Lingua e società
di Michele Rago
Vai alla serie “Il secolo di Pier Paolo Pasolini. La questione della lingua e altre questioni”
Il discorso di Pasolini sulle Nuove questioni linguistiche ha proposto alla attenzione generale una problematica sulla quale lo scrittore era spesso tornato nei suoi saggi. Solo che, all’interno di quella problematica, molte cose appaiono mutate. Si insiste sul ritardo storico dell’italiano. Ma non si fa più questione di dialetto. Si indica piuttosto un ritardo di carattere qualitativo: quello di una lingua troppo espressiva e scarsa di immediatezza comunicativa.
È comprensibile che le recenti proposizioni dello scrittore abbiano provocato reazioni contrastanti, persino violente. In realtà, qualunque proposta andrebbe preliminarmente verificata. Ma, resa nota, essa merita una verifica altrettanto attenta per evitare un dibattito che si smarrisca in una selva di pareri — «io penso», «io giudico», «io dico» — che, se rispondono ad analisi parziali o soggettive, anche quando vengono da illustri studiosi non portano che a conclusioni limitate e lasciano le cose immutate, come in un dialogo di sordi.
1 Avviamo questa ricerca partendo noi stessi da una recensione di problemi. Il discorso di Pasolini, da questo lato, ci può aiutare. Finora, parlando di lingua, nonostante le numerose implicazioni di carattere sociale, egli s’era riferito quasi sempre agli infiniti atti individuali di «parola» dai quali lo scrittore cava il materiale linguistico inerte per le progressive elaborazioni stilistiche. Questa volta, invece, egli ha aperto il discorso più esplicitamente sugli aspetti sociali dei problemi linguistici. Ciò nonostante, in molti resterà il dubbio che anche quelle valutazioni servano a difendere una posizione di carattere letterario. Ecco perché la visione va subito precisata e ampliata.
Allo stato dei fatti, non è più possibile limitarsi al rapporto fra lingua e letteratura. Occorre guardare al rapporto fra lingua e società, affrontarlo nei suoi termini nuovi.
Tornando così ai contenuti sociali delle proposte formulate da Pasolini, potremo più facilmente spogliarle di quella forma di aggressività ch’egli stesso giudica «temeraria». «È nato» annuncia lo scrittore, «l’italiano come lingua nazionale». Su quali basi? Sulle basi tecnocratiche del neocapitalismo. «Non è difficile», egli aggiunge, «avanzare l’ipotesi che si tratti del momento ideale in cui la borghesia paleocapitalista si fa neo-capitalista almeno in nuce e il linguaggio padronale è sostituito dal linguaggio tecnocratico».
Riassumendo ancora: la completa industrializzazione dell’Italia del Nord e i rapporti di questa industrializzazione col Sud avrebbero «creato una classe sociale realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra società». L’esempio presentato dallo scrittore in un più breve scritto successivo («Il giorno» 6 gennaio 1965) illumina su questa ipotesi della «egemonia». «In Francia, per esempio», osserva Pasolini, «ci sono stati due momenti realmente “egemonici” (unità di potere politico, cultura e lingua): la monarchia e la borghesia rivoluzionaria e industrializzatrice. Ecco perché il francese è una lingua propriamente “comunicativa”».
Ecco, infine, un altro tema. La lingua italiana è ricca di forme, ma debole nel suo impianto comunicativo (in altri tempi si diceva che per la sua vocazione alla poesia, l’italiano era una lingua scarsa per la prosa: il problema era già posto, anche se in termini astratti). Questa notazione è evidentemente motivata da un’analisi comparativa con le altre lingue moderne. Ossia, se si considerano esattamente le cose, i problemi si affiancano. C’è ritardo sotto il profilo della unità linguistica nazionale (i parlanti dialettali non sono scomparsi del tutto: le valutazioni ottimistiche segnalano una percentuale superstite dell’8 per cento, ossia 4 milioni circa di non parlanti in italiano, ed è una cifra che, dopo un secolo di unità, se lascia tranquillo il linguista, dovrebbe inquietare il politico).
Ad esso si aggiunge un ritardo interno rispetto alle esigenze dei tempi. La parte già organica della comunità nazionale ha elaborato ed elabora male i propri strumenti di comunicazione. In breve, alla disgregazione dialettale, si aggiunge un altro tipo di disgregazione o di ritardo nella limitata qualità comunicativa dei linguaggi. Ed è a questo punto, sostiene Pasolini, che, con funzioni «omologanti», interverrebbe il linguaggio tecnologico.
