L’industria culturale
di Theodor W. Adorno
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [giugno 2021]
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L’espressione «industria culturale» dovrebbe essere stata usata per la prima volta in Dialettica dell’illuminismo, il libro che Max Horkheimer e io pubblicammo ad Amsterdam nel 1947. Nelle prime stesure si parlava di cultura di massa. Sostituimmo questa espressione con quella di «industria culturale» per escludere subito l’interpretazione gradita ai suoi difensori: che si tratti di qualcosa come una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse, della forma che assumerebbe oggi l’arte popolare.
L’industria culturale si differenzia nel modo più estremo da un’arte di questo tipo. Essa combina la consuetudine con una nuova qualità. In ogni suo settore vengono confezionati in modo più o meno pianificato dei prodotti fatti apposta per il consumo di massa, e che tale consumo determinano a loro volta in larga misura. I singoli settori sono strutturati in modo simile o quanto meno sono reciprocamente accordati. Quasi senza lacune, costituiscono un sistema.
Ciò è consentito sia dagli odierni strumenti della tecnica, sia dalla concentrazione economica e amministrativa. Industria culturale è premeditata integrazione dall’alto dei suoi consumatori. Costringe a un’unione forzata gli ambiti, separati per millenni, di arte superiore e inferiore. A danno di entrambe.
Speculando sull’effetto, la prima perde la sua serietà; e la seconda, con l’incivilimento che l’addomestica, smarrisce la recalcitrante forza d’opposizione che ha posseduto fino a quando il controllo sociale non è divenuto totale. Se da un lato l’industria culturale specula innegabilmente sullo stato di coscienza e incoscienza dei milioni di persone a cui si rivolge, dall’altro le masse non sono l’elemento primario, ma un fattore secondario, compreso nel calcolo: un’appendice del meccanismo.
Il cliente non è, come l’industria culturale vorrebbe far credere, il sovrano, il soggetto di tale industria, bensì il suo oggetto. Il termine «mass media», che per l’industria culturale è già diventato consueto, fa scivolare l’accento in modo innocuo. Ma qui non si tratta in primo luogo delle masse, né delle tecniche di comunicazione come tali, bensì dello spirito che in quelle tecniche viene insufflato: la voce del padrone.
L’industria culturale si prodiga per le masse, di cui abusa, allo scopo di duplicare, consolidare e rafforzare la loro mentalità presupposta come immutabile. Tutto ciò che potrebbe servire a modificarla, è da essa escluso. Le masse non sono il criterio bensì l’ideologia dell’industria culturale, posto che questa potesse esistere non adattandosi alle masse.
Le merci culturali dell’industria, come Brecht e Suhrkamp dissero già trent’anni or sono, si orientano sul principio della loro valorizzazione, non su quello del contenuto e della sua forma più appropriata. Tutta la prassi dell’industria culturale trasferisce il movente del profitto nudo e crudo sui prodotti dello spirito. Che da quando sono stati immessi come merci sul mercato, procurando da vivere ai loro autori, hanno già assunto qualcosa di quel carattere.
Ma la ricerca del profitto era soltanto mediata, avveniva grazie alla loro natura autonoma. L’elemento di novità nell’industria culturale è invece il primato immediato e palese dell’effetto, che nei suoi prodotti più tipici viene calcolato fin nel minimo dettaglio. L’autonomia dell’opera d’arte, che non si è certo quasi mai affermata allo stato puro ed è sempre stata attraversata dalla ricerca dell’effetto, è tendenzialmente accantonata dall’industria culturale, con o senza la consapevole volontà di chi ne dispone.
Che possono essere gli organi esecutivi quanto i detentori del potere. E che, sul piano economico, sono o erano alla ricerca di nuove possibilità di valorizzazione del capitale nei paesi economicamente più sviluppati. Le vecchie possibilità diventano infatti sempre più precarie a causa di quel processo di concentrazione che solo rende possibile l’industria culturale come istituzione onnipresente.
La cultura, che nella sua accezione più propria non si è mai soltanto piegata al volere degli uomini, ma ha anche sempre elevato una protesta contro la durezza delle condizioni in cui vivono — e in tal modo li ha rispettati, adeguandosi totalmente alla durezza di quelle condizioni — si integra in esse, degradando cosi ulteriormente gli esseri umani.
