Un’esperienza poetica

di Vittorio Sereni

Mario Mancini
5 min readApr 4, 2022

Vai alla serie “Il secolo di Pier Paolo Pasolini. La questione della lingua e altre questioni”

Alla luce delle proposte e delle sollecitazioni che si presentano in questa apertura di dibattito, voi mi chiedete di esporre quella che è stata la mia esperienza. Non vorrei, però, cadere nell’autobiografia: non so proprio quanto possa servire in questa occasione. Piuttosto, per descrivere una esperienza, per verificarla, occorre avvicinare indicazioni e fatti precisi. Sarà meglio tornare indietro, risalire ai rapporti che successivamente ciascuno di noi ha vissuto, operando e subendo un’atmosfera di mutamenti linguistici.

Con sincerità voglio premettere che io non me ne sono mai fatto un problema. Non che sottovalutassi la portata del problema. Voglio dire che non me lo sono mai posto teoricamente. Vivo a Milano da anni. Dipende magari dal fatto che sono sempre stato in un certo ambiente: il problema per me non si pone o si è .già posto prima.

Nel senso che questa «unità» linguistica, come la si può vedere attraverso le proposte che ora vengono formulate, è una cosa che io dentro di me davo per scontata. Cioè, quando mi imbattevo — nel ’47 o nel ’50 o ’52 o anche successivamente — , non nella pagina di un libro, ma nei linguaggi divulgati di tanti mezzi, diciamo, della radio, o diciamo di certo cinema, dello stesso spettacolo di varietà; oppure, diciamo, nelle forme di spiritosaggine della gente, o ancora prima, durante e prima della guerra, ad esempio nei giornali umoristici, quando si pubblicava e si leggeva «Il Bertoldo», io guardavo con stupore all’apparente prevalenza del romanesco.

Era come se si trattasse di un paese straniero. Con tutto il pittoresco e il folclorico che questi incontri bruschi comportavano. Guardavo tutto questo, convinto che la lingua fosse un’altra. Non quella lì. C’era da dirsi, va bene; lasciamoli sfogare, lasciamoli divertire. Però la lingua seguiva un’altra direzione.

Molti, credo, hanno avuto questa esperienza, in una situazione come la nostra, estremamente diversa. Si può addirittura risalire alla Milano di Persico. Dovrà risultare, penso, dai volumi di Persico usciti proprio in questi giorni, e che non ho ancora avuto il tempo di vedere. Certamente essi riproducono cose di cui ci eravamo dimenticati. Cioè, Milano ha avuto da anni, già dal tempo del fascismo, una specie di istanza europea che le altre città italiane ignoravano.

Anche questo va considerato. («io la guerra la farò nonostante il parere contrario del granducato di Milano» non per niente pare si infuriasse il Gran Capo durante una riunione di gerarchi tra il ’39 e il ’40).

Se c’è stato un condizionamento dello scrittore, diciamo pure, nel mio caso, dello scrittore di versi, da quegli anni ad oggi, per quanto riguarda le forme di linguaggio, come si è prodotto? La mia esperienza si può descrivere così. Tutto è stato falsato in partenza da un malinteso, da quella specie di «rigore», diciamo così, di rarefazione avvertita come necessaria, di essenzialità che era non la «scuola», ma l’aria o l’atmosfera assegnata alla poesia, in quegli anni, fra il ’30 e il ’45 io scrivevo poesie. Non scrivevo in prosa se non in qualche caso determinato e, scrivendo in prosa, facevo una fatica terribile.

A parte quelle che possono essere le remore del temperamento, le difficoltà si presentavano, ad esempio, quando scrivevo articoli di critica letteraria o simili per “Milanosera”. Una fatica terribile nata da una paratìa inconsapevole messa fra versi e prosa o dal non aver visti o considerati debitamente i rapporti fra questa e quelli. Scrivendo in prosa sentivo che ero un «rondista». Senza volerlo.

Odiando dal profondo quella piega, quella scappatoia che mi portava a scrivere in modo genericamente rondista. Per cui, ogni volta che scrivevo in prosa, mi pareva di salire su una cattedra, di prendere un tono — magari falsamente affabile — che non era il mio tono, neppure quello che volevo.

Ma in quegli anni — per tornare al fatto dello scrivere versi — non avevo la preoccupazione della lingua, o se vogliamo del linguaggio. C’era piuttosto, per me, la preoccupazione dell’accento. La poesia, nei termini in cui essa si poneva durante i primi anni della mia ricerca, semplificava e al tempo stesso rendeva astratta la questione. Intorno a noi s’era affermato una specie di italiano illustre. A quell’italiano illustre, quando si scriveva poesia, ci si riferiva. Tutto questo appariva pacifico.

Qual era, allora, la mia difficoltà? In quale senso si manifestava? Nel senso che la mia tendenza era, se si vuole, per una poesia «realistica» nelle sue esigenze; di fatto, con timide venature realistiche. Una poesia che mi permettesse di nominare, di dire tranquillamente la parola automobile, o la parola bicicletta, o la parola semaforo, o cavalcavia, o cose di questo genere, che erano poi le cose che sollecitavano in me una specie di entusiasmo biologico (dico entusiasmo, anche se non pareva, anche se mortificato nella strozzatura d’obbligo, invariabilmente elegiaca).

Nell’atmosfera descritta prima si sentiva la collocazione innaturale, lo stridore fra quegli oggetti che ho appena finito di nominare, e quella specie di necessità, di «rigore», di non affastellare, di non mettere giù le cose come venivano, ma di dar loro una specie di giro non proprio musicale, ma armonico.

Non diciamo, cioè, musicale, ma in cui entrasse musica dal profondo. Questa è stata la vera difficoltà. I punti di passaggio successivi, l’atmosfera mutata, hanno influito a determinare un mutamento di rapporti. Prima d’ogni altra cosa l’esigenza di allargare la cerchia, sfuggendo al vecchio e malinteso rigore. Ma io penso tuttora, in qualche modo, che la poesia sia, appunto, questione di accento.

Così si ritrova anche il rigore, non più come premessa, ma come fatto definito, costruttivo, come coronamento o risultato poetico. Non come base di partenza o come ricerca dannatagli di strumenti linguistici o paralinguistici più o meno espressivi. Piuttosto, nella qualità costruttiva dell’accento poetico, come punto di arrivo; ma anche come tramite o veicolo — utopistico o no — verso il lettore, magari generico, e non necessariamente «specializzato», non di quelli che trovano l’esca saporita solo se si presenta» come «soluzione» a problemi tecnici nati da una convenzione preliminare fra operatore e utente.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 57–60

Vittorio Sereni (Luino 1913- Milano 1983) Cominciò a lavorare come insegnante di italiano e latino nei licei milanesi, frequentando l’ambiente di letterati e artisti che facevano capo alla rivista “Corrente” con la quale pubblicò nel 1941 il suo primo libro di versi, Frontiera, ancora legato all’Ermetismo. Le vicende personali durante la Seconda guerra mondiale ispirarono le liriche del Diario d’Algeria (1947). Nel dopoguerra lavorò prima all’ufficio stampa della Pirelli (1952–58) e poi come dirigente editoriale alla Arnoldo Mondadori (1958–75). Nel 1965 uscì il suo terzo libro, Gli strumenti umani, che segna l’abbandono dell’ermetismo. Nel 1981 uscì il quarto libro poesia, Stella variabile. Sereni è stato autore anche di saggi, di memorie (Gli immediati dintorni, 1962; Letture preliminari, 1973) e di traduzioni poetiche.

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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