2 Oggetto di studio può essere anche l’elaborazione dell’unità linguistica attraverso i criteri suggeriti e i mezzi impiegati per compierla.
Cento anni Fa, quando alla borghesia toccò la gestione di un patrimonio come la lingua italiana (che in alcuni momenti della propria storia letteraria e culturale aveva avuto prestigio e irradiazione europea) molti problemi che si ponevano a tutte le lingue nazionali furono dibattuti anche da noi.
Dalla tesi dei puristi alla «naturalezza» e alla «proprietà» suggerite da Leopardi e riprese da De Sanctis; dal «parlato fiorentino colto» che fu la proposta di Manzoni, al recupero tradizionale di Carducci; dall’apologia degli elementi storico-linguistici dell’Ascoli alla coloritura dialettale di Verga — per limitarci ad alcuni indirizzi degli anni che precedono e seguono l’unità — tutti si riferiscono a una necessità o a un elemento concreto della lingua, comparativamente anche con la realtà di altre lingue già «unitarie».
Fallimentare è, invece, il bilancio della gestione borghese in materia di politica, di diffusione della lingua, e nella stessa applicazione di quei princìpi e criteri ora descritti. Procedendo per confronti, sarebbe interessante capire come in un periodo poco più lungo sia avvenuta la rapida e diffusa gallicizzazione della Corsica (o di altre regioni francesi alloglotte) e perché, invece, non sia avvenuta l’italianizzazione di intere regioni italiane. Come mai, in altri casi, gli emigranti di quelle regioni si siano in gran parte assimilati alle lingue dei paesi che li ospitavano (negli Stati Uniti, ad esempio).
Ma ancora oggi, dopo cento anni di unità, la scuola ha esteso e perfezionato la validità delle sue forme strumentali nell’insegnamento della lingua? Dalle elementari all’università, l’istituto scolastico non può astenersi dall’avere un programma continuamente arricchito dai contributi teorici e dall’esperienza pratica. Né dovrebbe fare a meno di procedere a un esame comparativo con quello che accade in altri paesi e per altre lingue: studiare programmi, esperimenti, applicazioni di nuovi metodi.
E stato fatto? Esistono studi speciali per l’insegnamento della lingua italiana? Gli studenti che si destinano all’insegnamento, ricevono un buon addestramento universitario (come in Francia e in altri paesi) sulle questioni della lingua nazionale? O tutto si limita a un confronto indiretto col latino e a qualche interpretazione letteraria? Qual è, poi, l’italiano che gli insegnanti adottano? E «espressivo» (o, meglio, letterario, ricavato dai modelli dei «buoni autori») o «comunicativo» (basato sul rapporto diretto fra espressione e nozione, come applicazione di criteri della linguistica moderna)?
Oggi poi si deve tener conto che alla scuola si sono aggiunti e si aggiungono altri strumenti di elaborazione e di irradiazione linguistica: radio, TV, cinema, ecc. Non presentano altrettanti problemi?
3 Mentre si parla di ritardo di quell’organismo storicoculturale che è la lingua italiana sorgono, dunque, altri motivi di osservazione. Il discorso di Pasolini sembra muovere dalla proposizione gramsciana, ormai troppo nota, per cui «ogni volta che affiora in un modo o nell’altro la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi, la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa nazionale-popolare, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale».
La domanda s’impone: ci troviamo di fronte a un fenomeno di questo genere?
La tesi di Pasolini va sottoposta a una prima riflessione.
Partiamo pure dall’esempio francese. In Francia il centralismo monarchico pose effettivamente le basi dell’unità linguistica. Non solo. Ma assicurò anche il progresso di quell’unità. Proprio nel caso della monarchia francese si può parlare di una «politica della lingua», con interventi diretti e indiretti, creazione della Académie Française, scelta di particolari tipi di linguaggi nell’uso della Corte, ecc.
A differenza della lingua italiana, alle sue origini il francese non si è imposto alla nazione solo grazie al proprio prestigio culturale (come l’italiano del Due-Trecento). Né, d’altra parte, si è trattato di unificazione di un’area linguistica frantumata in dialetti tutti, più o meno, riconducibili alla lingua che emergeva nella tradizione letteraria nazionale. Il francese prevaleva anche su altre lingue illustri (es. il provenzale), vicine e lontane (il bretone, il basco, il tedesco alsaziano) valendosi di tutti i mezzi, non escluse le armi (crociata degli Albigesi).
