L’indipendenza e la schiavitù

La lunga marcia dei diritti civili e del movimento Black Lives Matter

Mario Mancini
44 min readJul 11, 2020

di Frederick Douglass
Discorso di Rochester, NewYork, il 5 luglio 1852

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [luglio 2020]

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Il discorso fu pronunciato Corinthian Hall di Rochester, New York. Il testo è quello incluso nella Heath Anthology of American Literature (Lexington, Mass., 1990), desunto dall’opuscolo a stampa pubblicato nell’occasione in cui fu tenuto il discorso. Le note sono basate su quelle della stessa antologia, integrate e modificate dai curatori (le note aggiunte dai curatori sono tra parentesi quadre).

Chi è Frederick Bailey (poi Frederick Douglass)

Frederick Bailey (poi Frederick Douglass) nacque schiavo nel 1818 in una piantagione presso Tuckahoe, Talbot County, Maryland. All’età di sette anni fu mandato a servizio domestico presso un parente del padrone a Baltimore; dapprima con l’aiuto della padrona, poi di nascosto, imparò a leggere. Dopo vari trasferimenti e passaggi di proprietà (a Baltimora lavorò al porto e apprese il mestiere di calafato), e dopo diversi tentativi di fuga, riuscì a fuggire nel 1838. Con l’aiuto della futura moglie Anna Murray si rifugiò a New York (dove prese il nome di Frederick Johnson) e poi a New Bedford: fu qui che prese il nome di Douglass, tratto da un romanzo di Walter Scott.

Fece vari mestieri, tra cui quelli di portuale e falegname, e aderì alla African Methodist Episcopal Church in cui fu designato come «exhorter». Attivamente impegnato nella propaganda antischiavista, assunse un ruolo preminente dopo il discorso tenuto Eli agosto 1841 a Nantucket. Da allora lavorò a tempo pieno come oratore e propagandista per la causa abolizionista raccontando la sua esperienza ed esponendo le sue opinioni.

Fu più volte aggredito e picchiato, e la sua veridicità fu messa in dubbio, perché non si riteneva possibile che un ex schiavo potesse esprimersi con tanta competenza; perciò nel 1845 pubblicò la sua prima autobiografia (Narrative of Frederick Douglass, an American Slave. Written by Himself), intesa anche a fornire prove documentarie del suo racconto. Il libro fu un grande successo, e Douglass fu invitato ad un trionfale giro di conferenze in Gran Bretagna e Irlanda, dove si trattenne per due anni. Con i fondi raccolti in questo viaggio pagò al padrone il prezzo della sua libertà: gesto molto criticato, ma che lo mise al sicuro dal rischio di essere ricatturato e riportato al Sud.

Riportato in patria, fondò nel 1849 un proprio giornale, “The North Star”, primo segno della sua graduale separazione dall’abolizionismo bianco, raccontata nella seconda autobiografia (My Bondage and My Freedom, 1855). Nello stesso anno partecipò alla conferenza di Niagara sull’emancipazione femminile, dove fu il solo uomo che prese posizione a favore del voto alle donne. Appoggiò il tentativo insurrezionale di John Brown nel 1859, e dovette per questo rifugiarsi in Gran Bretagna. Durante la guerra civile fu protagonista della mobilitazione militare e politica afroamericana e polemizzò duramente con Lincoln per le esitazioni e i ritardi nell’emancipazione degli schiavi. Sempre attivo come oratore, giornalista, educatore, partecipò ai primi tentativi di organizzare i lavoratori neri nei nascenti sindacati operai; nel 1874 divenne presidente della fallimentare Freedman’s Bank.

Per i servizi resi al partito repubblicano (il partito di Lincoln e dell’emancipazione) fu tra i primi afroamericani a ricevere incarichi politici federali: «marshal» e «recorder of deeds» del Distretto di Columbia (1877–1881, 1881–1886), poi ministro plenipotenziario e console ad Haiti (1889–1891). Qui rifiutò di collaborare ai progetti degli Stati Uniti di impadronirsi di una parte del territorio haitiano per una base navale. Nel 1893, il governo di Haiti lo designò come proprio rappresentante all’Esposizione Mondiale di Chicago.

In tutto questo tempo, fu attivo nella battaglia per i diritti politici e umani degli afroamericani, dal diritto di voto alla repressione del linciaggio. Pubblicò nel 1882 la terza stesura della sua autobiografia (The Life and Times of Frederick Douglass, nuovamente rivista nel 1892). Mori il 20 febbraio 1895.

Alessandro Portelli

Signor Presidente, amici, concittadini

Chi potesse rivolgersi a questo pubblico senza provare una sensazione di sgomento avrebbe i nervi più saldi dei miei. Non ricordo di essere mai apparso come oratore di fronte a un’assemblea con maggior ritrosia, né con maggior sfiducia nelle mie capacità, di quanto non faccia oggi. Ho una sensazione piuttosto negativa nei confronti dell’esercizio delle mie limitate capacità di eloquenza. Il compito che mi aspetta è di quelli che per poter avere la giusta esecuzione richiedono prima molta riflessione e studio. So che generalmente scuse di questo tipo vengono ritenute piatte e insignificanti. Confido, tuttavia, che le mie non verranno considerate tali. Se dovessi sembrare a mio agio, l’apparenza darebbe di me un’impressione di gran lunga errata. La scarsa esperienza che ho nel pronunciare discorsi pubblici, in scuole di provincia, a nulla mi giova nella presente occasione.

I giornali e i manifesti dicono che io devo pronunciare un’orazione per il quattro di luglio. Cosa che a me certamente sembra strana, e fuori dal comune. È vero che spesso ho avuto il privilegio di parlare in questa magnifica sala, e di rivolgermi a molti di coloro che ora mi onorano della loro presenza. Ma né i loro volti familiari, né la conoscenza perfetta che ritengo di avere della struttura architettonica della Corinthian Hall, sembrano togliermi dall’imbarazzo.

