L’italiano nella UE fino al grande allargamento

1. Il regime linguistico dell’Unione europea. Prima parte

Mario Mancini
7 min readJun 18, 2023

di Daniele Vitali

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I sei Paesi fondatori della Unione europea. Da sinistra in senso orario: Belgio, Germania federale, Francia, Italia, Paesi Bassi e Lussemburgo

Come sappiamo l’Unione europea è una sorta di Babele di lingue che, però, ha anche bisogno di parlare non con una pletora di lingue ma con una lingua o più lingue che la contraddistinguano. Il dibattito sul regime linguistico europeo è anche una questione politica, di culture e anche di importanza visto che la lingua segna un ruolo primario nel determinare l’dentità di un paese.

Daniele Vitali, glottologo e autore di goWare, lavora da molti anni nell’Unione europea (25 anni) e il discorso sulle lingue dell’Unione e il loro intrecciarsi è per lui qualcosa di molto familiare. Gli abbiamo pertanto chiesto di intervenire, con due post, sulla questione dell’italiano nel regime linguistico dell’Unione.

Secondo Daniele fra i tanti aspetti dell’Europa che sfuggono ai politici della Seconda Repubblica c’è il suo regime linguistico. Gli abbiamo allora chiesto di spiegarci il senso di affermazione e di che cosa si tratta.

Buona lettura!

L’italiano lingua di concorso

Durante il Berlusconi IV (2008–2011), il ministro per le politiche europee era un certo Andrea Ronchi il quale, incaricato di “supportare il governo nella gestione dei rapporti con le istituzioni dell’UE”, trascorreva le giornate su RAI e Mediaset a lamentarsi delle discriminazioni cui a suo dire l’Unione europea sottoponeva la lingua italiana.

Pietra dello scandalo erano le modalità di svolgimento dei concorsi per i posti di funzionario dell’UE, che l’esponente di Alleanza Nazionale riteneva inaccettabili: “L’Italia non può assistere passivamente all’affermazione di un trilinguismo di fatto e per questo il governo italiano è intenzionato a presentare ricorso”. E aggiungeva, con idealistico afflato: “Non è così che si costruisce l’Europa” (come noto, primaria preoccupazione del suo partito).

Il nostro eroe nazionale aveva infatti scoperto che le nuove norme dell’Ufficio di selezione del personale dell’UE (EPSO), volte a snellire i concorsi per reclutare in tempi rapidi i futuri funzionari europei, prevedevano che le gare si svolgessero in francese, inglese e tedesco, ossia nelle lingue che da sempre assicuravano il funzionamento delle istituzioni di Bruxelles.

I requisiti di base del concorso

Apriti cielo: “il bando richiede la conoscenza approfondita di una delle lingue ufficiali dell’Unione e la conoscenza soddisfacente di una seconda lingua da scegliere sempre tra francese, inglese o tedesco. Una penalizzazione nei confronti della lingua italiana che deve terminare”.

Infatti, “d’ora in poi chi vorrà lavorare nell’UE sa che dovrà studiare una delle tre lingue privilegiate. In questo modo, saranno penalizzati tutti gli altri idiomi compreso il nostro. Con il forte rischio che i posti vengano comunque assegnati sempre più a francofoni, germanofoni o anglofoni”.

La modifica delle norme

Le norme furono poi modificate e oggi, a guardare la composizione del personale dell’UE in base alla nazionalità, si scopre che gli italiani sono fra i più numerosi, se non proprio i più presenti. Merito del nostro eroe nazionale? Pare di no, visto che la situazione era la stessa anche prima della sua crociata.

Cerchiamo di capire, dunque, come stavano e stanno davvero le cose.

Nel 1957 nacque la Comunità Economica Europea (CEE), che col tempo si sarebbe trasformata nell’odierna Unione europea. In quei pionieristici tempi il continente era diviso in due da un muro, e il primo embrione di quella che oggi è un’organizzazione sovranazionale formata da 27 Stati membri era costituito soltanto dai 6 paesi fondatori, ossia Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Italia (li cito in quest’ordine per motivi storici, ma non è quello protocollare, il quale richiede che siano elencati in ordine alfabetico sulla base del nome di ciascun paese nella sua lingua ufficiale).

Il funzionamento esterno…

Quando, dopo la ratifica del Trattato di Roma che istituiva la CEE, questa cominciò a funzionare, e proprio perché potesse funzionare, la prima decisione che presero i paesi fondatori fu quella relativa al regime linguistico: il 15 aprile 1958, i sei Stati membri riuniti in sede di Consiglio adottarono il regolamento n. 1 “che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea”.

L’articolo 1 stabiliva che “Le lingue ufficiali e le lingue di lavoro delle istituzioni della Comunità sono la lingua francese, la lingua italiana, la lingua olandese e la lingua tedesca”.

