Lo specchio di Tarkovsky nella critica del tempo

Un cinema di poesia

Mario Mancini
8 min readJan 15, 2024

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Film del 1974, scritto da Andrej Tarkovskij e Aleksandr Misarin
Regia di Andrej Tarkovskij; con Margarita Terechova (la madre e Natal’ja), Filipp Jankovskij (Alekseij a cinque anni), Oleg Jankovskij (il padre), Ignat Danil’cev (Ignat e Alekseij a dodici anni), Anatolij Solonicyn (lo sconosciuto)
Durata: 1h 48m
Streaming: Prime Video

Dice il regista: “Il protagonista è un uomo sui quarant’anni che si sforza di fare un bilancio della affascinante e vita precedente… Sullo schermo vanno avanti di pari passo tre storie: la prima è costituita dai difficile di ricordi dell’infanzia; la seconda è composta delle cronache di avvenimenti storici vissuti e compresi Tarkovskij sotto un’angolazione prettamente individuale; la terza è formata da ragionamenti psicologici che sono un po’ la sintesi di tutto il discorso”. Un film affascinante, anche se di non facile lettura.

La storia della Russia l’ha data Dio

Nel film, La signora Achmatova chiede a Ignat di leggere da un libro le parti della Lettera di Puškin a Čaadaev, 19 ottobre 1836, sottolineate con una matita rossa.

“Non c’è dubbio che lo scisma delle chiese ci ha separati dall’Europa e che non abbiamo partecipato a nessuno dei grandi eventi che l’hanno scossa, ma noi avevamo la nostra propria missione. È la Russia, sono i suoi spazi sconfinati ad aver assorbito l’invasione mongola. I tartari non hanno osato superare le nostre frontiere occidentali. Si sono ritirati nelle loro steppe e la civiltà cristiana è stata salvata. A questo scopo, abbiamo dovuto condurre un’esistenza assolutamente particolare che, pur lasciandoci cristiani, ci ha tuttavia resi profondamente estranei al mondo cristiano.
Per quanto riguarda la nostra insignificanza dal punto di vista storico, non posso decisamente essere d’accordo con voi.
E non trovate qualcosa di importante nell’attuale situazione della Russia, qualcosa che colpirà gli storici futuri? Anche se sono sinceramente devoto al nostro sovrano, non posso proprio entusiasmarmi vedendo quello che mi circonda; come letterato ne sono irritato, come uomo afflitto da pregiudizi ne sono offeso, ma vi giuro sul mio onore che per nulla al mondo vorrei cambiare patria, o avere un’altra storia, diversa da quella dei nostri padri, esattamente come Dio ce l’ha data.”

Dalla Lettera di Puškin a Čaadaev, 19 ottobre 1836

Tullio Kezich

Bilancio esistenziale di un regista che ha appena passato i 40 anni, Lo specchio è un film che rivendica al cinema il suo carattere di linguaggio poetico. Con procedimento più usato in Occidente che nell’URSS (si pensa a Il posto delle fragole, a 8 e 1/2, a Un uomo a metà) Tarkovskij esprime i suoi tormenti abbandonandosi ai ricordi e ai sogni, alle angosce e ai sensi di colpa.
Al centro dell’opera, composta di una ventina dl sequenze liberamente associate nell’alternanza del colore e del bianco e nero, sta una doppia figura femminile, la madre e la moglie, impersonata da Margarita Terechova. Nel passato remoto è la donna rimasta sola dopo l’abbandono del marito, il poeta Arsenji Tarkovskij che recita alcune sue poesie nella colonna sonora; in tempi più recenti è la moglie separata dell’autore.
Tra folate di vento, incendi improvvisi e scrosci di pioggia, il film restituisce a lampo l’immagine di una Russia prevalentemente rurale, turbata dai disastri del tempo di guerra e dalle paure del tempo di pace. Anche l’opzione politica del film, che è individualistica e libertaria pur nella pienezza di un patriottico romanticismo, trova echi solo sul piano privato, concorre a stimolare la contemplazione e la riflessione.
A tratti perfino il documento cinematografico o le ripetute citazioni dei disegni leonardeschi trovano posto in questa tessitura un po’ ermetica, dalla quale emergono un toccante panteismo, una vulnerabilità insanabile e uno stoicismo da “tragedia ottimistica”.