Il fatto è, signore e signori, che la distanza tra questa piattaforma e la piantagione di schiavi, da cui io sono fuggito, è considerevole — e le difficoltà da superare per giungere da quella a questa non sono affatto trascurabili. Che io sia qui oggi è, ai miei occhi, una cosa che suscita meraviglia, oltre che gratitudine. Non sarete pertanto sorpresi se in ciò che ho da dire non mostrerò alcuna elaborata preparazione, né ornerò le mie parole con un esordio altisonante. Con poca esperienza, e con ancor meno erudizione, sono riuscito in fretta e furia a mettere insieme i miei pensieri in modo imperfetto; e confidando nella vostra pazienza e generosa indulgenza, vengo ad esporveli.

Oggi, ai fini della nostra celebrazione, è il quattro di luglio. È l’anniversario della vostra Indipendenza Nazionale, e della vostra libertà politica. Questo, per voi, è ciò che la Pasqua ebraica era per il popolo di Dio emancipato dalla schiavitù. Riportate le vostre menti indietro, fino al tempo e al gesto della vostra liberazione; e ai segni, e alle meraviglie che accompagnarono quel tempo e quel gesto. Questa celebrazione segna anche l’inizio di un altro anno della vostra vita nazionale; e vi ricorda che la Repubblica d’America ha ora settantasei anni.

Sono lieto, concittadini, che la vostra nazione sia così giovane. Settantasei anni è il tempo concesso agli individui; ma le nazioni contano i propri anni a migliaia. Per questa ragione voi adesso siete ancora solo all’inizio della vostra carriera nazionale, ancora indugiate nell’infanzia. Lo ripeto, sono lieto che sia così. Pensarlo fa ben sperare, e c’è molto bisogno di speranza sotto le nuvole scure che si addensano all’orizzonte. L’occhio del riformatore incontra grossi lampi, che annunciano tempi terribili; ma il suo cuore può battere più lievemente al pensiero che l’America è così giovane.

I grossi torrenti non vengono facilmente deviati dal loro corso, scavato a fondo nei secoli. Possono a volte crescere in una calma tranquilla e maestosa, e inondare il terreno rinfrescando e fertilizzando la terra con le loro proprietà misteriose. Possono anche ingrossarsi collerici e furiosi e trascinare via, sulle loro onde rabbiose, la ricchezza accumulata in anni di fatiche e privazioni. Comunque, a poco a poco tornano a fluire nello stesso vecchio letto, per scorrere tranquillamente come prima. Ma, mentre non si può cambiare il corso del fiume, questo può seccarsi, e lasciarsi dietro null’altro che il ramo secco e la roccia brulla, a ululare, nel vento che spazza l’abisso, il racconto della gloria perduta. Come per i fiumi, così per le nazioni.

Concittadini, non mi permetterò di soffermarmi a lungo sulle associazioni che si affollano intorno a questo giorno. La storia pura e semplice è che, settantasei anni fa, gli abitanti di questo paese erano sudditi britannici. La definizione e il titolo di «popolo sovrano» di cui ora vi gloriate, allora non erano ancora nati. Eravate sotto la Corona Britannica. I vostri padri consideravano il Governo Inglese come il governo nazionale; e l’Inghilterra come la Madrepatria. Questo governo nazionale, come sapete, anche se da una distanza considerevole dalla vostra casa, nell’esercizio delle sue prerogative di genitore, impose ai suoi figli coloniali quei controlli, oneri e limitazioni che, nel suo maturo giudizio, riteneva saggi, giusti e appropriati.

Ma i vostri padri, che non avevano sposato l’idea, in quel periodo di gran moda, dell’infallibilità del governo e del carattere assoluto delle sue leggi, si permisero di dissentire dal governo nazionale circa la saggezza e la giustizia di alcune di quelle limitazioni e di quegli oneri. Si spinsero così avanti nella loro protesta da dichiarare le misure del governo ingiuste, irragionevoli e oppressive, e nel complesso tali da non doversi subire in silenzio. Non credo di aver bisogno di dire, concittadini, che la mia opinione su quelle misure si accorda pienamente con quella dei vostri padri.

Una tale dichiarazione di consenso da parte mia non sarà di gran valore per nessuno. Certamente non dimostrerebbe nulla dichiarare quale parte avrei preso se fossi vissuto durante il conflitto del 1776. Affermare ora che l’America aveva ragione, e l’Inghilterra torto, è fin troppo facile. Chiunque può dirlo; il vigliacco, non meno che il nobile coraggioso, può con irriverenza esprimersi contro la tirannia dell’Inghilterra nei confronti delle Colonie Americane. Farlo è di moda; ma c’era un tempo in cui pronunciarsi contro l’Inghilterra, e in favore della causa delle colonie, metteva alla prova l’animo degli uomini[1]. Coloro che lo facevano, a quel tempo, venivano considerati complottatoti, agitatori e ribelli: uomini pericolosi. Mettersi dalla parte della giustizia contro l’ingiustizia, dalla parte del debole contro il forte, e dalla parte dell’oppresso contro l’oppressore! Qui sta il merito, e proprio quello che, fra tutti gli altri, oggi sembra passato di moda. La causa della libertà può venir pugnalata da quegli stessi uomini che si gloriano delle imprese dei vostri padri. Ma procediamo oltre.

