L’italiano, una lingua fra le altre lingue

di Italo Calvino (1964)

Mario Mancini
9 min readApr 4, 2022

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Oggi la situazione della lingua italiana non può essere studiata isolatamente, e nemmeno in contrapposizione generica con le grandi lingue europee prese in blocco, ma va vista nel quadro linguistico mondiale attuale. Quadro che è tutto problematico: non c’è lingua che possa dirsi perfettamente funzionale rispetto alle esigenze della civiltà moderna: né il francese, né il tedesco, né il russo, né lo spagnolo, e neppure (se pur per ragioni opposte) l’inglese. Per non parlare delle aree linguistiche che hanno problemi di gran lunga più gravi: in Africa, in Asia e nella stessa Europa.

So bene che queste affermazioni andrebbero suffragate da analisi che potrei abbozzare solo in modo approssimativo e che richiederebbero comunque la convalida degli specialisti. Per ora mi limito ad anticipare a titolo d’ipotesi qualche osservazione empirica, partendo dal punto ai vista della mia base d’osservazione: l’editoria libraria italiana e straniera.

Se ho detto che non c’è lingua che non abbia oggi gravi problemi non è per trarne la conseguenza che non abbiamo da lamentarci troppo dell’italiano; anche se qualche vantaggio dobbiamo ammettere d’averlo. Per esempio quello che la grande duttilità dell’italiano (questa lingua come di gomma con la quale pare di poter fare tutto quel che si vuole) ci permette di tradurre dalle altre lingue un pochino meglio di quanto non sia possibile in nessun’altra lingua.

Naturalmente è un vantaggio che ha una controparte di svantaggio quasi altrettanto grave: l’italiano è una lingua isolata, intraducibile. Una buona traduzione italiana di un libro straniero (riferiamoci al campo dove tutto è più difficile: la letteratura) può conservare un qualche sapori- no dell’originale; un libro di scrittore italiano tradotto il meglio possibile in qualsiasi altra lingua conserva del suo sapore originale una parte molto minore, o nulla del tutto. (Da ciò la fortuna all’estero di vari scrittori italiani che «a esser tradotti ci guadagnano»).

E si badi bene che anche il vantaggio del tradurre in italiano è relativo e parziale: per esempio, più si va nel parlato, nel popolare, specie per le lingue che hanno una dimensione gergale, più l’italiano fa cilecca, perché al livello popolare sconfina subito nel localismo e nel dialetto, mentre al livello della conversazione familiare, scherzosa, «borghese», è sempre stucchevole e — siccome il costume cambia di continuo — immediatamente «datato». (L’«italiano medio», come ben dice Pasolini, è una «lingua impossibile, infrequentabile»).

Questi della letteratura sarebbero ancora danni minori, o comunque prevedibili. Chi legge letteratura in traduzione sa già di compiere un’operazione approssimativa. La scrittura letteraria consiste sempre di più in un approfondimento dello spirito più specifico della lingua (nelle sue punte estreme d’un massimo d’espressività o nevrosi linguistica e d’un massimo di anonimità, di neutralità «oggettuale»), e come tale diventa sempre più intraducibile.

Passiamo dunque alla lingua di comunicazione, e vediamo come stanno le cose nel campo della comunicazione culturale. Lì il problema è quello di avere l’equivalente italiano d’un dato «codice» linguistico, specifico d’un dato campo di studi o d’una data scuola o tendenza. Problema che si è presentato molte volte e che si è molte volte risolto; l’importante è che il «codice» da introdurre nella nostra lingua sia un sistema rigoroso, e che lo si usi rigorosamente.

Da questo dipende la riuscita maggiore o minore dei risultati.

Ma vediamo i problemi del traduttore straniero di uno scritto italiano: di teoria, di critica, o solo d’informazione. Qui la duttilità dell’italiano non è più un soccorso ma un ostacolo, e subito si misura la distanza che separa le lingue e le culture. Per far capire a un anglosassone (ma anche a un francese!) cosa vogliamo dire con la parola «storia», che noi ripetiamo in tutti i contesti, ci vuole una fatica enorme: e spesso per concludere che è intraducibile. Certo, fuori d’Italia alcune fondamentali «chiavi» culturali italiane (Croce, per esempio) non sono state conosciute al loro tempo e di conseguenza non sono conosciute le varie fortune che hanno avuto i termini d’un dato «codice». (Anche la difficoltà di far conoscere Gramsci è di questo tipo). Questi sono i danni dell’isolamento culturale in cui siamo vissuti per tanto tempo, ma è inutile continuare a piangerci sopra.

