L’infanzia di Ivan di Tarkovsky nella critica del tempo

Il tempo rubato

Mario Mancini
10 min readJan 15, 2024

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Film del 1962, dal racconto di Vladimir Bogomolov
Regia di Andrej Tarkovskij; con Nikolaj Burljaev (Ivan), Valentin Zubkov (capitano Cholin), Evgenij Žarikov (tenente Gal’cev), Stepan Krylov (caporale Katasonov), Mykola Hryn’ko (tenente colonnello Grjaznov)
Premi: Leone d’oro al miglior film al Festival di Venezia, ex aequo con Cronaca familiare di Valerio Zurlini.
Durata: 1h 35m
Streaming: Prime Video

Ivan è un ragazzino che ha visto i genitori uccisi dai tedeschi. La guerra gli porta via l’infanzia. Decide di battersi anche lui contro i nazisti, attraversando ogni notte un fiume e tornando alle linee russe con preziose informazioni. Ma il gioco pericoloso non dura molto. Una notte viene catturato dal nemico e impiccato.

Francesco Rufo

L’infanzia rubata

Primo lungometraggio di Tarkovskij, L’infanzia di Ivan è un film sull’infanzia uccisa dalla guerra. Ivan è un bambino che la guerra e la violenza hanno trasformato in un folle, un mostro, un martire.
È, come tutti i bambini, la più innocente e incolpevole vittima della guerra. È un fantasma che agisce in modo impulsivo, esagitato, come un automa ossessivo. Ha assimilato sentimenti e comportamenti da adulto, sembra a un primo sguardo non avere più nulla di infantile. Eppure in lui sentimenti da adulti come l’odio o il desiderio di vendetta coesistono con sentimenti dell’infanzia. Ivan preserva la tenerezza dell’infanzia nella ricerca di un padre putativo che possa sostituire quello vero e perduto, e nei suoi sogni luminosi, edenici.
Come la coscienza di Ivan, il film si divide tra reale e virtuale, tra la vita che è e la vita che è stata o avrebbe potuto essere. Da una parte abbiamo morte, guerra, oscurità, solitudine, dolore, odio; dall’altra, la vita, la pace, la luce, l’angelica madre di Ivan, la serenità, l’amore, il desiderio di libertà (i sogni pieni di natura raffiguranti un paradiso arcadico di purezza perduta).

Il mondo di sogno di Ivan

È pur vero che nel film i sogni hanno sostanza reale, oggettiva, e la realtà ha l’apparenza di un incubo: reale e virtuale si confondono. Come scrisse Jean-Paul Sartre, per Ivan il mondo è un’allucinazione, lo stesso Ivan è per gli altri un’allucinazione. Ivan è “una personalità distrutta, che la guerra ha spinto fuori dal suo asse normale” (Tarkovskij).
La guerra è vista come una calamità innaturale che distrugge la speranza, la vitalità, l’umano; è sempre ingiusta, mai giustificata; è il Male totale. Per Ivan, la guerra è un modo di sfogare la rabbia, qualcosa che gli si è iniettato dentro e lo ha contaminato.
Come scrisse Sartre, la guerra e la morte di Ivan sono una “perdita secca” per l’umanità, per la Storia. “La società degli uomini progredisce verso i suoi fini […] e tuttavia quel piccolo morto rimane una domanda senza risposta che non compromette nulla, ma che fa vedere tutto sotto una luce nuova: la Storia è tragica” (Sartre).
In Tarkovskij, questo pessimismo della Storia convive con la speranza insita in una visione cristiana della vita.

