si dovrebbe interrogare se sono tali norme a prevalere e a guidare l’evoluzione dei mercati finanziari o, invece, se non sia «l’ambiente» (direbbe Luigi Spaventa) a condizionare e a mostrarsi inadatto, per storia, tradizione e ordinamenti giuridici di civil law, a conformarsi a tali norme, spesso mutuate dagli ordinamenti di common law.

Ovvero: «Do norms matter anche nei paesi di civil law?» si dovrebbe ancora oggi chiedere qualche fautore della scuola della law and economics di stampo anglosassone, che al finire degli anni Novanta (se ne discuteva anche in Consob su sollecitazione del suo presidente) sosteneva la superiorità degli ordinamenti di common law per lo sviluppo dei mercati finanziari e il loro intreccio con la crescita economica. Superiorità degli ordinamenti che Luigi Spaventa ebbe occasione di criticare, sostenendo che:

Gli studiosi di law and economics (giuseconomisti?), soprattutto americani, mostrano più spericolato coraggio degli economisti […] non esitano poi a produrre proposizioni forti sulla relazione fra strutture proprietarie e protezione degli investitori: nelle quali tuttavia è spesso difficile rinvenire solide basi teoriche e fattuali; o stabilire un confine fra l’analisi e la storia degli istituti, che sarebbero utilissime, e le generalità futurologiche alla Fukuyama, che interessano proprio poco.

Seppure in presenza di dati sconfortanti (tabella 4, infra), la Commissione aveva sempre lamentato che la tendenza alla proprietà concentrata si manifestasse maggiormente laddove mancavano gli investitori istituzionali, o ove essa era troppo modesta e decrescente nel tempo. Infatti, nel 1998 le società con investitori istituzionali rilevanti erano circa il 26% del totale delle società quotate, nel 2011 si erano ridotte a meno del 5% (tabella 7.5, infra).

Tabella 4 — Società quotate

Era convinta, la Commissione, sia che gli investitori istituzionali esercitassero sovente un ruolo importante, di controllo e di stimolo al comportamento del management; sia che la loro mancanza favorisse sistemi di governo societario dove più difficilmente si rafforza la funzione degli amministratori indipendenti e più frequente è il cumulo di cariche in più consigli (interlocking). Ad esempio, nel 2000, nelle società quotate a Milano il numero di consiglieri che avevano un incarico in più imprese non appartenenti allo stesso gruppo era elevato: i consigli interessati dal fenomeno dell’interlocking erano 175, e gli amministratori presenti in più società coprivano circa un terzo del totale delle cariche di quelle società.

Da allora il fenomeno dell’interlocking e l’ambiente societario che lo sollecita non pare essersi attenuato, se alla fine del 2011, per le società operanti nel settore finanziario (banche, assicurazioni e altri intermediari quotati), le evidenze mostrano che in appena un caso su dieci (4 società su 42) non sono presenti interlocker; nel settore non finanziario quasi una società su tre non è interessata da tale fenomeno (67 casi su 219). Nel complesso, quindi, la presenza di almeno un consigliere con incarichi in altre società quotate riguarda 190 società su 261, pari a quasi i tre quarti del mercato in termini numerici, e al 96% in termini di capitalizzazione. Il fenomeno è particolarmente rilevante per 40 società, che rappresentano un quarto della capitalizzazione complessiva di mercato, nelle quali oltre la metà dei consiglieri esercita incarichi in altri emittenti.

Tabella 5 — Partecipazione al capitale degli investitori istituzionali rilevanti: società con investitori istituzionali con partecipazioni rilevanti, in percentuale delle società quotate

Luigi Spaventa sottolineava frequentemente che la disputa, allora sempre presente, sui sistemi economici basati sulle banche, in opposizione a quelli basati sul mercato, era da considerarsi alquanto retrò, per l’operare della «banca universale», vigilata dalla Banca d’Italia per gli aspetti della stabilità patrimoniale e dalla Consob per gli aspetti della trasparenza e della correttezza dei comportamenti sui mercati, secondo il noto principio della ripartizione della vigilanza per funzioni. L’accento, anche nell’opinione della Commissione, doveva dunque essere posto non tanto sulla contrapposizione tra industria bancaria e mercato finanziario, quanto piuttosto sul grado di monopolio dell’industria bancaria, e sul funzionamento e sulla trasparenza informativa dei mercati che, per effetto dell’incessante innovazione finanziaria, non segnalavano più i tradizionali confini tra mercato creditizio, mobiliare e assicurativo: una segmentazione dei mercati che invece sarebbe stata coerente con la vigilanza per soggetti, anche se una traccia di quest’ultima sussisteva nel mercato delle assicurazioni vigilato dall’ISVAP.