In altri momenti, specie a partire dai secoli XVI e XVII, il prestigio del linguaggio di Corte, la sua diffusione alla borghesia urbana e altre forme di politica culturale approfondirono quell’unità.
Ma sin da quei secoli — quando non ancora si poteva parlare di un’egemonia politica e sociale della borghesia — si può dire che la spinta veramente nazionale venisse ancora dalla Corte e dall’unità amministrativa? Sappiamo, invece, che a un certo punto iniziò, su vasta scala, una contestazione anche esplicita contro il linguaggio della Corte e contro i suoi derivati (la lingua ridicola delle «preziose» o, ad altro livello, il «marivaudage»).
Dunque, il linguaggio «egemone»-amministrativo di Corte è aggredito e messo in crisi dal razionalismo e dall’illuminismo, che sono i portati della rivoluzione culturale borghese, espressione della rivoluzione sociale in atto, per cui l’egemonia precedente, anche se considerata come «unità ai potere politico, cultura e lingua», è già spezzata.
Non è un caso se Diderot adopera il «parlato» parigino per i suoi romanzi e il linguaggio tecnico-scientifico di allora nell’Enciclopédie. Da noi si può solo ora capire l’operazione intellettuale che Galilei inaugurava oltre cento anni prima e che linguisticamente crollò nelle nostre condizioni nazionali di allora. In Francia, invece, direbbe Gramsci: si riorganizzava l’egemonia culturale.
Ma monarchia e borghesia francesi nella reciproca contestazione, nel quadro di quella lotta delle classi (da cui non è possibile non partire, se il problema viene posto nei suoi termini sociali) apparivano entrambe qualificate anche sul terreno linguistico nei programmi egemonici che rispettivamente ponevano. Entrambe avevano una politica linguistica.
4 Ecco alcune domande che s’impongono. C’è oggi in Italia una classe che si presenti così connotata? Il linguaggio tecnologico odierno, spesso nato dalla nuova comunità scientifica che opera nel mondo intero, in Italia appartiene di diritto alla borghesia neocapitalista? Se è vero che i modelli raffinati del francese di Corte si identificano — più o meno — con gli sviluppi egemonici della monarchia francese, è ugualmente vero che oggi la borghesia neocapitalista di Milano e di Torino si identifica coscientemente con i problemi dell’intera nazione?
Un esempio fra tanti: questa borghesia fa propri i problemi della Sicilia, della Calabria, della Sardegna (prescindendo, beninteso, dai ludi estivi, balneari)?
È innegabile, viceversa, che dalla liberazione ad oggi, c’è stato un linguaggio «comunicativo» (su radici e con cadute anche burocratiche e tecnologiche) che si è diffuso nei gruppi popolari e ha animato una contestazione continua all’interno della vita nazionale contro la genericità dei linguaggi ufficiali (che pure formano la base dell’informazione burocratica ufficiale). Questo linguaggio (poco frequentato dagli scrittori borghesi, soprattutto da quando si parla, per riflessi, di «incomunicabilità»), è forse il primo linguaggio sopra-dialettale adottato in Italia da masse urbane e contadine a livello nazionale.
Non è, per vari aspetti, un linguaggio improvvisato. Aveva i suoi precedenti, le sue tradizioni, le sue vecchie canzoni di lavoro e di sofferenza già da mezzo secolo, anche se unicamente in fase rivendicativa ed espressiva. Ma, dopo la liberazione, esso ha trovato un suo nerbo di verifica nei linguaggi dei partiti politici. Il dialogo «nazionale» si svolge, infatti, usando espressioni non soltanto emblematiche: «scala mobile» o «tregua salariale»; «politica dei redditi» e «fuga di capitali».
È tecnologico; perché la tecnica è appunto un valore comune nella nuova gestione delle cose, è un’amplificazione collettiva della scienza, nel movimento di razionalizzazione che il mondo segue consapevole o no, con partecipazione o con caparbia ostilità, fra rimpianti elegiaci e improvvise illuminazioni coscienti e rivoluzionarie.