Da tempo i prodotti dello spirito nello stile dell’industria culturale non sono anche merci, ma sono merci da cima a fondo. Lo slittamento qualitativo è tale da provocare fenomeni assolutamente nuovi. In fondo l’industria culturale non ha più bisogno di perseguire ovunque e direttamente il profitto per il quale era nata.
Questo interesse si è oggettivato nella sua stessa ideologia, emancipandosi in parte dall’obbligo di vendere quelle merci culturali che in ogni caso ci si deve sciroppare. L’industria culturale trapassa così nelle public relation, nella produzione di good will puro e semplice, senza tenere conto di oggetti o marche particolari. La merce che si vuole piazzare è un acritico accordo generale, si fa pubblicità al mondo cosi com’è, e ciascun prodotto dell’industria culturale è la réclame di se stesso.
Ma i tratti che sin dall’origine erano stati propri della trasformazione della letteratura in merce vengono mantenuti. Se c’è qualcosa al mondo che ha la sua ontologia, questo è l’industria culturale, con la sua struttura di categorie fondamentali rigidamente conservate e già riconoscibili, per esempio, nel romanzo commerciale inglese della fine del XVII e dell’inizio del XVIII secolo. Quel che nell’industria culturale si presenta come progresso, l’incessantemente nuovo che essa offre, si rivela il travestimento di un sempre uguale; dappertutto la varietà nasconde uno scheletro che non è mutato più di quanto lo sia il movente del profitto dacché ha acquisito il predominio sulla cultura.
La parola «industria» non è tuttavia da prendersi alla lettera. Si riferisce alla standardizzazione della cosa stessa — come quella dei film western, familiare a ogni frequentatore di sale cinematografiche — e alla razionalizzazione delle tecniche di distribuzione; non al processo di produzione in senso stretto. Se infatti nel settore centrale dell’industria culturale — quello cinematografico — il processo produttivo è ormai simile sotto molti aspetti a un procedimento tecnico, data la generalizzata divisione del lavoro, l’impiego di macchine e la separazione del lavoratori dal mezzi di produzione — separazione che si esprime nell’eterno conflitto tra gli artisti occupati nell’industria culturale e i detentori di potere decisionale — ciò non impedisce che si conservino forme di produzione individuali.
Ogni prodotto si offre anzi come individuale; e l’individualità stessa, suscitando l’illusione che quel che è interamente reificato e mediato sia invece un rifugio per l’immediatezza e la vita, serve al rafforzamento dell’ideologia. Oggi come ieri l’industria culturale consiste in «servizi» rivolti a terzi, e serba la sua affinità con il senescente processo di circolazione del capitale — con il commercio — da cui trae origine.
La sua ideologia fa soprattutto ricorso al sistema delle star, preso a prestito dall’arte individualistica e dal suo sfruttamento commerciale. Più la sua attività e il suo contenuto sono disumani, più insistente e riuscita è la propaganda di presunte grandi personalità, e più bonario il tono che tutto ciò assume. «Industriale» questo sistema lo è più nel senso dell’assimilazione — spesso osservata dalla sociologia — alle forme organizzative dell’industria che sussistono anche dove non si fabbrica qualcosa — si pensi alla razionalizzazione burocratica — che nel senso di una vera e propria produzione tecnologico-razionale.
Anche nell’industria culturale sono quindi considerevoli gli investimenti sbagliati e le crisi, di rado apportatrici di un miglioramento, in cui vengono a trovarsi i suoi settori costantemente superati da tecniche più recenti.
Nell’industria culturale il concetto di «tecnica» ha solo il nome in comune con il suo corrispettivo nel campo delle opere d’arte. Qui la tecnica si riferisce all’organizzazione dell’oggetto in sé, alla sua logica interna. Essendo anzitutto una tecnica di diffusione e di riproduzione meccanica, quella dell’industria culturale si mantiene invece sempre esterna al proprio oggetto.