Si affacciavano allora nei mercati le «obbligazioni bancarie strutturate», contenenti un’importante componente derivata (e più tardi anche una componente assicurativa) la cui quota era fortemente aumentata rispetto a quella delle obbligazioni tradizionali, sino ad avvicinarsi a oltre l’80% del totale (tabella 6, infra). Si trattava di strumenti assai complessi, negoziati su un mercato concentrato e scarsamente competitivo, di cui era difficile la valutazione da parte dell’investitore sulla combinazione di rischio e rendimento del titolo strutturato. Erano titoli solitamente collocati direttamente dalle banche, senza passare per le Società di gestione del risparmio (SGR).

Tabella 6 — Obbligazioni bancarie strutturate. Consistenze monetarie in miliardi di euro

Per tale motivo la Consob, in sede di controllo del prospetto di quotazione, iniziò a richiedere agli emittenti una più puntuale rappresentazione dei profili di rischio. Osservò al riguardo Luigi Spaventa, nel «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario» per il 1998, che:

Un calcolo del prezzo corretto di tali obbligazioni implica una valutazione del prezzo teorico dello strumento derivato incorporato; analisi compiute dalla Consob hanno rilevato casi frequenti di disallineamento fra i valori teorici, che tengono conto dei rischi impliciti nello strumento, e i valori di mercato […]. È necessario] un più elevato grado di trasparenza nelle negoziazioni con la clientela che avvengono allo sportello. Resta ancora un problema di efficienza nel meccanismo di formazione dei prezzi, a motivo della segmentazione del mercato, del potere di monopolio di ogni banca nella negoziazione dei titoli di propria emissione e della rigidità dei sistemi di fissazione dei prezzi in acquisto e vendita. Questo problema può essere risolto in maniera efficace solo richiedendo la quotazione delle obbligazioni bancarie sul mercato ufficiale di borsa, al momento del loro collocamento.

Si aggiunga che, come osservava la Commissione, molte banche erano particolarmente attive in ciò che era denominato il «trading proprietario» sul mercato delle obbligazioni strutturate: le banche, dopo aver trasferito il rischio di credito, lo ricompravano e lo rivendevano per trarne profitti differenziali. Queste valutazioni fecero un certo scalpore nella stampa specializzata.

L’attenzione della Commissione venne allora posta anche sugli assetti proprietari delle Società di gestione del risparmio, ove la presenza preponderante di gruppi bancari faceva sì che circa il 92% del totale del patrimonio gestito da fondi comuni di diritto italiano fosse gestito dall’industria bancaria, mentre era soltanto marginale (pari complessivamente a poco più del 2%) la quota di patrimonio gestito riferita a intermediari finanziari non bancari e persone fisiche (tabella 7, infra). Si trattava, agli occhi della Commissione, di un segnale che mostrava l’inesistente attitudine del settore ad aprirsi alla concorrenza, con gli inevitabili maggiori costi per il risparmiatore e la contemporanea minaccia di conflitti di interesse tra istituto di credito, SGR, famiglia risparmiatrice.

Tabella 7 — Assetti proprietari delle società di gestione del risparmio, in % sul totale del patrimonio gestito

L’ambiente mostrava dunque una preoccupante conservazione degli assetti esistenti, che tuttavia continuò negli anni successivi. Infatti, nel biennio 20052006, il ruolo delle banche nel settore dell’intermediazione mobiliare si era ancora rafforzato, come emerge dall’incremento registrato dalla quota a esse riconducibile dei ricavi lordi e dei ricavi netti da intermediazione mobiliare. In particolare, il peso delle banche sui ricavi lordi passò dal 62% nel 2005 al 70% circa nel 2006, mentre la quota dei ricavi netti è cresciuta dal 76% all’85% circa.