Da MYmovies

Giovanni Grazzini

Un cinema di poesia

L’infanzia di Ivan giunge a proposito per farci toccare con mano il significato del congelamento reimposto da Mosca a scrittori e registi. Andrej Tarkovskij, autore del film che vinse a Venezia il “Leone d’oro”, è fra gli artisti sospettati recentemente di eccessive simpatie per l’Occidente, di compiacimenti formalistici e di compromissioni con le ideologie piccolo-borghesi, rivelate dal suo disimpegno nei confronti del realismo socialista.
Rimproveri che già gli erano stati mossi all’uscita del film, sia in Russia sia da una parte della critica comunista italiana, ma dai quali Tarkovskij era stato scagionato, fra i primi, da Sartre in una lunga lettera a l’Unità. Si tratta, in sostanza, della frangia di una antica polemica sovietica, che risale almeno agli anni Trenta: il cinema ha da essere poesia o prosa? Per avere scelto la poesia, Tarkovskij è ora sospettato di tiepidezza ideologica.
In realtà, come dicemmo parlando del film da Venezia, questo giovane regista inserisce l’ideologia in una più ampia meditazione sulla condizione dell’uomo.
Condannare L’infanzia di Ivan perché il dodicenne protagonista del film è privo di consapevolezza patriottica, equivale ancora una volta a strumentalizzare la coscienza. Il senso poetico dell’opera consiste invece nel denunciare il male della guerra senza tener conto che si tratti di una guerra giusta o ingiusta. Siamo tutti abbastanza maturi per essere convinti che non esistono guerre giuste, e che esse rappresentano in ogni caso, come dice Sartre, le “perdite secche” della storia.
Vedete il caso di Ivan (interprete l’ottimo Kolja Burljaev). I tedeschi gli hanno distrutto la famiglia, sul muro di una cella ha letto l’ultimo appello lanciato da un gruppo di giovani russi condannati a morte: “Vendicateci”.
Lo shokc, per lui, è stato durissimo. Solo al mondo, ha maturato in cuore l’odio e la vendetta, che tuttavia coesistono con slanci e turbamenti infantili: il bisogno di braccia che lo stringano, la sicurezza che nulla cambierà ormai nella sua vita, la convinzione che gli adulti mantengono le promesse.

Il “gioco” della guerra

La guerra gli si configura come un impegno d’onore, una prova di coraggio, e insieme ancora come un gioco, un’avventura in cui poter sfrenare il rancore sorto inavvertitamente verso chi gli ha tolto le care immagini della famiglia, i sorrisi dell’infanzia.
La sua nuova famiglia saranno tre soldati di prima linea. È così fermo nei suoi propositi, e mostra una tale maturità, questo Ivan, che essi non hanno la forza di mandarlo a scuola. L’hanno tentato ma è fuggito. Del resto ha già dato informazioni preziose come esploratore: ancora una missione, e poi il ragazzo, sarà ritirato dal fronte.
L’avvicinamento alle linee nemiche avviene in un’alba livida, in una foresta allagata, sotto gli alberi illuminati dai razzi che solcano il cielo come stelle filanti. Ma al bambino nulla, ormai, parla più dell’infanzia: lungo il cammino vede impiccati i due soldati che erano venuti a cercarlo, muore uno dei suoi amici, l’insidia nemica lo sovrasta e lo esalta.
I suoi compagni non sapranno se Ivan è riuscito a compiere la missione. Soltanto a guerra finita, nella sede della polizia segreta a Berlino, si troverà la fotografia del ragazzo tra i fascicoli dei civili eliminati dai tedeschi.

L’altra infanzia

E tuttavia Ivan avrebbe potuto essere diverso. Un’infanzia felice, fra le braccia della madre, fra i giochi dei compagni, poteva essergli conservata. Raccontando a ritroso, con le sequenze dei sogni di Ivan, quello che la guerra ha tolto al ragazzo, Tarkovskij ha descritto il paradiso giustapponendolo all’inferno.
Ne è uscita una sintesi poetica dolente ma calda di speranza; che i bambini restino bambini, e crescano uomini, non fucilati fin dall’infanzia. Tessuta con molta finezza, in un contrappunto di realismo (fino a inserire brani di documentario sulla fine della guerra) e di sogno: i flash backs che nel corso del film strappano Ivan alla sua condizione di dolore e di nevrastenia, e lo riconducono alle soavità dell’infanzia, le tenerezze della madre, le corse sulla riva del mare.
Nell’uno e nell’altro caso il regista si è giovato di una tecnica molto raffinata, che amalgama con originalità i disparati echi culturali (dal cinema espressionista tedesco negli interni ai decadentisti francesi fino a Resnais).
Contrapporre l’oscuro sfondo della guerra alla luminosità delle memorie felici era molto difficile. Tarkovskij ci è riuscito quasi sempre sospendendo anche la realtà più cruda in una luce rarefatta, nella quale Ivan vede le cose e gli uomini come in una continua scoperta della fantasia.
Di fronte ai valori puramente visivi del film, il racconto passa in seconda linea, e denuncia qualche inflessione pascoliana. Ma non diremmo superflua l’aggiunta, a quella di Ivan, di un’altra piccola storia: il fiorire e lo spegnersi improvviso dell’amore in una infermiera per un capitano che la porta nel bosco; un tocco che ripete, con diverso pedale, il motivo conduttore: la crudeltà della guerra, che come ha distrutto la personalità del ragazzo, seminandogli nel cuore sentimenti da adulto, così ha soffocato quell’aurora di incertezza amorosa che spuntava in una giovane donna di vent’anni.

