Linguistica e sociologia

di Mario Spinella

Mario Mancini
5 min readApr 6, 2022

Vai alla serie “Il secolo di Pier Paolo Pasolini. La questione della lingua e altre questioni”

Le ipotesi sulla trasformazione linguistica in atto avanzate recentemente da Pasolini hanno un evidente sfondo sociologico. Esse muovono infatti dalla affermazione che oggi, per la prima volta in Italia, un gruppo sociale (la borghesia neocapitalistica) sarebbe in grado di imporre la propria egemonia, anche linguistica, sul paese.

Da qui la «nascita della lingua nazionale» e lo spostamento dell’asse formatore e propagatore di questa lingua nel triangolo industriale (tralasciamo, ovviamente, molte deduzioni, qui meno pertinenti).

Questa ipotesi si può contestare da diversi punti di vista, come si è cominciato a fare. Si può muovere la obiezione metodologica formulata, con quel tanto di provocatorio che gli è proprio, da Umberto Eco sull’Espresso del 24 gennaio: «E anche sbagliato, secondo me, dire che la nuova lingua italiana sia quella della neoborghesia. Nei problemi di linguistica, io sarei staliniano. È difficile ricondurre specularmente il divenire di una lingua alla sola influenza delle classi egemoni».

Eco si riferisce all’affermazione di Stalin secondo cui la lingua non sarebbe una sovrastruttura; quasi che Pasolini l’avesse sostenuto, o che fosse implicita nel concetto di sovrastruttura la dipendenza immediata dalla classe dirigente: il che non è certo quanto il marxismo intende.

Quando si fa un discorso marxista sulla lingua occorre infatti, in primo luogo, rifarsi alla definizione di Marx, che «la lingua è l’espressione immediata del pensiero». Sicché occorrerebbe, pur volendosi mantenere nel quadro dell’approccio (ahi, linguaggio «tecnologico»!) di Eco, chiedersi, semmai, se esista davvero in Italia un «pensiero» neocapitalista, o neoborghese, così originale e così espansivo da imporsi come modo di pensare unitario. Il che è davvero assai dubbio.

Ancora: se si adottano modelli sociologici di analisi, non ci si può fermare davanti alle grandi generalizzazioni, quali possono essere la dinamica delle classi, o gli stessi mutamenti all’interno di una classe. Esatto perciò appare il richiamo di Eco — e di Moravia nella stessa occasione — ai mezzi di comunicazione di massa come centri di elaborazione e diffusione della lingua nazionale. E questi, almeno per ora, non parlano affatto una lingua «tecnologica», bensì (Moravia) una «lingua scialba» che si rifa, impoverendolo, all’italiano medio, «ridotto e mutilato», come osserva Eco.

Vi è, del resto, anche a voler fare provvisoriamente proprie, per ribatterle dall’interno, le tesi sociologiche di Pasolini, una obiezione di fondo sul terreno specifico della sua analisi. E del tutto vero che il momento attuale della dinamica sociale italiana possa ridursi alla presa del potere da parte di una borghesia «nuova»?

Non è invece il processo estremamente contraddittorio, operante in presenza di un movimento operaio che non solo influenza larghissime masse, ma penetra, con la sua ideologia e col suo linguaggio, nella cittadella stessa dell’avversario di classe? Sarebbe interessante, a questo proposito, che un linguista studiasse quanto della terminologia marxista, o paramarxista, è penetrato nell’area linguistica dei «tecnologi». O, più in generale, quanto del linguaggio politico ai sinistra abbia influenzato quello «tecnologico». (A meno che anche questo linguaggio non venga definito «tecnologico»; nel qual caso, tuttavia, la «neoborghesia» non ne sarebbe più l’unica portatrice).

Ma non vogliamo qui continuare sul terreno di una serie di rilievi in parte già fatti, in parte addirittura ovvi, sulle tesi di Pasolini. Chiediamoci piuttosto: se quella di Pasolini è «cattiva», o almeno opinabile, sociologia, donde trae egli la sua ipotesi, e da che cosa questa ipotesi deriva a sua volta unta forza da avere immediatamente stimolato un così ampio dibattito?