Sentendosi trattati duramente e ingiustamente dal governo della madrepatria, i vostri padri, uomini onesti e uomini coraggiosi, ricercarono con fervore una riparazione. Presentarono petizioni e protestarono; lo fecero con decoro, rispetto e lealtà. La loro condotta fu assolutamente irreprensibile. Tutto ciò, tuttavia, non servì allo scopo. Si videro trattati con sovrana indifferenza, freddezza e disprezzo. Eppure perseverarono. Non erano uomini da rinunciare.

Come l’ancora si fissa più saldamente quando la nave è sballottata dalla tempesta, così la causa dei vostri padri crebbe sempre più forte via via che veniva alimentata dalle raffiche gelate dalla regia disapprovazione. Il più grande uomo di stato inglese ne riconobbe la giustizia, e le venne in aiuto la nobilissima eloquenza del Senato britannico. Ma, con quella cecità che pare essere la caratteristica immutabile dei tiranni, sin da quando il faraone e i suoi ospiti vennero annegati nel mar Rosso, il Governo Britannico si ostinò nelle imposte di cui ci si lamentava.

La follia di questa rotta, crediamo, viene ora ammessa apertamente persino dall’Inghilterra; ma temiamo che la lezione sia andata completamente perduta per i nostri governanti attuali.

L’oppressione rende pazzo un uomo saggio. I vostri padri erano uomini saggi, e un tale trattamento, pur non facendoli impazzire, li rese irrequieti. Si sentirono vittime di aggressioni ingiuste, totalmente insanabili finché restavano colonie. Con uomini coraggiosi c’è sempre un rimedio all’oppressione. Proprio a questo punto nacque l’idea di una totale separazione delle colonie dalla corona! Era un idea molto più impressionante di quanto noi, a distanza di tempo, possiamo capire. I timorosi e i prudenti ne furono, ovviamente, sconvolti e allarmati.

Gente simile viveva allora, era vissuta prima, e, probabilmente, avrà sempre un posto su questo pianeta; e la loro rotta, nei confronti di qualsiasi grande cambiamento (non importa quanto grande il vantaggio che se ne otterrebbe, o i torti che verrebbero riparati), può essere calcolata con la stessa precisione di quella delle stelle. Essi odiano tutti i cambiamenti, salvo quelli che riguardano l’argento, l’oro e il rame! A questo genere di cambiamento sono sempre assai favorevoli.

Queste persone vennero chiamate tories[2]; e l’epiteto, probabilmente, suggeriva la stessa idea espressa da un termine più moderno, sebbene chissà perché meno eufonico, che spesso troviamo sui nostri giornali, riferito ad alcuni dei nostri vecchi uomini politici[3].

La loro opposizione a quello che allora veniva considerato un pensiero pericoloso era energica e fervente; ma, nonostante tutta la loro paura e le voci terrorizzate che si levavano contro di essa, quell’idea allarmante e rivoluzionaria andò avanti, e con lei il paese.

Il 2 luglio 1776 il vecchio Congresso Continentale, con sgomento degli amanti dell’agio e degli adoratori della proprietà, rivestì quell’idea spaventosa con tutta l’autorità della ratifica nazionale. Lo fecero nella forma di una risoluzione; e dato che raramente ci capita di incontrare una risoluzione redatta ai nostri giorni, che sia chiara quanto questa, leggerla può servire a rinfrescarci la memoria e ad aiutare la mia storia.

Dichiariamo, che queste colonie unite sono, e devono di diritto essere, Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona Britannica; e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è, e deve essere, del tutto reciso[4].

Cittadini, i vostri padri hanno fatto buon uso di questa risoluzione. Sono riusciti nel loro intento; e oggi voi cogliete i frutti del loro successo. La libertà guadagnata è vostra; e voi, di conseguenza, potete adeguatamente celebrare questo anniversario. Il quattro di luglio è il primo grande avvenimento della vostra storia nazionale — il primo vero anello da cui parte la catena del vostro destino nazionale ancora da sviluppare.

Orgoglio e patriottismo, non meno che gratitudine, vi spingono a festeggiare e a mantenere questa data a perpetuo ricordo. Ho detto che la Dichiarazione d’indipendenza è l’anello che lega la catena del vostro destino nazionale; così, infatti, la considero io. I principi contenuti in quello strumento sono principi di salvezza. Attenetevi a quei principi, restate loro fedeli in tutte le occasioni, in tutti i luoghi, contro tutti i nemici, e a qualunque costo.

Dal ponte di comando della vostra nave di stato si vedono nubi oscure e minacciose. Nuvole pesanti, come montagne in lontananza, rivelano sottovento enormi forme di rocce silicee! Divelto quell’anello, spezzata quella catena, tutto è perduto. Aggrappatevi a questo giorno — aggrappatevi ad esso, e ai suoi principi, così come il marinaio sballottato dalla tempesta si aggrappa al pennone a mezzanotte.

La nascita di una nazione, in qualsiasi circostanza, è un evento interessante. Ma, al di là di considerazioni generali, cerano circostanze particolari che hanno reso l’avvento di questa repubblica un evento degno di attenzione speciale.

L’intera scena, quando mi volto ad osservarla, era semplice, dignitosa e sublime.

La popolazione del paese, a quell’epoca, si limitava alla cifra insignificante di tre milioni. Il paese era povero di munizioni per la guerra. La popolazione era debole e sparpagliata, e il paese un luogo selvaggio e indomito. Allora non cerano possibilità di accordi e alleanze, così come ora. Né il vapore né la luce erano stati piegati all’ordine e alla disciplina. Dal Potomac al Delaware era un viaggio di molti giorni. Soggetti a queste e a innumerevoli altre condizioni sfavorevoli, i vostri padri si pronunciarono per la libertà e l’indipendenza, e trionfarono.