L’industria culturale trova un supporto ideologico proprio nel fatto di guardarsi bene dall’applicare con totale coerenza le proprie tecniche ai suoi prodotti. Vive per cosi dire parassitando la tecnica, esterna all’arte, della produzione di beni materiali, senza tener conto dei vincoli che la sua materialità comporta per la creazione artistica, ma senza altresì rispettare la legge formale dell’autonomia estetica. Ne risulta il miscuglio, essenziale per la fisiognomica dell’industria culturale, di streamlining, durezza e precisione fotografica, da un lato, e di residui individualistici — atmosfera, romanticismo confezionato e razionalmente dosato — dall’altro.
Se si assume l’«aura» di cui ha parlato Walter Benjamin — la presenza del non presente — come fattore determinante dell’opera d’arte tradizionale, l’industria culturale viene definita dal fatto che non contrappone rigorosamente al principio dell’aura un principio diverso, ma conserva l’aura, putrefatta, come alone fumogeno. In tal modo confessa immediatamente la propria perversa essenza ideologica.
Nel frattempo l’invito a non sottovalutare l’industria culturale, data la sua grande importanza per la formazione della coscienza dei suoi consumatori, è diventato un luogo comune tra i politici della cultura e anche tra i sociologi. Dovremmo prenderlo sul serio mettendo da parte la superbia intellettuale. Quale momento della mentalità oggi dominante, l’industria culturale è in effetti importante.
Chi volesse ignorarne l’influsso in nome dello scetticismo verso ciò che essa propina agli esseri umani, sarebbe un ingenuo. Ma l’esortazione a prenderla sul serio è sfuggente. Per via della sua funzione sociale si mettono a tacere — o comunque si eliminano dalla cosiddetta sociologia della comunicazione — interrogativi fastidiosi circa la qualità, verità o falsità, a livello estetico, di quel che viene trasmesso.
Si rimprovera al critico di trincerarsi in un arrogante esoterismo. Bisognerebbe anzitutto rilevare il duplice significato che si insinua di soppiatto nel concetto di importanza. La funzione di una cosa, anche se concerne la vita di innumerevoli individui, non è garanzia della sua qualità. La mescolanza dell’elemento estetico con la sua feccia comunicativa non colloca l’arte, in quanto fatto sociale, in una giusta posizione di fronte alla pretesa superbia degli artisti; spesso serve piuttosto a difendere qualcosa di funesto nelle sue conseguenze sociali.
L’importanza dell’industria culturale nell’economia psichica delle masse non dispensa — e tanto meno lo può fare una scienza che si considera pragmatica — dal riflettere sulla sua oggettiva legittimazione, sul suo in sé; semmai lo esige.
Prenderla sul serio, come la sua indubbia importanza richiede, significa dunque prenderla sul serio criticamente, non prostrarsi dinanzi al suo monopolio.
Fra gli intellettuali che si rassegnano a questo fenomeno, e cercano di conciliare le riserve nei suoi confronti con il rispetto per la sua potenza, è d’uso — a meno che non vogliano già fare della regressione in atto un nuovo mito del XX secolo — un tono di ironica indulgenza.
È noto, dicono, che fotoromanzi e film fatti in serie, cicli di trasmissioni televisive per famiglie e programmi di canzonette, rubriche di consulenza psicologica e oroscopi, lasciano il tempo che trovano. Tutto ciò è innocuo e, per giunta, democratico, in quanto risponde a una domanda, anche se indotta. Senza contare tutta una serie di possibili benefici: per esempio la diffusione di informazioni, consigli e modelli liberatori di comportamento.
Ma le informazioni — e lo dimostra qualsiasi indagine sociologica su un tema elementare come il livello dell’informazione politica — sono misere o insignificanti; i consigli insulsi, banali o peggio; e i modelli di comportamento spudoratamente conformistici.
L’ironia menzognera nei confronti dell’industria culturale non si limita però alla categoria degli intellettuali docili come agnelli. E lecito supporre che la stessa coscienza dei consumatori sia scissa tra lo svago prescritto e somministrato dall’industria culturale, e un dubbio non troppo celato riguardo ai suoi benefici. Il detto secondo cui il mondo vuole essere ingannato è diventato più vero di quanto non lo sia mai stato.
Non solo gli uomini, come si usa dire, ci cascano, purché ciò procuri loro una sia pur effimera gratificazione; ma esigono addirittura l’inganno che essi stessi intuiscono; tengono gli occhi disperatamente chiusi e approvano, in una sorta di disprezzo di sé, quel che viene loto propinato, ben sapendo a che scopo viene prodotto, senza ammetterlo, hanno il presentimento che la loro vita diventerebbe assolutamente insopportabile qualora cessassero di aggrapparsi a soddisfazioni che tali non sono.