5 Dopo aver classificato gli stili letterari degli scrittori italiani del Novecento rispetto a una linea linguistica media della comunità borghese o piccolo-borghese italiana, Pasolini adotta, in questo caso, alcuni termini della linguistica strutturalista per esporre la sua tesi.
E concesso, però, adottare una terminologia, escludendo la problematica che informa una disciplina?
Lo strutturalismo linguistico, a differenza di altre correnti linguistiche e alla pari del marxismo, sposta l’accento sugli aspetti sociali della lingua. Ma, tenendo fede alle proprie radici teoriche, parte da dati verificabili. Il tentativo di Pasolini descrive una «diacronia linguistica in atto», per concludere che «è nato l’italiano come lingua nazionale».
Forse un linguista obietterebbe che non si dà diacronia senza lingua. Infatti la diacronia di una lingua inesistente è una pura immagine. Con la conclusione ovvia che anche l’italiano come lingua nazionale era nato da tempo. Ma forse quel linguista non terrebbe conto che Pasolini, nel suo discorso, tende a far coincidere esattamente certo con un po’ di arbitrio due termini (nazionale-unitario). Quindi il suo vero tema è l’arrivo tormentoso della lingua a un processo decisivo di unificazione (che è poi un portato tendenziale implicito nel carattere «nazionale» di una lingua).
Ma cos’è, allora, la qualifica di «nazionale» che nei termini odierni, fuori da ogni residua visione romantica, si può assegnare a una lingua?
Escludiamo, per ipotesi, il momento unitario, che è una conseguenza non una premessa anche nel caso di due lingue «nazionali» come il francese o l’inglese, «mature» e avanzatissime sia nel processo unitario che nella coscienza anche politica del loro patrimonio linguistico. Arriviamo di nuovo al rapporto fra la lingua e la nazione: al rapporto fra lo stato accertabile di una lingua (la lingua perfetta solo nell’insieme dei parlanti, di cui parlano i linguisti) e la nazione identificata storicamente, cioè nei suoi rapporti attuali, non solo interni.
Questa è, appunto, l’inchiesta gramsciana, da cui occorre partire. Anche Gramsci teneva conto della identificazione operata da Marx fra lingua e «realtà immediata del pensiero». Ma egli vedeva e descriveva altresì quella serie molteplice di rapporti che precedono quell’identificazione e, in fondo, la permettono.
Di qui la definizione di «storicità». Pur guardando alla contestazione che negli atti linguistici si stabilisce fra «gruppi dirigenti» e «massa nazionale-popolare», pur guardando alla conseguente necessità di «riorganizzare la egemonia culturale», egli osservava che «il fatto linguistico, come ogni altro fatto storico, non può avere confini nazionali strettamente definiti… la storia è sempre “storia mondiale” e… le storie particolari vivono solo nel quadro della storia mondiale».
6 Che non si sia più nel campo delle pure ipotesi, lo dimostrano alcuni interventi o documenti che presentiamo in questo dibattito-recensione. Dalle parlate africane, alle lingue dei paesi sottosviluppati, alle lingue «sviluppate» tutte le lingue hanno problemi particolari e tutte le lingue hanno oggi, sempre più, problemi comuni. Solo che non sempre le soluzioni sono tuttora studiate in comune. Spesso, anzi, esse sono in fasi più o meno ritardate di elaborazione.
Finora solo un metodo comparativo può essere di aiuto. Così, non per caso uno studioso tunisino, Boudihba, ha proposto per le lingue del mondo musulmano (nelle quali si nota un conflitto acuto fra tradizione aristocratico-sacrale e necessità moderna di informazione-comunicazione) una problematica che mostra tanta affinità con i dibattiti linguistici svoltisi da noi recentemente e rimasti chiusi quasi sempre, purtroppo, nell’ambito letterario.
C’è un ritardo della nostra linguistica?
A occhio nudo, senz’altro. Semplificando si potrebbe dire che, in un paese dove tutti parlano di lingua, dove ogni minima discussione sulla lingua corre all’infinito (ma forse ogni discorso sulla lingua resta, a vari livelli, un discorso di «forme» e non di significati) stenti ad affermarsi una coscienza teorica dei problemi linguistici che sappia ricavare poi le conseguenze necessarie sul terreno pratico; che, cioè, alla capacità di indagare e di verificare con strumenti scientifici i problemi nuovi del linguaggio su scala sociale unisca una efficace capacità di intervento.