Concittadini, non mi manca certo il rispetto per i padri di questa repubblica. I firmatari della Dichiarazione d’indipendenza erano uomini coraggiosi. Erano anche grandi uomini — così grandi da dare fama a una grande epoca. Il punto da cui sono costretto a osservarli non è certamente dei più favorevoli; eppure non posso contemplare le loro grandi imprese se non con ammirazione. Erano uomini di stato, patrioti ed eroi, e per il bene che realizzarono, e i principi per cui si batterono, mi unirò a voi per onorare la loro memoria.

Amavano il loro paese più dei loro interessi privati; e, sebbene questa non sia la forma più alta di eccellenza umana, tutto porta a riconoscere che è una virtù rara, e che quando è esibita dovrebbe esigere rispetto. Colui che con intelligenza metterà la propria vita a disposizione del Suo paese è un uomo che non è nella natura umana disprezzare. I vostri padri rischiarono le loro vite, le loro fortune, e il loro sacro onore, per la causa di questo paese. Nella loro ammirazione per la libertà, persero di vista i propri interessi.

Erano uomini di pace; ma preferirono la rivoluzione alla sottomissione pacifica alla servitù. Erano uomini tranquilli; ma non indietreggiarono impauriti e si ribellarono contro l’oppressione. Mostrarono pazienza; ma anche di conoscere i loro limiti. Credevano nell’ordine; ma non nell’ordine della tirannia. Per loro, nulla era «stabilito» se non era giusto. Per loro solo la giustizia, la libertà e l’umanità erano «irrevocabili», non la schiavitù e l’oppressione. Potete a ragione aver cara la memoria di tali uomini. Erano grandi ai loro tempi e per la loro generazione. Il loro coraggio concreto risalta ancora di più se lo mettiamo a confronto con questi tempi degenerati.

Quanto cauti, precisi e adeguati erano i loro movimenti! Quanto diversi dai politici improvvisati! La loro saggezza politica nel governare guardava oltre il momento contingente, e si protendeva rafforzandosi verso il futuro lontano. S’appellarono a principi eterni, e li difesero con un esempio glorioso. Osservateli con attenzione!

Pienamente consapevoli delle sofferenze che li aspettavano, credendo fermamente nella giustizia della loro causa, invitando con onore lo scrutinio di un mondo che stava a guardare, appellandosi con reverenza al cielo perché attestasse la loro sincerità, comprendendo bene la solenne responsabilità che stavano per assumersi, misurando saggiamente le tremende probabilità che avevano contro, i vostri padri, i padri di questa repubblica, in modo assolutamente ponderato, con l’ispirazione di un glorioso patriottismo, e con una fede sublime nei grandi principi della giustizia e della libertà, hanno posto la pietra miliare della sovrastruttura nazionale, che è cresciuta e ancora cresce grandiosa intorno a voi.

Di quest’opera fondamentale, questo giorno è l’anniversario. I nostri occhi incontrano espressioni di gioioso entusiasmo. Stendardi e vessilli si agitano esultanti nella brezza. Persino il chiasso degli affari si acquieta. Persino i Mammoni sembrano aver mollato la presa su questo giorno. Il piffero che buca il timpano e l’energico tamburo uniscono i loro accenti al fragore di migliaia di campane che si alza dalle chiese. S’innalzano preghiere, si cantano inni, e si pronunciano sermoni in onore di questo giorno; mentre il passo veloce e marziale di una grande e popolosa nazione, riecheggiato dalle colline, dalle valli e dalle montagne di un vasto continente, rivela la prima occasione di interesse eccitante e universale — il giubileo di una nazione.

Amici e cittadini, non ho bisogno di addentrarmi oltre nelle cause che hanno condotto a questo anniversario. Molti di voi le comprendono meglio di me. Potreste voi istruirmi al riguardo. Ed è una branca del sapere per cui voi, forse, provate un interesse più profondo del vostro oratore. Alle cause che hanno condotto alla separazione delle colonie dalla corona britannica non è mai venuta a mancare una lingua. Sono state tutte insegnate nelle vostre scuole, narrate accanto ai vostri focolari; spiegate dai vostri pulpiti, e gridate con voci tonanti dalle vostre aule legislative, e sono a voi familiari come le parole quotidiane. Sono la base della vostra poesia ed eloquenza nazionali.

Ricordo, inoltre, che come popolo gli americani hanno grande familiarità con tutti i fatti che vanno a loro favore. Ciò è considerato da alcuni come una caratteristica nazionale — forse una debolezza nazionale. È un fatto che qualsiasi cosa possa servire alla ricchezza o alla fama degli americani, e che possa essere ottenuta a buon mercato, gli americani la troveranno. Non mi si accuserà di diffamare gli americani, se dico di credere che la parte americana di ogni questione possa tranquillamente essere lasciata nelle mani degli americani.

Lascio, pertanto, le grandi imprese dei vostri padri ad altri gentiluomini la cui affermazione di esserne legittimi discendenti sarebbe probabilmente meno contestata della mia!

Il presente

Il mio compito, se ne ho uno oggi, riguarda il presente. Il tempo riconosciuto presso Dio e la sua causa è l’eternamente ora.

Non fidarti del futuro, per quanto piacevole,
Lascia che il passato morto seppellisca i suoi morti;
Agisci, agisci nel presente che vive,
Con il cuore in te, e Dio nel cielo.[5]

Dobbiamo avere a che fare con il passato solo nella misura in cui possiamo renderlo utile per il presente e per il futuro. Tutte le ragioni ispiratrici, tutte le nobili imprese che possono essere ricavate dal passato, ci sono gradite. Ma ora è il tempo, il tempo importante. I vostri padri sono vissuti, sono morti, e hanno fatto il loro lavoro, e l’hanno fatto in gran parte bene. Voi vivete e dovete morire, e voi dovete fare il vostro lavoro. Non avete nessun diritto di ereditare come figli l’opera dei vostri padri, a meno che anche i vostri figli non ricevano il vantaggio delle vostre opere. Non avete nessun diritto di logorare e sprecare la fama duramente guadagnata dai vostri padri per coprire la vostra indolenza.