Vediamo la situazione a partire da oggi, supponendo un traduttore in grado di rilevare con chiarezza qualsiasi «codice». Il guaio è che gli italiani in grandissima maggioranza scrivono senza «codice», cioè con vari «codici» insieme. Accumulano termini e termini delle più diverse provenienze; molti di questi termini mettono radici, sviluppano una loro storia italiana; e chi li impiega si riferisce a questa loro storia interna, allude, gioca di finezza e insieme d’ambiguità. Tanto tra noi ci si capisce sempre. E quando siamo tradotti cosa ne può venir fuori? Niente.

Per esempio: mettiamo che volessi far tradurre in francese o in inglese questo mio scritto. Dovrei riscriverlo di sana pianta, forse ripensarlo, consultandomi con una persona della lingua. E io ancora sono uno che con le parole va prudente (questo è anche un guaio perché ho molti modi di sfumare un’affermazione, quando non sono tanto sicuro del fatto mio, e nella traduzione tutte queste precauzioni vanno perdute: viene fuori un’espressione o troppo generica o troppo recisa).

Ma se uno va più forte nell’usare termini provenienti da «codici» diversi (come Pasolini che ne fa un minuzioso «collage» nazionale e internazionale) per farsi tradurre avrebbe bisogno d’una nota a ogni parola.

E un inconveniente da poco? Io credo, invece che sia gravissimo. Oggi ogni questione culturale è subito internazionale, ha bisogno d’essere subito verificata su scala mondiale, o almeno su una serie mondiale di punti di riferimento. Soprattutto in politica, naturalmente.

Per esempio, su “Rinascita” escono spesso degli articoli che dicono cose nuove non solo nell’ambito italiano, ma anche interessanti per la sinistra internazionale. E invece sono linguisticamente intraducibili.

Dove voglio arrivare con questo discorso? A dire che prima di scrivere nella propria lingua bisogna pensare in un’altra, o in una specie di esperanto che vada bene per tutti? Una pretesa di questo genere, per la nostra come per qualsiasi altra lingua, equivarrebbe a castrare il pensiero, ad appiattirlo, a privarlo della capacità di mettere in luce sfumature, di sviluppare intuizioni sottili.

Le lingue nazionali, anche se oggi sono tutte — avendone coscienza o no — in crisi, sopravviveranno ancora per alcuni secoli proprio per questo loro essere uno strumento di libertà e di creatività per ora insostituibile; e anche proprio perché ogni lingua ha dei limiti ma pure delle possibilità che sono suoi esclusivi.

Quel che voglio dire è che chi scrive per comunicazione dovrebbe (sto parlando anche per me stesso) rendersi continuamente conto del grado di traducibilità, cioè di comunicabilità, delle espressioni che usa. E non sto facendo uno dei soliti richiami allo «scrivere chiaro» che sappiamo essere spesso una pretesa filistea: si scrive chiaro quando si può, ma ci sono cose complesse (o non ancora chiarite) che si cercano di dire nel solo modo che si ha a disposizione.

Però bisogna sempre essere coscienti dei limiti del linguaggio che andiamo adoperando: calcolare la parte che è traducibile del nostro discorso, e la parte che non lo è, e perché non lo è. Se riusciamo a leggerci mentre scriviamo, (ci sono tanti, anche tra gli scrittori, che non sono capaci di leggersi, né mentre scrivono né dopo; vedono sul foglio una nuvoletta coi loro pensieri dentro, non le parole scritte), se riusciamo a sdoppiarci e a moltiplicarci in lettori diversi e abituati a usare altri «codici», potremo anche fare discorsi difficilmente traducibili ma sapendo di farli.

E allora forse la complessità linguistica come limitazione si potrà trasformare in complessità linguistica come ricchezza, come capitale tesaurizzabile dalla lingua.

Oggi il linguaggio politico italiano si è molto complicato, tecnicizzato, intellettualizzato, e credo che tenda a saldarsi in un arco che comprenda cattolici e marxisti, dagli uffici-studio morotei ai sindacati di classe.