Da Tullio Kezich, Il nuovissimo Mille film. Cinque anni al cinema 1977-1982, Oscar Mondadori

Giovanni Grazzini

Lo specchio della memoria

Uno stupendo film artistocratico che attendevamo da cinque anni, e che a lungo farà da antidoto contro il cinema plebeo d’ogni continente. La riprova, dopo Andrei Rublev, d’un’altissima intelligenza poetica, nutrita da una cultura in cui i tormenti dell’anima slava s’intrecciano ai miti dell’arte occidentale, e il connubio fra Dostoevskij e Marcel Proust, con Dante e Leonardo sullo sfondo, e Bach, Pergolesi, Purcell di controcanto, genera uno dei più emozionanti viaggi nello specchio della memoria che scrittori, pittori e cineasti ci abbiano mai offerto.
Lo compie lo stesso Andrej Tarkovskij, che s’interroga sul presente, attraverso il passato, parlando di sé quarantenne e dei suoi rapporti con la madre, la moglie, il figlio, e rivedendosi insieme bambino e ragazzo: in un continuo intarsio di ieri e di oggi, di pubblico e privato, da cui emerge, radicato alla verità della natura, un senso preciso del fluire delle generazioni e una meditazione accorata sull’analogia dei destini.

La trama di un’autobiografia

Ribattezzatosi Aleksej, Tarkovskij è nel contempo il giovane figlio dei suoi genitori, che si separarono nel 1935, e il marito di sua moglie, dalla quale si è diviso negli anni Sessanta. Salvo che da ragazzo, il suo personaggio fa rarissime apparizioni: è una voce fuori campo, che rammemora e commenta. Dominano invece le scene le donne: colei che ha la doppia parte di giovane madre e di moglie (l’attrice magnifica Margarita Terechova) e colei che fa da madre anziana (Larissa Tarkovskaja, la vera madre del regista).
Rievocando, o meglio risognando, vari momenti della vita familiare, e intersecandoli con brani derivati da cinegiornali d’epoca, il film compone una trama di situazioni autobiografiche e storiche tessuta soprattutto di nostalgie e amarezze, dove l’inconscio e il ricordo si coagulano nei rimorsi d’un uomo malato che si sente in debito verso quanti gli sono stati vicini ma non può pentirsi di avere cercato la propria felicità.
E spera di conoscersi, di acquistare qualche forma di equilibrio esistenziale, confrontando la propria sorte a quella vissuta in un trentennio dal suo popolo, sicché anche identificando le donne di casa con la patria, e superando i reciproci dissensi nella stessa fedeltà alla gran madre russa che Puskin espresse in una lettera famosa.

La trama dei ricordi

Confessione e seduta psicanalitica, atto d’amore verso la terra che gli “mormora negli orecchi” e verso il padre Arsenij che, nuovo Virgilio, guida Tarkovskij nella selva oscura con le sue poesie (lette nella versione italiana da Romolo Valli), il film Lo specchio è una invenzione mirabile sotto tutti gli aspetti. Dopo un prologo simbolico in cui una dottoressa, ipnotizzandolo, dà a uno studente balbuziente la possibilità di esprimersi liberamente (forse l’arte, che quasi per magia restituisce la facoltà di comunicare), il film si apre sulla dacia nella quale Aleksej bambino trascorse le estati con la mamma e la sorellina, e scoprì le meraviglie del creato.
Il ricordo d’un incendio si incrocia con una telefonata, trent’anni dopo, in cui Aleksej adulto chiede perdono alla madre, e con un altro soprassalto della memoria: di quando la donna, negli anni delle purghe staliniane, impiegata in una tipografia, fu colta dalla paura di essere incorsa in un imperdonabile errore di stampa. Fu un falso allarme, ma disse quale senso di colpa fosse allora in tutti.
Ora Aleksej discute con la moglie Natalia il futuro del figlioletto Ignat. Nella misera casa di Mosca sono ospiti degli esuli spagnoli, che il ragazzo osserva con lo stesso stupore con cui suo padre seguì, nei primi anni Trenta, il lancio di un pallone aerostatico.