Sydney Smith[6] ci dice che raramente gli uomini elogiano la saggezza e le virtù dei loro padri, se non per scusare una qualche loro follia o debolezza. Questa è una verità indubitabile. Ne abbiamo esempi vicini e lontani, antichi e moderni. Era di moda, centinaia di anni fa, per i figli di Giacobbe, vantarsi di avere «Abramo per padre», quando avevano perso da tempo la fede e lo spirito di Abramo[7]. Quella gente si accontentava di vivere all’ombra del grande nome di Abramo, mentre ripudiava le imprese che avevano reso grande il suo nome.

Ho bisogno di ricordarvi che oggi qualcosa di simile avviene dappertutto in questo paese? Ho bisogno di dirvi che gli ebrei non sono l’unico popolo ad aver costruito le tombe dei profeti, e adornato i sepolcri dei giusti?

Washington non volle morire prima di aver spezzato le catene dei suoi schiavi[8]. Eppure il suo monumento è costruito al prezzo del sangue umano, e i mercanti dei corpi e dell’anima di altri uomini gridano — «Noi abbiamo Washington per padre». Ahimè! che dovesse finire così; eppure è così.

Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita.
Mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa.[9]

Concittadini, scusatemi, permettetemi di chiedere: perché sono chiamato a parlare qui oggi? Che cosa ho a che fare io, o coloro che io rappresento, con la vostra indipendenza nazionale? Quei grandi principi di libertà politica e di giustizia naturale, incarnati in quella Dichiarazione d’indipendenza, sono forse estesi anche a noi? E sono io, pertanto, chiamato a portare la nostra umile offerta all’altare nazionale, e a dichiararne i benefici e ad esprimere sincera gratitudine per la benedizione che noi otteniamo dalla vostra indipendenza?

Volesse Dio, sia per il vostro bene che per il nostro, che a queste domande potesse essere data in tutta sincerità una risposta affermativa! Allora il mio compito sarebbe facile, e il mio fardello leggero e gradevole. Infatti, chi ha così tanto freddo che la compassione di una nazione non possa scaldarlo? Chi è così crudele e sordo da non riconoscere con gratitudine tali benefici inestimabili? Chi è così stolto ed egoista da non prestare la sua voce per unirsi agli alleluia del giubileo di una nazione, quando le catene della schiavitù sono state tolte dalle sue membra? Non sono io quell’uomo. In un caso simile, il muto potrebbe parlare con eloquenza, e «lo zoppo saltare come un cervo».

Ma non è così che stanno le cose. Lo dico con un triste senso di disparità fra noi. Io non sono incluso nel confine di questo glorioso anniversario! La vostra alta indipendenza rivela solo l’incommensurabile distanza fra di noi. Le benedizioni di cui voi oggi gioite non sono godute da tutti. La ricca eredità di giustizia, libertà, prosperità e indipendenza, trasmessa dai vostri padri, è condivisa da voi, non da me. La luce del sole che a voi ha portato vita e guarigione, a me ha portato frustate e morte.

Questo quattro di luglio è vostro, non mio. Voi potete gioire, io devo portare il lutto. Trascinare un uomo in ceppi nel magnifico tempio illuminato della libertà, e chiamarlo a unirsi a voi in inni di gioia, è stato un atto di scherno disumano e di sacrilega ironia. Intendete, cittadini, deridermi, chiedendomi di parlare oggi? Se è così, c’è un parallelo alla vostra condotta. E lasciate che vi avverta che è pericoloso copiare l’esempio di una nazione i cui crimini, alzandosi come una torre verso il cielo, furono abbattuti da un respiro dell’Onnipotente, che ha seppellito quella nazione in una rovina insanabile! Oggi io posso raccogliere il mesto lamento di un popolo denudato e colpito dalla disgrazia!

Là, sui fiumi di Babilonia, ci sedemmo e piangemmo ripensando a Sion! Ai pioppi delle sponde appendemmo le nostre cetre, perché là i nostri deportatori ci chiedevano un canto; e i nostri oppressori, canzoni di gioia. E ci dicevano: Cantateci dei canti di Sion. Come cantare il canto del Signore in una terra straniera? E se mi dimentico di te, Gerusalemme, mi si paralizzi la mano destra. Se non mi ricordo di te, mi si attacchi la lingua al palato.[10]

Concittadini, al di sopra della vostra tumultuosa gioia nazionale, io sento il gemito luttuoso di milioni di uomini! Le cui catene, pesanti e gravose ieri, sono oggi rese ancora più intollerabili dalle grida giubilanti che li raggiungono. Se io dimentico, se oggi non ricordo con lealtà quei sanguinanti figli del dolore, «mi si paralizzi la mano destra, e mi si attacchi la lingua al palato!» Dimenticarmi di loro, sorvolare allegramente sui torti che patiscono e unirmi al coro sarebbe un tradimento scandalosissimo e sconvolgente, e mi renderebbe biasimevole di fronte a Dio e al mondo.