Purtroppo, per gli anni successivi al 2006 la Relazione annuale della Consob non offre più le informazioni della tabella 7 (supra). L’ambiente non pare tuttavia variato negli anni successivi se si legge ancora che:

La concentrazione degli assetti proprietari delle società di gestione del risparmio in capo a gruppi bancari rimane tuttora un elemento di debolezza strutturale, sebbene siano in corso le prime operazioni di de consolidamento. Il collocamento dei fondi comuni aperti italiani è effettuato per circa il 90% da reti bancarie appartenenti al gruppo.

La manutenzione copre altri settori

Ai tempi della Commissione guidata da Luigi Spaventa avevano cominciato a svilupparsi anche le «obbligazioni non bancarie» (titoli spesso illiquidi e di difficile valutazione nella combinazione rischiorendimento), per effetto delle quali i risparmiatori italiani erano stati colpiti pesantemente dall’insolvenza di due debitori industriali (Cirio e Parmalat). Il fenomeno fu minutamente descritto nella «Relazione al Ministro dell’Economia e delle Finanze» per l’anno 2002, ove si rilevava che:

a) la quota del debito a media e lunga scadenza rappresentata da obbligazioni dei primi 43 gruppi operanti nell’industria e nei servizi era passata dal 53% al 61% circa;
b) gran parte dello stock delle obbligazioni dei principali gruppi industriali italiani (circa l’85%, pari a 55 miliardi di euro) era quotato sui mercati borsistici del Lussemburgo e dell’Irlanda, mentre le obbligazioni quotate su mercati regolamentati italiani (e in particolare sul MOT, il Mercato Telematico delle Obbligazioni) rappresentavano una quota di poco più del 20% del totale;
c) la netta preferenza per la quotazione su mercati esteri era probabilmente legata al fatto che gli adempimenti da assolvere nei confronti delle autorità di vigilanza di Irlanda e Lussemburgo erano minori e consentivano di collocare un prestito obbligazionario (soprattutto nel caso di offerte riservate agli investitori istituzionali) in tempi più contenuti di quelli possibili nel caso di offerta pubblica sul mercato italiano;
d) l’emittente dei prestiti obbligazionari, inoltre, risultava essere di frequente una controllata estera di una società italiana, e l’offerta avveniva spesso attraverso un collocamento iniziale sull’euromercato (cioè riservato a investitori istituzionali internazionali). Ciò, oltre a rispondere all’esigenza di effettuare l’operazione in tempi piuttosto contenuti, consentiva alle società di aggirare alcuni controlli previsti dal nostro ordinamento, non ultimo il limite quantitativo alle emissioni obbligazionarie alle imprese italiane, posto dal codice civile.

Fu questa l’occasione più importante per valutare, da parte della Commissione, l’adeguatezza della normativa esistente e l’eventuale necessità di interventi legislativi, soprattutto perché l’emissione di obbligazioni non bancarie non era avvenuta direttamente all’interno del mercato nazionale, fatto che avrebbe imposto il vincolo di presentare un prospetto analitico, ma attraverso l’euromercato, nel quale vigevano regole diverse. Per le «obbligazioni non bancarie», destinate a investitori istituzionali, era infatti sufficiente la predisposizione di un prospetto sintetico. Nel caso delle obbligazioni industriali era necessario verificare due punti: se, nel rispetto delle norme di correttezza, il risparmiatore non professionale fosse stato adeguatamente informato sulla combinazione di rischio e rendimento delle obbligazioni che si apprestava ad acquistare, e se non fosse stata elusa qualche norma relativa alla trasparenza delle operazioni di collocamento sul «mercato grigio di nome e di fatto»: le duequattro settimane durante la quali gli investitori professionali ricollocano i titoli presso gli investitori non professionali, ovvero i singoli risparmiatori.

La Commissione osservò allora che in altri ordinamenti (negli Stati Uniti, per esempio, ove l’emissione di obbligazioni non bancarie era ben più rilevante che in Italia), la protezione dell’investitore non professionale era affidata non soltanto all’informazione che deve essergli data al momento della scelta dell’investimento, ma anche a stringenti divieti imposti agli emittenti dei titoli e agli investitori professionali che li ricollocano, in particolare nella «rule 144» della SEC in vigore dal 1933, ove si introduce la categoria delle restricted securities. Per questi titoli il rimedio era radicale, ma semplice: non possono essere rivenduti agli investitori non professionali per almeno un anno (holding period).