Ma l’argomento più pretenzioso in difesa dell’industria culturale è quello che ne glorifica lo spirito — che si può chiamare tranquillamente ideologico — in quanto riconosce in esso un fattore d’ordine. In un mondo che si presume caotico, l’industria culturale fornirebbe agli uomini qualcosa di simile a dei criteri di orientamento, e già questo sarebbe un fatto apprezzabile. Ma ciò che costoro si illudono venga salvaguardato dall’industria culturale, è da essa tanto più radicalmente distrutto.
Il film in technicolor demolisce la vecchia locanda accogliente più di quanto facciano le bombe: ne estirpa persino l’imago. E non c’è patria che sopravviva alla manipolazione delle pellicole che la celebrano, e riducono a confondibile genericità l’inconfondibile di cui si nutrono.
Quel che senza nessuna retorica si poteva chiamare cultura, in quanto espressione di sofferenza e contraddizione, intendeva tener ferma l’idea di una vita giusta; e non rappresentare la mera esistenza e le categorie ordinatrici, ormai non più vincolanti e convenzionali, con cui l’industria culturale la drappeggia, come se questa fosse la vita giusta e quelle la sua unità di misura. Se gli avvocati difensori dell’industria culturale ribattono che quel che essa fornisce, non ha nulla a che vedere con l’arte, anche questa è ideologia, che pretende di declinare la responsabilità rispetto a ciò su cui si regge la faccenda. Nessuna infamia trova venia per il fatto di riconoscersi tale.
Invocare l’ordine puro e semplice, senza la sua determinazione concreta; invocare la diffusione di norme, senza che queste debbano legittimarsi nella pratica o di fronte alla coscienza, non serve a nulla. Un ordine obiettivamente vincolante, come quello che si vuole affibbiare agli uomini che ne sarebbero carenti, non ha ragion d’essere se non si giustifica in se stesso e davanti agli uomini; ed è proprio: ciò che si guarda bene dal fare il prodotto dell’industria culturale.
I concetti di ordine che inculca sono comunque quelli dello status quo. Assunti in modo aproblematico, non dialettico, senza verifica e analisi alcuna, non per questo posseggono però una sostanza per coloro che se li lasciano imporre. L’imperativo categorico dell’industria culturale, a differenza di quello kantiano, non ha nulla in comune con la libertà. Esso recita: «tu devi piegarti», senza specificare di fronte a che cosa; un docile piegarsi di fronte a ciò che immediatamente è, e a ciò che, come riflesso della sua potenza e onnipresenza, viene pensato da tutti.
Tramite l’ideologia dell’industria culturale, l’adattamento prende il posto della coscienza: l’ordine che ne scaturisce non viene mai messo a confronto con quel che pretende di essere o con i reali interessi degli uomini. Ma l’ordine in sé non è un bene. Lo sarebbe unicamente se fosse giusto.
Il fatto che l’industria culturale non se ne preoccupi, che elogi l’ordine in abstracto, attesta solamente l’impotenza e la falsità dei messaggi che trasmette. Mentre pretende di essere la guida dei disorientati e simula conflitti che essi dovrebbero scambiare per propri, risolve solo in apparenza tali conflitti, e in un modo tale che nella loro vita non porterebbe certo a una soluzione.
Nei prodotti dell’industria culturale gli uomini incontrano delle difficoltà solo perché possano uscirne senza turbamento alcuno, per lo più grazie ai rappresentanti di un collettivo buono e onnipotente, e cosi, in futile armonia, approvare quell’universale le cui esigenze avevano sino ad allora dovuto sperimentare come inconciliabili coi loro interessi.
A tal scopo l’industria culturale ha elaborato degli schemi che raggiungono anche campi lontani dall’astrazione concettuale, come la musica leggera; e anche qui, nel jazz, certi problemi ritmici vengono subito sbrogliati col trionfo della battuta risolutiva.