Pertanto il mio argomento, concittadini, è la schiavitù americana. Tratterò di questo giorno, e delle sue caratteristiche, dal punto di vista dello schiavo. Da questa posizione, identificato con lo schiavo americano, prendendo su di me i torti da lui subiti, non esito a dichiarare, con tutta l’anima, che il carattere e la condotta di questa nazione non mi è mai parsa tanto nera come in questo quattro di luglio! Sia che ci riferiamo alle dichiarazioni del passato, che alle affermazioni del presente, la condotta della nazione sembra ugualmente odiosa e rivoltante. L’America è falsa nei confronti del passato, falsa nei confronti del presente, e s’impegna solennemente ad essere falsa nei confronti del futuro. Stando in quest’occasione dalla parte di Dio e dello schiavo schiacciato e sanguinante, nel nome dell’umanità oltraggiata, nel nome della libertà incatenata, nel nome della Costituzione e della Bibbia, calpestate e tenute in nessun conto, io oserò chiamare in causa e denunciare, con tutta l’enfasi che riuscirò ad esprimere, ogni cosa che contribuisca a perpetuare la schiavitù — il grande peccato e la grande vergogna dell’America!

«Non sarò ambiguo; non troverò giustificazioni»[11]; userò il linguaggio più severo di cui sono capace; eppure da me non uscirà una sola parola che qualsiasi uomo che non sia accecato dal pregiudizio, o che non sia uno schiavista nel cuore, non potrebbe giudicare equa e giusta.

Ma mi pare di sentire qualcuno fra il pubblico che dice: è proprio in queste occasioni che voi e i vostri fratelli abolizionisti non riuscite a creare un’impressione favorevole nella pubblica opinione. Se argomentaste di più, e denunciaste di meno, se persuadeste di più, e rimproveraste di meno, la vostra causa avrebbe molte più probabilità di aver successo. Ma, dico io, dove tutto è chiaro, non c’è nulla da argomentare. Quale punto nel credo antischiavista vorreste che argomentassi? Su quale parte dell’argomento il popolo di questo paese ha bisogno di chiarezza? Debbo assumermi l’impegno di dimostrare che lo schiavo è un uomo? Quel punto è già stato riconosciuto. Nessuno ne dubita. Gli stessi schiavisti lo ammettono nel regolare per legge il loro controllo.

Lo ammettono quando puniscono la disubbidienza da parte dello schiavo. Nello Stato della Virginia ci sono settantadue reati che, se commessi da un nero (non importa quanto ne sia ignaro) lo rendono punibile con la morte; mentre soltanto due di quegli stessi reati renderebbero un bianco passibile di una simile punizione. Di cos’altro si tratta se non del riconoscimento che lo schiavo è un essere responsabile, dotato di morale e intelletto? Che lo schiavo sia un uomo è un dato riconosciuto. È riconosciuto nel fatto che negli Stati del Sud i libri sono coperti di decreti che proibiscono, a rischio di multe e punizioni severe, di insegnare allo schiavo a leggere o a scrivere. Quando potrete indicare una legge simile in riferimento alle bestie nei campi, allora forse acconsentirò ad argomentare sull’umanità dello schiavo. Quando i cani nelle vostre strade, quando gli uccelli nell’aria, quando le mandrie sulle vostre colline, quando i pesci nel mare e quando i rettili che strisciano saranno in grado di distinguere lo schiavo dalla bestia, allora argomenterò con voi che lo schiavo è un uomo!

Per il momento, basti affermare la pari umanità della razza negra[12]. Non è sbalorditivo che, mentre ariamo, seminiamo e mietiamo, usando ogni tipo di attrezzo meccanico; mentre costruiamo case, costruiamo ponti, fabbrichiamo navi, lavorando metalli come l’ottone, il ferro, il rame, l’argento e l’oro; che mentre leggiamo, scriviamo e facciamo calcoli, con mansioni da impiegati, mercanti e segretari, avendo fra noi avvocati, dottori, pastori, poeti, autori, editori, oratori e insegnanti; che mentre siamo impegnati in tutte le attività comuni agli altri uomini, cercando l’oro in California, dando la caccia alle balene nel Pacifico, pascolando greggi e mandrie sui versanti delle colline, vivendo, viaggiando, agendo, pensando, programmando, vivendo in famiglia come mariti, mogli e figli e, soprattutto, riconoscendo e venerando il Dio Cristiano, e attendendo speranzosi la vita e l’immortalità oltre la tomba, ebbene non è sbalorditivo dover essere chiamati a dimostrare che noi siamo uomini!

Volete che argomenti sul principio che l’uomo ha il diritto di essere libero? Che è il legittimo proprietario del suo corpo? Voi l’avete già dichiarato. Devo argomentare sull’ingiustizia della schiavitù? È una domanda da farsi a un popolo repubblicano? Deve essere risolta dalle leggi della logica e del ragionamento, come una questione irta di grandi difficoltà, che prevede una dubbia applicazione del principio di giustizia, difficile da comprendere? Che figura farei io oggi, alla presenza degli americani, se mi mettessi a spaccare un capello in quattro per dimostrare che gli uomini hanno un diritto naturale alla libertà, parlandone relativamente, e positivamente, negativamente e affermativamente? Farlo significherebbe rendermi ridicolo, e offendere la vostra capacità di comprensione. Non ce un uomo sotto la volta del cielo che non sappia che per lui la schiavitù è sbagliata.

Insomma, ho bisogno di dimostrare che è ingiusto rendere gli uomini bestie, spogliarli della loro libertà, farli lavorare senza salario, tenerli nell’ignoranza sulle loro relazioni con i propri simili, bastonarli, lacerare la loro carne con la frusta, caricare di ferri le loro membra, dar loro la caccia con i cani, venderli all’asta, separare le loro famiglie, staccar loro i denti, marchiarli a fuoco sulla pelle, affamarli, per ridurli all’obbedienza e alla sottomissione ai loro padroni? Debbo argomentare che un sistema così segnato dal sangue, e così contaminato, è ingiusto? No! Non lo farò. So come impiegare meglio il mio tempo e le mie forze, piuttosto che dedicarmi alle implicazioni di tali ragionamenti. Che cosa, dunque, resta da argomentare? Forse che la schiavitù non è divina; che non l’ha istituita Dio; che i nostri dottori in teologia si sbagliano? E blasfemo pensarlo. Che ciò che non è umano non può essere divino! Chi può ragionare su una simile affermazione? Chi può, ci provi pure; io non posso. Non è più il tempo di tali ragionamenti.

