Lingua e film

di Vittorio Spinazzola

Mario Mancini
7 min readApr 6, 2022

Vai alla serie “Il secolo di Pier Paolo Pasolini. La questione della lingua e altre questioni”

Anche a un superficiale sguardo d’insieme, appare subito abbastanza chiaro che il recente cinema italiano non considera, di norma, la espressione linguistica come un problema particolarmente acuto e grave. Nei nostri più affermati registi le preoccupazioni di coerenza visiva sovrastano di gran lunga quelle concesse al dialogato: eloquente testimonianza ne è il confronto, che molte pubblicazioni consentono di istituire, tra i risultati complessivi riconoscibili nella visione di un film e la povertà d’interesse letterario presentata dalla sua sceneggiatura, per chi voglia farla oggetto di autonoma lettura.

Nei casi migliori, potremo notare il sapiente uso della parola in quanto elemento sonoro, dei rumori, delle pause di silenzio: così in Antonioni, cioè appunto un regista le cui più autentiche doti inclinano ad un’accanita visualizzazione di stati d’animo, una sona di documentarismo interiore. E così in Fellini, il quale pure rivela una vivace tendenza all’invenzione, alle deformazione verbale, conforme all’indole espressionistica della sua immaginazione figurativa e romanzesca, ma in modi assai più timidi ed estrinseci.

Restano da considerare alcuni altri nomi; ma intanto occorrerà ricordare che il più significativo cinema italiano di questi anni ha voluto essere lo strumento di uno spettacolare esame di coscienza collettivo, lo specchio di volta in volta drammatico o sarcastico o teneramente elegiaco in cui l’intera comunità nazionale potesse riconoscersi e giudicarsi.

È naturale perciò che i registi intendessero assicurare alle loro opere un carattere di larga comprensibilità, facendo adottare ai personaggi un linguaggio accettabile senza sforzo dai più vasti e vari gruppi di spettatori. L’originalità e l’audacia della ricerca espressiva erano di preferenza affidate alla scelta tematica.

Anche per questo aspetto l’ondata di rinnovamento verificatasi attorno al 1959-’60 e troppo presto esauritasi manifesta una profonda diversità rispetto alle premesse poste, un quindicennio avanti, da quel movimento neorealista cui ogni discorso sul nostro cinema non può non riferirsi.

Ansiosi di ritrovar contatto con la realtà della vita, anzi di coglierla nel ritmo stesso del suo farsi, al di qua di ogni elaborazione e adulterazione spettacolare, i primi neorealisti portarono anche sul piano linguistico la loro volontà di contestare radicalmente la civiltà borghese italiana, responsabile dell’esperienza fascista.

L’esempio più insigne è fornito da Roberto Rossellini, che con Paisà intraprende un vero e proprio viaggio alla riscoperta dei dialetti, secondo un itinerario che va dal siciliano al veneto. Parrebbe soltanto una nuova rivolta contro la sclerotica ufficialità dell’italiano «medio», fattosi strumento del cinema di regime.

In realtà, proprio attraverso l’allineamento e il confronto tra una cospicua serie di vernacoli, Rossellini immette nel film una tensione unitaria (quella stessa che abitava le coscienze nella lotta antifascista), sottolineata dal paragone con le lingue straniere, sia il tedesco degli hitleriani sia l’inglese delle truppe alleate, entrambe riprodotte nella loro autenticità sulla bocca dei parlanti e solo tradotte in didascalia.

Ma l’ipotesi di lavoro rosselliniana, che ambiva ad imporre a ogni battuta di dialogo un carattere di espressività totale, portava sul terreno pratico a conseguenze assai gravi. Ne offrirono conferma i successivi sviluppi della scuola neorealista, sino al punto di rottura rappresentato da La terra trema.

Nel film di Visconti il dialetto, posto al servizio di uno scandaglio del mondo popolare operato con ferma consapevolezza ideologica, si racchiudeva rigorosamente su se stesso, manifestazione di una vita comunitaria percorsa da intensi fremiti di rinnovamento ma tuttora vincolata al passato. Mentre denunciava polemicamente l’improponibilità di una lingua nazionale, La terra trema si precludeva ogni via di comunicazione con il pubblico.

La protesta e la ricerca neorealiste si risolvevano così in un impasse da cui era impossibile procedere.

Si poteva però evaderne: ciò che puntualmente avvenne negli anni seguenti, con le vastissime affermazioni commerciali del «neorealismo rosa», che in Due soldi di speranza trovò un prestigioso avallo e nella serie dei Pane e amore, e poi Poveri ma belli colse i maggiori successi di cassetta.

Comencini, Risi e i loro numerosi emuli operarono un abile capovolgimento della prospettiva neorealista: restaurarono nella sostanza l’italiano medio, aprendolo però ad un largo afflusso di elementi dialettali, in funzione coloristica e caratterizzante, secondo le esigenze di un unico tema mille e mille volte variato: la commedia dell’amore tra i giovani.

Nello stesso tempo, essi posero abilmente a profitto la lezione del tradizionale cinema popolare, che sul versante comico si riassumeva nelle fortunatissime farse napoletane di Totò e nel disordinato, plebeo ma veemente empito di estroso funambolismo, di insolente parodia verbale che le caratterizzava.

Il neorealismo rosa, mirando al consenso dell’intero pubblico nazionale, in tutte le sue dislocazioni geografiche e stratificazioni sociali, si servì invece di preferenza del dialetto romanesco, come quello che meglio consentiva di evitare una caratterizzazione troppo risentita: e sciorinò un inesauribile repertorio di esclamazioni, imprecazioni, pittoresche metafore di sapore più o meno simpaticamente ribaldo, godibili sia dalle platee di periferia e di paese, come suggello di democraticità linguistica, sia da quelle borghesi, come fonte di pruriginoso ma innocuo scandalo.