Il lirismo di Tarkovskij

E anche in questo caso la mano di Tarkovskij è così delicata che accusarlo di formalismo ci sembra immeritato. In realtà questo giovane regista ha la sobrietà di un poeta che esprime attraverso le immagini una sua tenue ma schietta ispirazione.
Se esse sono talvolta troppo eleganti, non perciò mancano di espressività lirica. Parleremmo di decorativismo se i paesaggi, i giochi di luce, avessero soltanto un’evidenza figurativa, come accade in Mamma Roma e non, come qui, sostanza di stati d’animo.
È indubitabile che il pericolo di Tarkovskij è uno stucchevole sensibilismo, ma è intempestivo muovergli quest’accusa per un film nel quale il poeticismo è intrinseco alla natura dei due personaggi. Invece importa rilevare quanto Tarkovskij proceda rispetto anche a Quando volano le cicogne e a Pace a chi entra: il lirismo, in questo regista, galoppa verso il totale assorbimento della tematica ideologica (e fa intuire che il migliore cinema sovietico potrà domani risolverla tutta in poesia.
Né perciò, è ovvio, la svuoterà; al più, potrà darci una poesia molto intellettualizzata). L’eleganza formale, applicata soprattutto al paesaggio, è d’altronde l’implicita risposta di un regista moderno, che guardando indietro, al recente passato del suo Paese, ha ragione di preferire la compagnia di artisti giovani e inquieti a quella degli accademici illustratori di gesta proletarie.
Tarkovskij scegliendo la via dei sentimenti, e tuttavia imboccandola con pudore (egli stesso ha criticato l’enfasi di Evtušenko), ha toccato più di quanto forse non creda una corda dalle lunghe risonanze, in Oriente e in Occidente.++++Vengono i brividi a pensare che un film come L’infanzia di Ivan possa aver provocato, in Russia, polemiche sul suo contenuto. È vero che c’è sempre chi odia il cuore dell’uomo, e disprezza la grazia.