Al giorno d’oggi c’è bisogno di ironia graffiante, non di argomentazioni convincenti. Oh! ne avessi la capacità, se potessi raggiungere l’orecchio della nazione, verserei, oggi un ardente torrente di pungente ridicolo, di rimprovero squillante, di sarcasmo fulminante, e di duro biasimo Perché non è di luce che abbiamo bisogno, ma di fuoco; e non della pioggia gentile, ma del tuono. Abbiamo bisogno della tempesta, del turbine, e del terremoto. Il sentimento della nazione va stimolato; la coscienza della nazione va risvegliata; le convenienze sociali della nazione vanno messe in allarme; l’ipocrisia della nazione va smascherata; e i suoi crimini contro Dio e contro l’uomo debbono essere proclamati e denunciati.

Che cos’è, per lo schiavo americano, il quattro di luglio? Io rispondo: un giorno che gli rivela, più di tutti gli altri giorni dell’anno, la rozza ingiustizia e la crudeltà di cui egli è continuamente vittima. Per lui, la vostra festa è una mistificazione; la libertà di cui vi vantate, un arbitrio profano; la vostra grandezza nazionale, gonfia vanità; i vostri suoni di gioia risuonano vuoti e senza cuore; le vostre denunce contro i tiranni sono sfacciata impudenza; le vostra grida di libertà e uguaglianza, scherno senza contenuto; le vostre preghiere e inni, i vostri sermoni e ringraziamenti, con tutte le vostre solenni parate religiose, sono, per lui, nient’altro che magniloquenza, frode, inganno, empietà, e ipocrisia — un velo sottile per coprire crimini che getterebbero disonore su una nazione di selvaggi. In questo preciso momento, non c’è una nazione sulla terra colpevole di usanze più sconvolgenti e sanguinose di quanto non sia il popolo di questi Stati Uniti.

Andate dove potete, cercate dove volete, vagate fra tutte le monarchie e i dispotismi del vecchio mondo, viaggiate in Sud America, scovate ogni abuso, e quando li avrete trovati tutti, mettete i vostri fatti accanto alle pratiche quotidiane di questa nazione, e direte con me che, in quanto a barbarie disgustosa e ipocrisia senza vergogna, l’America regna senza rivali.

Il traffico di schiavi interno

Prendete il traffico di schiavi americano che, ci dicono i giornali, è particolarmente prospero proprio ora. L’ex-senatore Benton[13] ci dice che il prezzo degli uomini non è mai stato alto come adesso, per dimostrare che la schiavitù non corre nessun pericolo. Questo traffico è una delle caratteristiche peculiari delle istituzioni americane. Viene esercitato in tutte le città, grandi e non, in una metà di questa confederazione; e milioni vengono intascati ogni anno dai trafficanti in questo orrendo commercio.

In parecchi stati questo traffico è una principale fonte di ricchezza. Viene chiamato (in opposizione all’importazione di schiavi dall’estero) «il traffico di schiavi interno». Viene, probabilmente, chiamato così anche per deviare da esso l’orrore con cui viene considerata la tratta di schiavi dall’estero. Quel traffico è stato da lungo tempo denunciato da questo governo come pirateria. Dai siti più alti della nazione è stato denunciato con parole brucianti, come un traffico esecrabile. Per fermarlo, per mettere fine ad esso, questa nazione mantiene una squadra navale, a costi immensi, sulle coste dell’Africa.

Ovunque, in questo paese, è ovvio parlare di questa tratta come del più disumano dei traffici, contrario sia alle leggi di Dio che a quelle dell’uomo. Il dovere di estirparlo e distruggerlo viene ammesso persino dai nostri dottori di teologia. Per mettervi fine, alcuni di essi hanno acconsentito a che i loro confratelli di colore (liberi di nome) lasciassero questo paese e si stabilissero sulla costa occidentale dell’Africa! È, comunque, un fatto degno di nota che, mentre tanta esecrazione è riversata dagli americani su chi si dedica al traffico di schiavi dall’estero, gli uomini impegnati nel traffico di schiavi fra gli Stati passino senza condanna, e il loro mestiere venga ritenuto onorevole.

Osservate come si svolge praticamente questo traffico di schiavi interno, il traffico di schiavi americano, sostenuto dalla politica americana e dalla religione americana. Qui voi vedrete uomini e donne allevati come porci per il mercato. Sapete che cos’è un mandriano di porci? Io vi mostrerò un mandriano di porci. Abitano tutti negli Stati del Sud. Viaggiano per il paese, e affollano le strade della nazione, con mandrie di bestiame umano. Vedrete uno di questi trafficanti di carne umana, armato di pistola, frusta e lungo coltello da caccia, guidare un gruppo di centinaia di uomini, donne e bambini dal Potomac al mercato degli schiavi di New Orleans.

Questi sventurati sono in vendita singolarmente, o in gruppi, secondo le esigenze degli acquirenti. Sono cibo per i campi di cotone, e per il micidiale zuccherificio. Osservate la triste processione, mentre avanza stancamente, e la disumana canaglia che li guida. Ascoltate le sue grida selvagge e le sue bestemmie che fanno agghiacciare il sangue, mentre fa affrettare i suoi prigionieri presi a noleggio! Là, guardate quel vecchio, con i ricci grigi ormai radi.