L’accorto interclassismo della koinè italo-romanesca suonava del resto assai adeguato sulla bocca dei personaggi portati sullo schermo: spostati o disadattati o più frequentemente bulli e bulletti adolescenti, privi comunque di una precisa fisionomia e responsabilità sociale, intenti a nutrire la loro beffarda indolenza o a coltivare facili idilli sotto lo scettico, accomodante sole della Capitale.

Servite da una schiera di acclamatissimi divi, le commedie cinematografiche hanno costituito e costituiscono la spina dorsale della nostra produzione, di cui rappresentano il settore commercialmente più solido. È vero che il filone ha subito una graduale evoluzione, dapprima verso il positivo segno della satira di costume (emblematicamente indicata dalla figura e dall’attività di Alberto Sordi), poi nel senso di un’accentuata erotizzazione, sino all’attuale ossessiva insistenza sulla tematica sessuale.

Ma gli sforzi di chi ha voluto esprimere, in stile elevato e con intenzioni drammatiche, l’angosciosa inquietudine delle classi superiori, si sono risolti nell’anonimato linguistico o nella cattiva letteratura. Ed isolati sono rimasti gli esempi, espressivamente ben più validi, di chi ha voluto rinnovare un’adesione completa alla realtà dialettale: così l’Accattone di Pasolini, così il Salvatore Giuliano di Rosi, così anche, seppur in altra misura. In capo al mondo di Tinto Brass.

A questo proposito noteremo piuttosto, come un dato di fondo, la progressiva attenuazione dell’egemonia romanesca causata dal frequente ricorso, sempre in chiave comica, a numerose altre parlate locali, soprattutto del Nord, torinese, lombardo, bolognese, veneto: protagonista maggiore dell’operazione, il divo Ugo Tognazzi.

Contemporaneamente, un fenomeno di tipo reazionario è stato rappresentato dall’enfasi lirico-retorica che avrebbe dovuto «nobilitare» le immagini dei lungometraggi documentari d’argomento erotico-esotico (Jacopetti): la loro effettiva influenza è stata peraltro limitata alla diffusione di termini e locuzioni sino a ieri considerate fortemente interdette.

Minor incidenza hanno avuto sia i tentativi di forgiare un linguaggio cine-giornalistico sull’esperienza televisiva, sia le trascrizioni dirette del parlato borghese o popolare, secondo la tecnica del cinema-verità e sulla scorta del tenace insegnamento zavattiniano.

Un elemento di stabilizzazione linguistica è stato infine offerto dalle trascrizioni di romanzi e racconti di successo, spesso però a loro volta più o meno colorite in senso dialettale.

Presentemente, il neoitaliano proposto dai nostri schermi e pacificamente accettato sia dalla maggioranza dei registi sia dalla totalità del pubblico, si qualifica come un idioma di intonazione piuttosto bassa, specificamente atto a modulare con icasticità gli affetti privati, i sentimenti della vita quotidiana.

Esso è la risultante di un incontro fra lingua nazionale e dialetti, nel quale la prima impone i materiali di fondo e la regolarità dell’ordito, mentre i secondi reagiscono non solo attraverso l’inserzione di elementi vivacemente espressivi, sì anche spingendo la lingua a spogliarsi dei caratteri aulici e ricercati, a semplificare e sveltire le strutture, ad abbandonare eufemismi perifrasi circonlocuzioni per una presa diretta sull’uso corrente, familiare e amichevole.

Questo italiano volgare, pur così diverso dall’italiano classico della tradizione, appare tuttavia scarsamente influenzato dai gerghi speciali introdotti dal tecnologismo neocapitalista (sarà semmai ben più facile reperirvi traccia di materiali stranieri, soprattutto anglosassoni, importati tramite il fumetto, la narrativa gialla, la fantascienza, il disco, i prodotti hollywodiani).

Il cinema, in quanto mezzo di comunicazione di massa, ha bensì operato in questo dopoguerra una vasta riforma della lingua, giungendo a forgiarsi uno strumento espressivo ibrido e composito, ma dotato di notevole duttilità e di un efficace potere unificante.

La realtà con cui ha dovuto e deve principalmente fare i conti è però quella da un lato dei dialetti popolari, dall’altro del parlato medio-borghese, espressione di una vita civile tanto più libera e spregiudicata rispetto al periodo fascista. Cultura scientifica e civiltà neocapitalista sono sinora rimaste sullo sfondo, non hanno trovato le mediazioni necessarie per giungere a riempire gli schermi.

Ciò indica certamente la timidezza del nostro cinema nell’affrontare le più autentiche dimensioni innovative: ma testimonia anche la ristrettezza dell’ambito, sociale e ideologico, in cui queste spinte agiscono, la loro incapacità di trovare adeguata eco nella coscienza e nella sensibilità del pubblico di massa.

Da: Dialoghi con Pasolini. Scritti 1957–1984, a cura di Alberto Cadioli, Roma, Editrice «l’Unità», 1985 pp. 72–77

Vittorio Spinazzola, milanese di origini lucane, è stato uno dei massimi esperti italiani di sociologia della letteratura, di paraletteratura e dei generi letterari intesi come il luogo dove avviene l’innovazione. Dal 1970 ha insegnato all’Università statale di Milano, dove è stato poi professore emerito di Letteratura italiana moderna e contemporanea. Prolifico saggista, i suoi contributi sono apparsi su numerose riviste di settore. Rilevante anche la sua attività di critico cinematografico.

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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