Nemmeno i difensori dell’industria culturale vorranno però apertamente contraddire Platone quando afferma che ciò che è falso oggettivamente, in sé, non può essere buono e vero per gli esseri umani. Dietro le trovate dell’industria culturale non ci sono regole per una vita felice, né una nuova arte che si addossi responsabilità morali, bensì esortazioni a obbedire agli interessi più potenti.
Il consenso che essa propaganda, rafforza un’autorità cieca, irrazionale. Ma se si misurasse l’industria culturale in base alla posizione che occupa nella realtà e alle pretese che avanza, e cioè col metro dell’effetto anziché con quello della sua sostanza e della sua logica; se ci si preoccupasse seriamente di ciò a cui essa continuamente si richiama — all’effetto che esercita — allora proprio le sue potenzialità dovrebbero metterci doppiamente in allarme.
Mi riferisco all’incremento e sfruttamento della debolezza dell’Io, a cui la società attuale, con la concentrazione di potere che la connota, condanna senza scampo i suoi membri impotenti.
La loro coscienza viene fatta ulteriormente regredire. Non a caso, in America, può accadere di sentir dire a dei cinici produttori cinematografici che i loro film devono essere alla portata di un bambino di undici anni. Cosi facendo, sognano di rendere gli adulti degli undicenni.
Intanto ci si è ben guardati dal fornire una dimostrazione incontestabile, basata su una ricerca precisa, dell’effetto regressivo dei singoli prodotti dell’industria culturale; direttive sperimentali dotate di fantasia perverrebbero certamente a questo risultato con maggior facilità di quanto non sarebbe gradito ai finanziatori interessati.
Ma non c’è dubbio che la goccia scava la pietra, sino in fondo, visto che il sistema dell’industria culturale circonda le masse e non tollera evasioni dagli schemi di comportamento che incessantemente propone. Solo una profonda diffidenza inconscia, ultimo residuo che la loro mente conserva della differenza tra arte e realtà empirica, spiega come le masse non abbiano ormai finito per vedere e accettare il mondo intero secondo il canone che viene loro ammannito dall’industria culturale.
La quale, posto che i suoi messaggi siano cosi innocui come si pretende — e innumerevoli volte lo sono tanto poco quanto, per esempio, i film che con due o tre tipici tocchi rinfocolano la caccia agli intellettuali oggi di nuovo in voga — è però tutt’altro che innocua riguardo all’atteggiamento che genera. Se un astrologo esorta i suoi lettori a guidare l’automobile con prudenza in un dato giorno, ciò non fa certamente male a nessuno; non cosi l’istupidimento insito nella pretesa che per un consiglio idiota, e buono per qualsiasi giorno, si debbano chiamare in causa i segni delle stelle.
Dipendenza e asservimento degli uomini — il punto di fuga dell’industria culturale — non potrebbero essere riassunti più fedelmente di quanto lo sono nella risposta a un sondaggio da parte di quell’americano, secondo cui le difficoltà della nostra epoca avrebbero fine, se la gente si ponesse semplicemente al seguito di personalità eminenti.
Il soddisfacimento sostitutivo che l’industria culturale procura col sentimento confortante che il mondo sia ordinato proprio nel modo che essa vuol suggerire, defrauda gli uomini della felicità di cui spaccia il simulacro. L’effetto globale dell’industria culturale è quello di un anti-illuminismo; in essa l’«illuminismo», come Horkheimer e io abbiamo chiamato il progressivo dominio della natura con l’ausilio della tecnica, diventa inganno delle masse, un mezzo per incatenare le coscienze.
Essa impedisce la formazione di individui autonomi, indipendenti, capaci di giudicare e decidere consapevolmente. Queste sarebbero però le premesse di una società democratica che soltanto individui maggiorenni possono mantenere e sviluppare. Se si fa torto alle masse, se dall’alto le si insulta, di ciò è responsabile non ultima l’industria culturale; è l’industria culturale che disprezza le masse e impedisce loro quell’emancipazione per la quale gli uomini sarebbero maturi nella misura concessa dallo sviluppo delle forze produttive della nostra epoca.
Da Th. W. Adorno, Résumé über Kulturindustrie, conferenza radiofonica del 28 marzo 1963, emittente Hessischer Rundfunk.
In: La scuola di Francoforte. La storia e i testi, a cura di Enrico Donaggio, Einaudi, Torino, Einaudi, 2005, pp. 224–233.