Assistiamo ad una situazione di questo genere. Ormai le aziende private moltiplicano le inchieste di mercato e i sondaggi per lanciare un qualunque prodotto. L’unica inchiesta (salvo errore) che sia stata condotta sullo stato della lingua italiana, è opera di uno studioso svizzero, il Rüegg ed è apparsa a Colonia.
Se, però, alcuni dati confermano l’impressione di cui dicevamo sopra, non bisogna né semplificare né generalizzare. Qualche preoccupazione più larga si manifesta già, oggi, nel campo della descrittiva della lingua. È vero che l’unico dizionario complessivo italiano, il famoso Tommaseo e Bellini, risale al 1858–1879. Tuttavia alcuni studiosi (Battaglia, Devoto), intorno al 1960, si sono posti operativamente il problema per risolverlo (qui beninteso non esprimiamo giudizi di merito).
Solo che in cento anni non si può dire che lo Stato, i governi della borghesia, abbiano mai sentito questo od altri problemi. Se esiste la strada per un esame comparativo delle lingue non vediamo perché non si cominci a confrontare quello che si è fatto in Italia con quello che si fa altrove (in Inghilterra, ad esempio) in fatto di linguistica descrittiva.
Gramsci lamentava anche che la linguistica italiana del suo tempo (Bertoni), cadesse ancora nella discriminazione delle «voci poetiche da quelle strumentali». «Si tratta», diceva, «del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per cui si dividono le parole in “brutte” e “belle”, in poetiche o antipoetiche», ecc.
Vediamo subito in questa analisi un rapporto con i problemi odierni. Cioè, mentre l’Europa, da Vienna a Praga, da Parigi a Londra, ribolliva di dibattiti sui criteri linguistici, da noi si poneva anche a livello «scientifico» una frattura fra italiano espressivo e italiano strumentale. Fra i due, privilegiato era il primo.
Nella sua cella Gramsci non conosceva certo tutta la panoramica degli studi di allora. La sua critica si rivolgeva a uno fra gli orientamenti, quello pressoché ufficiale. Operavano intanto anche linguisti di valore come Devoto, Schiaffini, Terracini, l’ancor giovane Contini. Tuttavia la convinzione che in Italia si studiasse la lingua solo «in quanto arte» non era solo di Gramsci.
Richiamando un’immagine diffusa da Benedetto Croce nel suo saggio Questa tavola rotonda è quadrata, per cui la lingua è poeticamente libera di dire ciò che vuole se si sottrae al rigore della verifica logica, Carlo Emilio Gadda in un saggio su “Soiaria” del 1929 rispondeva che, d’accordo, il dilettante di scacchi è libero di affermare, giocando una partita, che quella è «la sua partita», ma i maestri possono sempre disapprovarlo.
Altrimenti si poteva incorrere nel rischio di fare i circoli un po’ troppo quadrati… «Un po’ quadrati, va bene, siamo degli artisti, corpo di Bacco!, e ci incombe l’obbligo di vedere “a nostro modo” le cose; ma troppo poi no!».
C’è da chiedersi, tuttavia: ancora oggi, la linguistica italiana su quali basi e con quali criteri esercita o è messa in grado di esercitare il proprio mandato? Esistono studi di verifica che non partano dalla letteratura e dall’indagine stilistica? Se ne prevedono? Con quali impostazioni e impianti teorico-pratici? Con quali finalità?
7 È accertato, ormai, che l’unificazione linguistica ha compiuto passi decisivi. La unità di là dalla barriera dei dialetti non è più il problema dominante, come accadeva fino a venti o trent’anni fa. All’attenzione si presentano altri problemi collegati direttamente alle situazioni generali della società e della cultura.
Si discute tanto, ad esempio, delle possibili influenze modificatrici che hanno o possono avere anche più la radio, la TV, il cinema e gli altri strumenti di larga diffusione sul destino dello spettacolo o su altre forme artistiche. E sulla lingua?
Alcuni parlano di un ritorno massiccio verso il parlato, dal momento che per la comunicazione fra assenti la scrittura non è più strumento indispensabile, come non lo è ormai per la registrazione della parola detta, nel suo immediato manifestarsi. La stessa voce individuale supera spazio e tempo.