Tale decisione comporta implicazioni sostanziali, sancite dagli articoli successivi: significa che, allora come oggi, quando le istituzioni europee comunicano con uno Stato membro devono farlo nella sua lingua, quindi nel nostro caso in italiano, e che gli atti di applicazione generale, come i regolamenti e le direttive, devono essere pubblicati in tutte le lingue ufficiali.

Significa anche che, se un cittadino italiano scrive alla Commissione o al Parlamento, ha il diritto di farlo in italiano e di ricevere una risposta nella stessa lingua. Significa poi che i parlamentari europei hanno il diritto di esprimersi in italiano durante le sedute, e che lo stesso vale per i consiglieri del Comitato economico e sociale europeo e del Comitato delle regioni.

Infine, significa che quando Andrea Ronchi andava a Bruxelles per partecipare alle riunioni del Consiglio aveva il diritto di esporre le proprie acute doglianze in italiano.

…e il funzionamento interno

Orbene, le regole fin qui viste valgono per i cittadini, i parlamentari, i ministri e gli esperti ministeriali nazionali, ma non per i funzionari europei, ossia per il personale di carriera incaricato di far funzionare la macchina istituzionale mentre i politici si succedono alla testa delle istituzioni.

Al momento in cui la CEE fu creata, l’importanza del francese era tale che i suoi dipendenti quasi sempre lo usavano fra loro come lingua veicolare. Naturalmente, la conoscenza del tedesco, dell’italiano e dell’olandese era un utile strumento, e a quei tempi era ancora possibile parlare tutte le lingue dei colleghi, dato che ce n’erano soltanto quattro.

Coi successivi allargamenti esplode il plurilinguismo

Ma, col successo della costruzione europea, il poliglottismo paritario si fece un tantino complicato: nel 1973 arrivarono la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito, così che il novero delle lingue ufficiali venne a includere danese e inglese (l’Éire rinunciò a far riconoscere il gaelico irlandese perché meno parlato dell’inglese anche sul suo suolo, una decisione su cui sarebbe tornata in seguito).

Il risultato fu che, nel funzionamento interno delle istituzioni, l’inglese si aggiunse alle altre quattro. Dato il peso di quella lingua, i funzionari cominciarono a utilizzarla accanto al francese, così che si instaurò un regime di fatto in cui i documenti interni destinati al personale venivano scritti in francese e inglese, spesso con l’aggiunta del tedesco.

La prevalenza del francese

In effetti il francese rimase a lungo la lingua prevalente, per diversi motivi: una questione di numeri (allora gli italiani sapevano più spesso il francese dell’inglese), una questione geografica (la sede principale della CEE fissata a Bruxelles, affiancata da Lussemburgo e Strasburgo), il fatto che allora gli inglesi studiavano ancora le lingue straniere (e dunque molti arrivavano parlando benino o anche bene il francese).

Nessun italiano fiatò mai contro questa situazione di fatto, né lo fecero i tedeschi che anzi, fieri di sapere le lingue straniere, erano i primi a non aspettarsi di usare la propria con i colleghi.

Nel 1981 aderì la Grecia, e così anche il greco divenne lingua ufficiale della CEE. Nel 1986 con l’ingresso di Spagna e Portogallo fu la volta di spagnolo e portoghese, nel 1995 di finlandese e svedese: aderirono infatti Austria, Finlandia e Svezia, ma la prima non aggiunse alcuna lingua ufficiale, dato che il tedesco era già riconosciuto dal 1958.

L’ascesa dell’inglese

Quando tre anni dopo diventai traduttore della Commissione europea, il regime linguistico era dunque a 11 lingue, e fra di noi si contavano sulle dita di una mano coloro che le conoscevano tutte. E sì che i traduttori erano e sono i più poliglotti di tutti i funzionari europei: basti pensare che, per essere assunti all’UE, bisogna sapere almeno due lingue, ossia la propria più un’altra (e tutti oggi arrivano con l’inglese), ma per i traduttori la regola è di tre, cioè la propria e altre due.

Per completare il quadro: anche tutti gli altri dopo l’assunzione devono arrivare a due, se vogliono essere promossi, e optano quasi tutti per il francese, considerato particolarmente appetibile in quanto lingua più usata nella capitale del Belgio.

L’italiano fa parte in teoria delle lingue che consentono di fare carriera, ma per motivi pratici non è il primo della lista fra quelle studiate (nemmeno il danese, ma non ho mai sentito di un ministro di Copenaghen che se ne sia lagnato).

Con tanti paesi, a cominciare da quelli scandinavi, i funzionari europei che scrivevano le direttive cominciarono ad utilizzare sempre di più l’inglese per lavorare insieme, e così al mio arrivo, per la prima volta, questo aveva appena superato il francese come numero di pagine da tradurre nelle altre lingue ufficiali, compreso l’italiano.

Nella seconda parte del post vedremo che cosa è successo con il grande allargamento.

Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.