Un nuovo provvedimento avrebbe dovuto riguardare il caso di un investitore professionale che acquisisce da un emittente, direttamente o indirettamente, titoli rischiosi (ad esempio senza rating) in un mercato non regolamentato che non impone il prospetto informativo: in tal caso, l’emittente deve trattenere tali titoli nel proprio portafoglio almeno per un anno prima di collocarli presso il pubblico degli investitori non professionali (i risparmiatori). Non per poche settimane, come potrebbe essere avvenuto nel caso delle obbligazioni Cirio. La logica economica sottostante a questo vincolo è tanto semplice quanto evidente: la rule 144 crea un forte incentivo affinché l’investitore professionale valuti con estremo rigore il merito di credito da assegnare all’emittente, poiché è lo stesso investitore che deve affrontare in proprio il rischio di insolvenza del debitore per un lungo intervallo temporale. Soltanto trascorso questo periodo l’investitore professionale potrà infatti trasferire ai risparmiatori il rischio di insolvenza del debitore.

La riflessione della Commissione di allora sull’opportunità di introdurre nell’ordinamento italiano l’obbligo dell’holding period per dodici mesi è ormai contenuta nell’art. 100bis del Testo unico. Ci si può domandare oggi se la sua assenza dagli ordinamenti previgenti abbia contribuito agli scandali delle obbligazioni Cirio e Parmalat.

Concludendo

La manutenzione dei regolamenti fu assidua anche in altri settori. Ne riporto due esempi che ritengo assai significativi. Il primo è quello relativo alla sostituzione di termini (razionalizzazioni e sinergie industriali) che nel caso delle esenzioni dall’obbligo dell’OPA rischiavano di essere fonti di interpretazioni e di valutazioni della Consob assai incerte e necessariamente discrezionali. Infatti, all’art. 49 del Regolamento per gli emittenti si disponeva che è causa di esenzione dall’obbligo di OPA l’acquisto:

Conseguente ad un’operazione di fusione o scissione, salvo che per effetto delle operazioni si configuri un acquisto rilevante ai sensi dell’articolo 106, commi 1 e 3, lettera a) e b), del Testo unico non conseguente ad esigenze di razionalizzazione o di sinergie industriali.

La principale preoccupazione della Commissione consisteva nella difficoltà di individuare le metodologie, i fatti e i precedenti che le consentissero di non incorrere in valutazioni discrezionali nell’interpretazione dei fatti e delle esigenze di «razionalizzazione e di sinergie industriali». Il che avrebbe richiesto alla Consob competenze e studi di natura «industriale», che non le erano ovviamente propri. Si convenne allora di sostituire le valutazioni discrezionali della Consob con la «voce degli azionisti». Il testo risultante dalla sostituzione (con delibera della Consob del 18 aprile 2001) nel Regolamento per gli emittenti della precedente disposizione fu il seguente: art. 49 lettera f):

È conseguente ad operazioni di fusione o scissione approvate, in base ad effettive e motivate esigenze industriali, con delibera assembleare della società le cui azioni dovrebbero altrimenti essere oggetto di offerta.

Il secondo esempio lo segnalo soprattutto per il modo di lavorare della Commissione guidata da Luigi Spaventa. Si tratta della revisione del Regolamento per gli emittenti, che vale la pena ricordare con qualche dettaglio poiché riguarda il «rilancio» dell’offerta nel corso di un’OPA concorrente. Il Testo unico (art. 103, Svolgimento dell’offerta) non andava oltre la previsione che la Consob, con regolamento, disponesse (comma 4, lett. c) riguardo «le offerte di aumento e quelle concorrenti, senza limitare il numero dei rilanci effettuabili fino alla scadenza di un termine massimo». Poiché nulla era suggerito a proposito di quali tecniche si potessero utilizzare per effettuare i rilanci da parte dei diversi offerenti, la Commissione interpretò questa disposizione nel senso delle offerte concorrenti basandosi su un sistema di «asta competitiva». Con questa scelta era coerente l’opinione della Commissione che si dovesse perfezionare il meccanismo dei «rilanci» che alcuni anni prima, nel caso dell’OPA sulla Rolo Banca, era stato causa di polemiche e di incomprensioni sull’operato della Consob. Tale orientamento — che condusse anche all’abolizione del 2% di aumento minimo per ogni rilancio — si concretizzò nel Regolamento per gli emittenti (con delibera n. 13086 del 18 aprile 2001). La disposizione venne poi ulteriormente modificata nell’aprile 2011, nella versione attuale dell’art. 44 del Regolamento.