Probabilmente queste tesi, più che in chiave di analisi sociologica, vanno lette come discorso ideologico e autobiografico. Dire insieme ideologia e autobiografia significa poi, chiaramente, richiamarsi alla definizione originaria di Marx della ideologia come falsa coscienza.

Pasolini razionalizza e generalizza — ripetiamo, probabilmente — una esperienza non solo personale, di scrittore. Giova richiamare una nota di Elio Vittorini (del 1956) nel suo Diario in pubblico:

«P.P. Pasolini… (nel romanzo Ragazzi di vita) ottiene effetti analoghi a quelli di Gadda presentando travestiti da realistici interessi che direi essenzialmente filologici. Mentre il Gadda, al contrario, presenta travestiti da filologici interessi che sono essenzialmente realistici. Nel Gadda agisce la preoccupazione di non lasciar vedere che lo muovono le cose. Nel Pasolini agisce invece quella di non lasciar vedere che lo muovono le parole. E da che nascono preoccupazioni simili se non dalla retorica in auge al momento in cui uno scrittore si forma? Quando Gadda si formava era ancora in auge la retorica formalista detta della “Ronda”. Dietro alla formazione del Pasolini c’è in auge la retorica detta neorealista».

In questo senso il discorso di Pasolini può esser letto come un discorso autocritico, o almeno come un pubblico riconoscimento che la fase delle ricerche entro cui si era mosso soggiacendo in parte a quella che Vittorini definisce la retorica neorealista (che non è, ben inteso, la tendenza neorealistica, ma, appunto, la sua retorica) è da considerarsi superata e che pertanto le nuove ricerche letterarie devono essere condotte — se si vuol rimanere nell’ambito del realismo — su un altro piano, quello definito dalla nuova lingua nazionale in fieri.

Su questa base, Pasolini respinge sia le avanguardie neo-sperimentali, in quanto, egli dice, attestate astratta- mente, e quindi accademicamente, in un ipotetico futuro linguistico, quanto le conseguenze linguistiche della fase neorealista. Ed ecco come una «situazione zero» sociologica (momento di trapasso tra vecchio e nuovo potere borghese), coinciderebbe con una «situazione zero» linguistica e letteraria (la vecchia lingua non è più sufficiente, la nuova è solo, come lingua nazionale, in via di costituzione). Lo scrittore non può non essere in crisi, anzi la letteratura non può non essere in crisi.

Affermare che questo discorso si presenta come nettamente ideologico, non vuol dire tuttavia che esso vada respinto in blocco. Che venga posto da un intellettuale acuto ed attento come Pasolini; che susciti largo interesse ed ampia discussione, sono fatti sociologicamente rilevanti. Stanno a significare, intanto, l’esigenza di un profondo riesame critico della letteratura del ventennio postbellico, che ne sappia cogliere la dinamica al di là delle troppo rigide (e deformanti) valutazioni polemiche di parte. E sottolineano forse — questi fatti — qualcosa che riguarda più da vicino noi comunisti.

Da una parte, mentre la nostra influenza politica si consolida ed estende, appare, anche dallo scritto di Pasolini, come possa sfuggire che la dinamica del paese non è comprensibile al di fuori della presenza e della azione del movimento operaio; sicché ridurre i processi, anche strettamente linguistici, alla egemonia borghese-capitalistica è una linea di analisi sociologica del tutto insufficiente.

D’altra parte, in Pasolini e in numerosi altri intellettuali, si riscontra un uso sempre più largo di categorie marxiste: ma spesso impoverite, scarnificate, e, in ultima analisi, fortemente impregnate di determinismo. La costatazione che proprio in un periodo di acuta tensione ideale e teorica, attraverso cui ci sforziamo di affinare e sviluppare lo strumento marxista, questi intellettuali sembrano dare per scontata una nostra presa sulla realtà (politica e culturale) che sarebbe inferiore a quella di quindici o dieci anni fa, quando, fuori d’ogni dubbio, le nostre posizioni erano assai più rigide e schematiche, deve farci riflettere.

Perché non è da pensare che quanto si guadagna in qualità si perda in corposità e influenza reale, se ne può forse dedurre, per quanto ci concerne, una relativa inefficacia del nostro sistema di comunicazioni: un linguaggio troppo interno, forse; o forse una minore capacità di informare il mondo della cultura sulle posizioni che via via andiamo faticosamente acquisendo.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 78–81

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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