Se questo problema appare immaturo, tale non può dirsi l’altro, più concreto, di chi si interroga intorno alla elaborazione possibile di una nuova pedagogia linguistica. C’è differenza, e quale, fra l’apprendimento scolastico della lingua (che solo l’iniziativa dell’insegnante può, allo stato dei fatti, rendere meno arretrato) e quello che i giovani ricevono dalla TV (genericamente più ricco, «spontaneo», «divertente») e con quali effetti di contrasto?
Un ultimo problema, proprio per quanto riguarda l’odierno linguaggio tecnologico. Escludendo le attuali interpretazioni letterarie, quasi tutte amplificatrici dei fenomeni in termini di avanguardia, sarebbe utile una indagine che, scegliendo come base di partenza l’uso linguistico rilevabile nei testi scientifici, si spostasse verso l’uso tecnico e tecnologico (e sue applicazioni varie, dalla pubblicità alla vasta informazione giornalistica) nelle fasi orali e scritte. Finora, a prima vista, si osserva una proliferazione terminologica spesso abusiva, ben lontana dal tormento linguistico diffuso fra gli scienziati, di cui parlano i linguisti.
A causa di questo conflitto fra la pretesa di precisione, derivata dalla origine scientifica, e l’incertezza dei suoi impieghi terminologici attuali, si ha l’impressione che il linguaggio tecnologico operi tuttora, in Italia, come linguaggio di rottura rispetto alle cristallizzazioni e alla disgregazione di altre forme espressive. Più che un vuoto, si rileva un’incertezza per ora difficilmente superabile.
Anche per questo si avrebbe la tentazione di concludere che un potere di omologazione linguistica (se pure è lecito parlarne) può essere tuttora rivendicato dalla scienza, dal rigore metodologico che, bene o male, condiziona, anche nei suoi eccessi assimilativi, la tendenza tecnologica attuale. Ma all’interno dei fatti linguistici e con effetti anche letterari, il linguaggio scientifico opera in quel senso da almeno tre secoli. In Italia, il fenomeno si è prodotto meno direttamente che in Francia o in Inghilterra. E necessario ammetterlo. Ma molti modelli (ad es. quelli illuministici) si sono diffusi su scala mondiale attraverso scambi da lingua a lingua sempre più frequenti.
8 Nelle pagine che seguono si trovano dibattuti o già documentati alcuni fra i problemi indicati in queste osservazioni preliminari. In parte confermando in pane precisando i dati sociolinguistici contenuti nel discorso di Pasolini, in ogni caso questi contributi lasciano i problemi aperti a interventi successivi.
Esiste, come si vede, un ritardo non solo della lingua ma dell’esame stesso della lingua e delle sue possibilità. Il legame fra le due situazioni è evidente. A questo punto la presenza della componente proletaria di contestazione linguistica si pone, appunto, come fatto anche di coscienza, di «politica della lingua», per usare un termine ugualmente contenuto nell’inchiesta di Gramsci.
La lingua, nella visione gramsciana, diventa unitaria se c’è «una necessità». Nessun intervento è davvero «decisivo». Molto scarsamente decisivi appaiono, comunque, gli interventi strumentali. Occorre, quindi, dare un contenuto diverso ad ogni ipotesi nuova di politica della lingua, specie da parte di una classe come il proletariato, la cui elaborazione ideologica tende alla totalità storica. In prospettiva questo comporta una «qualifica» non esterna, in fatto di lingua, non certo simile a quella delle vecchie classi dirigenti.
Per ora, al proletariato rivoluzionario s’impongono la contestazione e il dialogo, una azione formativa nella lingua e della lingua, se è vero che a ogni livello è oggi aperto un dialogo, che questo dialogo nella lingua si svolge e si riflette, e che occorre identificarvi pensieri e volontà che storicamente maturano.
Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 38–50
Michele Rago (Chicago, 7 luglio 1913 - Roma, 14 luglio 2008) giornalista e insigne francesista. Nel 1951 pubblicò con Bompiani Romanzi Francesi dei secoli XVII e XVIII e nel 1953, come corrispondente de l’Unità a Parigi, conobbe e si legò di amicizia coni Sartre e altri intellettuali francesi. Tornò nuovamente a Roma nel 1965 dove prese la direzione de “Il Contemporaneo”, supplemento del settimanale del PCI “Rinascita”. Nel 1968 ottenne la cattedra lingua e letteratura francese all’Università di Lecce, poi insegnò a Siena e a Salerno.