Da Corriere della Sera, 4 aprile 1963

Filippo Sacchi

Nulla quanto rivedere in versione italiana L’ infanzia di Ivan, già conosciuto nell’originale russo l’anno scorso a Venezia, mi ha dato la misura della fragilità a cui le manipolazioni del doppiaggio possono esporre il nostro giudizio. A Venezia il film di Tarkovskij era proiettato in versione originale con sottotitoli.
Questo è, per chi non intende il linguaggio parlato nel film, l’unico modo decente di seguirlo. Il sottotitolo che a modo di memento suggerisce il filo del discorso resta un elemento estraneo che non interferisce nell’atmosfera dell’azione e lascia intatti, in tutti i loro valori fonetici e plastici, quei sottilissimi rapporti che legano il suono della parola alla fisionomia e ai gesti dei personaggi; rapporti che invece il doppiato brutalmente sopprime, scindendo l’uomo dalla sua voce, e cioè da quella che è la nota più immediata e più diretta della sua personalità.
A Venezia Ivan aveva fatto a me, come del resto a tutti (ebbe un Leone d’Oro), una grande impressione. C’era qua e là del manierismo simbolico nella presentazione di certe invenzioni accessorie (il vecchio folle nella casa distrutta) e nel trattamento di certe scene (il breve idillio, d’altronde ricco di deliziose notazioni, nel bosco di betulle); c’erano agevolazioni di sceneggiatura (la foto di Ivan che salta fuori alla fine tra le mille nelle rovine dell’archivio); c’erano compiacenze formalistiche. Però il tema, il mostruoso innesto dei veleni della guerra in un’anima di fanciullo, era arditissimo, e il personaggio che ne usciva, questo Ivan esile e chiaro, gettato dal paradiso di una infanzia felice nel gorgo di una tenebrosa sete di distruzione, era nuovo e allucinante.
Ebbene, tra l’emozione di allora e l’impressione di adesso, qualcosa si è messo in mezzo: qualcosa di falso, di stonato, di estraneo che altera completamente il ricordo. Può darsi che lo stesso testo russo, se lo avessimo capito, ci sarebbe apparso altrettanto pesante e pedestre, altrettanto sommario e melodrammatico. Per noi ignari restava soltanto il suono della lingua sconosciuta, volta a volta così aspro e così dolce, così soffice e così cantilenante, come il misterioso alone di una tragica fiaba.
Sopravvive per fortuna, nei lunghi silenzi, la magia delle immagini: le stelle filanti dei razzi sugli acquitrini, il calvario dei paesaggi bruciati, gli occhi della mamma morta, i cavalli e le mele, e nella bianca luce di un mondo ancora innocente, i nudi agili corpi di fanciulli in corsa sul mare.

Il Corriere della Sera, 28 aprile 1963

Tullio Kezich

Con un certo ritardo, dovuto alle difficoltà che incontra il film sovietico sugli schermi italiani, Sera arriva al pubblico L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, che vinse ex aequo con Cronaca familiare di Zurlini il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Gli avvenimenti degli ultimi mesi nell’URSS, dal discorso di Krusciov contro l’arte astratta alla condanna ufficiale del cosmopolitismo vecchio e nuovo nelle figure di Ehrenburg ed Evtuscenko, ci hanno intanto preparato a capire meglio questo strano film, documento di una fronda intellettuale occidentalizzante.
L’infanzia di Ivan è una specie di Piccolo alpino girato da Bernardo Bertolucci: a mezza strada fra il patriottismo d’obbligo e le aperture poetiche di un temperamento giovanile. Al tempo dei Littoriali simili ircocervi erano all’ordine del giorno anche da noi: si svolgeva il tema d’obbligo a denti stretti, per conformismo o per necessità, ma con l’animo rivolto a tutt’altri argomenti.
L’impegno era di onorare i miti della retorica ufficiale, tuttavia nessuno poteva impedire di contare le foglie sugli alberi. È quello che fa il giovane Tarkovskij, che all’accademia cinematografica deve essersi annoiato abbastanza alle lezioni di un regista trombone come Mikhail Romm e in L’infanzia di Ivan dà sfogo ai propri estri di paesaggista decadente, di elegante stilista. La condizione di non libertà dell’arte favorisce l’accademia fra i vecchi, il calligrafismo fra i giovani: in Tarkovskij non c’è più nemmeno l’ombra di quella pienezza d’espressione, di quell’umana concretezza che caratterizzarono il cinema sovietico dal 1925 al 1940.
C’è da aggiungere che L’infanzia di Ivan, come ogni prodotto di cultura decadente, si svolge in un’aura curiosamente malata e si compiace di toni morbosi. È chiaro che fra i giovani sovietici, incoraggiati dall’operosità di un vecchio leone come Ehrenburg, c’è una viva impazienza della tematica ufficiale, il desiderio di correre tutte le esperienze avanguardistiche legittime in altri paesi.
Alla luce di un film come questo si rileva che l’isolamento culturale crea fenomeni assurdi, riscoperte del luogo comune, deviazioni senza forza dialettica nei confronti della tradizione. Condannando le tendenze d’avanguardia, il partito, è ovvio, ha sconfessato anche i registi come Tarkovskij; ma è possibile che il cinema sovietico, abbandonati per logorio e per stanchezza i grandi temi rivoluzionari, trovi una nuova via al di fuori della libertà?

Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962–1967, Edizioni Il Formichiere

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.