E il linguaggio «tecnologico» di cui Pasolini ha descritto la nascita? A me pare, al contrario, che una terminologia che vuol essere specialistica senza riuscire a essere univoca, e una sintassi ramificata e sinuosa fanno di questo linguaggio uno strumento utile più a non dire che a dire. E un linguaggio che ai verbi che indicano un’azione precisa e diretta e concreta preferisce sistematicamente quelli che servono solo a mettere in relazione dei sostantivi che anche loro indicano astrazioni, il cui significato può essere definito solo dalla costruzione della frase. E un linguaggio in cui si possono mettere insieme frasi lunghissime senza un sostantivo concreto o un verbo d’azione (cosa che una volta credo succedesse solo in tedesco).

Questo, ai livelli più alti. Al livello più banale, c’è il linguaggio «obiettivo» del telegiornale, quando riassume i discorsi dei leaders politici: tutti ridotti a minime variazioni della stessa combinazione di termini anodini, incolori e insapori. Insomma, il vocabolo semanticamente più povero viene sempre preferito a quello semanticamente più pregnante.

E la politica esercita una influenza decisiva sul modo di parlare ai chiunque parla per «dirigere»: ho l’impressione (ma qui esco dalla mia esperienza diretta e potrò ricevere smentite o integrazioni) che anche ai tavoli dei consigli d’amministrazione, dei comitati tecnici, delle riunioni di rappresentanti commerciali non si parli diversamente.

Secondo me uno sviluppo «tecnologico» dell’italiano può notarsi soprattutto al livello della terminologia, per esempio, meccanica. (Il nome di ogni pezzo anche minimo d’un’automobile è uguale in tutta Italia e usato quotidianamente da ogni operaio meccanico; mentre la terminologia agricola era tutta diversa da una provincia all’altra; però in molte professioni artigiane — per esempio i tipografi — un lessico unitario e preciso non può dirsi un fatto nuovo; né è un fatto nuovo per la marineria; ecc.).

Al livello del linguaggio teorico, i vizi di cent’anni di burocratizzazione dell’italiano sono più virulenti che mai e finora hanno avuto ragione d’ogni spinta «tecnologica».

Se c’è un continuo arricchimento di termini tratti dagli studi specializzati (processo da tempo in atto nell’italiano), quello che è acquisito dalla lingua non è il rigore lessicale ma sono solo le sue immagini sonore, non è la soddisfazione di stringere la realtà in modo che non scappi ma è un nuovo sistema di allusioni, non è la fondamentale democraticità del rapporto tecnico con le cose ma un nuovo accento dell’Autorità.

Le mie conclusioni dunque sono in disaccordo con quelle di Pasolini. Ma prima devo dire che nel suo scritto ho trovato molto di stimolante e di vero, nella impostazione generale, in alcune delle rapide analisi stilistiche (non dove parla di me, purtroppo) e in parecchie osservazioni marginali (ma non dove dice che il giornalismo italiano è diventato di comunicazione e usa un linguaggio specialistico e razionale; no, su questo non c’è dubbio possibile, il giornalismo italiano è e resta il peggiore di tutti, anzi tende sempre a peggiorare).

Quanto alla affermazione di Pasolini che «è nato l’italiano come lingua nazionale» la saluto come nuova e benvenuta pagina della sua poetica, ma non la condivido come dato ai fatto. Forse perché prima non condividevo neppure l’affermazione che l’italiano non esistesse (l’«italiano» cioè esiste come fenomeno linguistico unico nel suo genere, diverso dal fenomeno «francese» da quello «inglese» ecc. a loro volta diversi tra loro), né ho mai pensato che i dialetti (questi dialetti decaduti, stracchi, bolsi, corrotti) fossero invece la salute e la verità. Ma anche quello che più condivido del discorso di Pasolini: l’insofferenza per l’«italiano medio», mi fa rifiutare l’illusione che sia avvenuto qualcosa di radicalmente nuovo.

Il mio ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e il più possibile preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare espressioni astratte e generiche. Per svilupparsi come lingua concreta e precisa l’italiano avrebbe possibilità che molte altre lingue non hanno. Ma la necrosi che tende a farne un tessuto verbale in cui non si vede e non si tocca nulla lo sta cancellando dal numero delle lingue che possono sperare di sopravvivere ai grandi cataclismi linguistici dei prossimi secoli.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 51–56

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, Cuba, 1923 — Siena 1985) ha partecipato alla Resistenza ed è autore di numerose opere narrative, tutte pubblicate da Mondadori. Della sua vivace attività come redattore e animatore della casa editrice Einaudi è documento la raccolta di lettere editoriali I libri degli altri (Einaudi «Supercoralli», 1991). Il suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno è uscito nei «Tascabili Einaudi» nel 2002. È uno dei più importanti scrittori italiani del dopoguerra.

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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