Gli inserti storici

Mentre la mano dell’uomo continua a sfogliare un libro su Leonardo da Vinci, ecco che resuscitano i tempi della guerra: le esercitazioni paramilitari cui anche i ragazzi erano costretti, l’assedio di Leningrado, la fine di Hitler, il fungo atomico. Una puntata nell’altr’ieri, con gli incidenti cino-sovietici sulle rive dell’Ussuri e le sfilate dei maoisti che rinnovano la minaccia dei mongoli alla Russia cristiana, ed eccoci di nuovo nella casa dell’infanzia, fra le braccia del padre venuto in licenza, quando la vita era bella perché tutto era ancora possibile.
Oggi invece il piccolo Ignat deve scegliere fra il padre e la madre, Natalia chiede al marito consigli su un nuovo matrimonio, e l’uomo si domanda se non si sia imborghesito.
Intanto ricorrono i sogni (uno soprattutto: sull’inutile tentativo di entrare nella casa dei nonni) e tornano gli anni dello sfollamento e della fame, quando la mamma cercò di vendere i pochi gioielli di casa. Finché la dolcezza dei campi fioriti e i dubbi del presente si spengono nella foresta. Alle speranze di ieri risponde il buio di domani. Chissà se l’uccellino liberato da Aleksej troverà un ramo su cui cantare.

La struttura libera e scarna

Questo filo di racconto non riesce a riassumere la potenza elegiaca del film, la sua struttura liberissima e arcana, la virtù con cui Tarkovskij, scivolando sugli oggetti e sui volti, alzando veli e facendo un uso eccezionalmente espressivo del sonoro, aiuta il dolore della coscienza e la consolazione della natura a espandersi oltre lo schermo, a levitare come i suoi personaggi.
Memore — come mai nel cinema sovietico — delle conquiste dell’informale, Lo specchio innesta molti dati della cultura moderna, compresa la grande lezione del documentario, sul tronco dell’umanesimo classico per cui la morte non esiste, e soltanto l’arte può conoscere l’assoluto contemplando l’atteggiarsi degli elementi primordiali.
L’operazione riecheggia modi decadentisti, e qualche ermetismo prodotto dal montaggio interno imbarazza, ma presi dal fascino delle associazioni oniriche, degli spunti animistici e delle reminiscenze pittoriche (Brueghel, Georges de la Tour, tutti i campioni dei valori plastici espressi dalle nature morte), dimentichiamo le pecche.
Attratti dai cento segnali fantastici e mentali trasmessi da una tavolozza in cui i colori si adeguano agli stati d’animo, facciamo nostri i rovelli e gli spasimi visivi di questo artista solitario e infelice. Raramente ci si ètrovati di fronte a un capolavoro del cinema che a ogni strato, pressoché in ogni sequenza, rivela una qualità d’immagine, e una eleganza di senso, altrettanto supreme.
L’infanzia di Ivan, Andrei Rublëv, Solaris sono superati. Soltanto l’ottusa e meschina burocrazia moscovita, nostalgica del realismo socialista, poteva detestare un film che proprio per il suo estremo soggettivismo, per il suo tingere d’epico un dramma privato, raggiunge il lirico planetario, dà l’ultimo colpo di pala alla fossa diZdanov.

Da Il Corriere della Sera, 8 aprile 1979

Georges Sadoul

Autobiografia lirica, inno alla madre-sposa, alla madre-terra, questo film, di cui fu a lungo vietata l’esportazione, è un film sincopato sulla ricerca vana della pace dei cuori in una “Russia eterna”, la Russia fuori del tempo, che la storia ha ridotto allo stato di miraggio.
Più apertamente mistico ancora di Andrei Rublëv, questo film, che ha la forte carica affettiva di un flusso d’immagini in superbo disordine, è soprattutto un orgoglioso rifiuto della storia.
Lo specchio non è un titolo occasionale: il narratore vede la sua donna cometa continuazione di sua madre perché gli errori si ripetono. La ripetizione è una legge, perché l’esperienza non si trasmette e ciascuno deve viverla.” (Tarkovskij).

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.