Queste note, che costituiscono nulla più di una mia personale riflessione su alcuni, fra i tanti, problemi affrontati dalla Consob presieduta da Luigi Spaventa, si concludono con una testimonianza, un auspicio e una suggestione.

La testimonianza è per ricordare che Luigi Spaventa, a fronte della teoria dei mercati finanziari efficienti, della loro realtà già in fase di esuberante irrazionalità, e alla sfida incombente di «collaudare» per primo il Testo unico della Finanza che il Parlamento aveva appena emanato, guidò la Consob in modo asciutto ma mai severo, apprezzando e stimolando la collegialità delle decisioni, mantenendo un dialogo sempre aperto, trasparente e coinvolgente sia con i colleghi della Commissione, sia con i dipendenti della Consob di ogni ordine, grado ed età, di cui conquistò la piena fiducia. Anche nei momenti più aspri delle discussioni, Luigi Spaventa fu sempre attento alle argomentazioni più fondate degli altri; per le meno fondate si esercitava, seppure con qualche sofferenza, nelle virtù della pazienza e della tolleranza.

L’auspicio è che altri vogliano verificare se, e quanta, strada è stata percorsa dai tempi di Luigi Spaventa in Consob, muovendo dalle parole che lo stesso Spaventa pronunciò al termine del suo ultimo «Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario», il 6 maggio del 2003:

Un’istituzione moderna e capace di affrontare i mercati ad armi pari nel perseguimento dei suoi compiti: questo sempre più la Consob deve divenire, adeguando le sue regole e le sue procedure. Sono certo che saprà farlo.

Infine la suggestione, che prende lo spunto da alcuni ricordi personali più o meno antichi delle conversazioni con Luigi Spaventa, che mi consentono di ipotizzare che a fronte di alcuni esuberanti economisti, che esaltano le virtù dei mercati finanziari e del capitalismo finanziario, o di coloro che invece assimilano la finanza allo sterco del diavolo come ai tempi del medioevo, Luigi Spaventa, da «buon economista», avrebbe a tutti sicuramente ricordato — insieme con ogni probabilità a Nino Andreatta, altro «buon economista» — le parole con cui J.M. Keynes chiude il suo saggio del 1930 sulle «Prospettive economiche per i nostri nipoti»:

Guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico, di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di più profonda e più duratura importanza […]. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso.
Mi conforta nell’avere avanzato questa suggestione ciò che lo stesso Spaventa scrisse in uno dei suoi ultimi interventi a proposito della «Responsabilità degli economisti», e nelle risposte date ai numerosi commenti dei molti economisti che reagirono a fronte delle osservazioni avanzate sulle responsabilità della professione per la recente crisi finanziaria. In quell’occasione, Luigi Spaventa esortò la professione degli economisti a riflettere sulla crisi finanziaria con le seguenti parole:
Pensare con occhi nuovi, con una certa umiltà e senza difendere passate posizioni di rendita, potrà essere di grande beneficio alla disciplina. I più giovani e i più svegli devono capire che dei problemi ci sono stati — altrimenti non avremmo visto Hyman Minsky diventare un personaggio popolare nelle lettere degli analisti del settore privato ai loro clienti.

Anche per queste esortazioni, Luigi Spaventa ci manca.

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Filippo Cavazzuti professore ordinario dell’Università di Bologna, senatore della Repubblica (1983–1986), sottosegretario al tesoro (1996–1999), commissario Consob (1999–2003). Autore di libri e saggi in tema di debito pubblico, privatizzazioni, regolazione dei mercati finanziari, politica di bilancio. Opinionista di Firstonline.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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