Date un’occhiata, per favore, a quella giovane madre, con le spalle nude sotto il sole cocente, le lacrime salate che cadono sulla fronte del neonato che tiene fra le braccia. Guardate, anche, quella ragazza di tredici anni che piange, si, piange, pensando alla madre da cui è stata strappata! La mandria si muove lentamente. Il caldo e il dolore li hanno sfiniti; all’improvviso sentite uno schiocco secco, come quando si scarica un fucile; i ceppi e le catene sferragliano; vi giunge alle orecchie un grido che sembra aver deviato il suo percorso per colpire dritto al centro della vostra anima!

Lo schiocco che avete sentito era il rumore della frusta; il grido che avete sentito era della donna che avete visto con il bambino. Aveva rallentato sotto il peso del bambino e delle catene! Quello squarcio sulle spalle le dice di sbrigarsi. Seguite questa mandria fino a New Orleans. Presenziate all’asta; guardate uomini esaminati come cavalli; guardate le forme delle donne rudemente e brutalmente esposte allo sguardo volgare dei compratori di schiavi americani.

Osservate questa mandria venduta e separata per sempre; e non dimenticate mai i singhiozzi profondi che si levano da quella moltitudine sparsa. Ditemi cittadini, dove, sotto il sole, potete essere testimoni di uno spettacolo altrettanto diabolico e sconvolgente. Eppure questa non è che una rapida occhiata al traffico di schiavi americano, così come esiste, in questo momento, nella gran parte degli Stati Uniti.

Io sono nato in mezzo a questi spettacoli e a queste scene. Per me il traffico di schiavi americano è una terribile realtà. Da bambino, il mio animo veniva spesso straziato dai suoi orrori. Vivevo a Philpot Street, Fell’s Point, Baltimora, e dalle banchine ho visto le navi di schiavi alla rada, ancorate lontano dalla spiaggia con i loro carichi di carne umana, in attesa che venti favorevoli le spingessero giù nel Chesapeake. C’era, a quel tempo, un grande mercato di schiavi in cima a Pratt Street, tenuto da Austin Woldfolk[14]. I suoi agenti venivano inviati in ogni città e contea del Maryland, e annunciavano il loro arrivo sui giornali e con fiammeggianti «hand-bills» [volantini], intitolati negri per contanti. Questi uomini erano generalmente uomini ben vestiti, e dalle maniere molto accattivanti. Sempre pronti a offrire da bere e a giocare d’azzardo. Il destino di molti schiavi è dipeso dal giro di un’unica carta; e molti bambini sono stati ghermiti dalle braccia delle madri per affari conclusi in stato di brutale ubriachezza.

I mercanti di carne ammassano le loro vittime a decine e le conducono, in catene, allo scalo merci di Baltimora. Non appena ne raccolgono un numero sufficiente, viene noleggiata una nave per trasportare il misero equipaggio a Mobile, o a New Orleans. Generalmente vengono condotti dalla prigione alla nave nel buio della notte, dato che da quando è iniziata la propaganda antischiavista viene osservata una certa cautela.

Nella profonda, immobile oscurità della mezzanotte, io sono stato spesso svegliato dal rumore di passi pesanti, e dalle grida pietose dei gruppi incatenati che passavano accanto alla nostra porta. L’angoscia del mio cuore di ragazzo era intensa; spesso mi consolava, quando ne parlavo con la mia padrona al mattino, sentirla dire che quell’usanza era assolutamente malvagia, che lei odiava sentire le catene e quelle urla strazianti. Ero contento di trovare qualcuno che condivideva il mio orrore.

Concittadini, questo traffico criminale è oggi attivamente operante in questa repubblica di cui tanto ci si vanta. Nella solitudine del mio spirito vedo nuvole di polvere che si alzano sulle strade del Sud; vedo i passi sanguinanti; ascolto il gemito colmo di dolore dell’umanità in ceppi, diretta ai mercati di schiavi, dove le vittime verranno vendute come cavalli, pecore e porci, al miglior offerente. Là io vedo i più teneri legami spezzati spietatamente, per soddisfare la lussuria, il capriccio e la rapacità dei compratori e dei venditori di uomini. L’animo è nauseato da questo spettacolo.

È questa la terra che amavano i vostri Padri,
La libertà che essi faticarono per conquistare?
È questa la terra dove si trasferirono?
Sono queste le tombe in cui riposano?[15]

Ma resta ancora da presentare un aspetto della questione che è ancora più disumano, vergognoso e scandaloso.

Con un decreto del Congresso Americano, meno di due anni or sono, la schiavitù è stata nazionalizzata nella sua forma più orribile e rivoltante. Con quel decreto, la linea di Mason & Dixon è stata cancellata; New York è diventata come la Virginia; e la facoltà di possedere, inseguire e vendere uomini, donne e bambini come schiavi non è più una semplice istituzione di uno Stato, ma è ora un’istituzione di tutti gli Stati Uniti che coesiste con la bandiera a stelle e strisce e con il Cristianesimo americano.

Dovunque vadano i fuggitivi, lì possono anche andare gli spietati cacciatori di schiavi. Dove ci sono loro, l’uomo non è sacro. È un uccello per il fucile del cacciatore. La libertà e la persona di ogni uomo sono messe in pericolo dal più infame e diabolico di tutti i decreti umani. Il vostro grande territorio repubblicano è territorio di caccia all’uomo.

Non di ladri e rapinatori, nemici della società, semplicemente, ma di uomini colpevoli di nessun crimine. I vostri legislatori hanno ordinato a tutti i buoni cittadini di dedicarsi a questo sport diabolico. Il vostro Presidente, il vostro Segretario di Stato, i vostri lord, nobili ed ecclesiastici, vi impongono questa cosa maledetta come un dovere verso il vostro libero e glorioso paese e il vostro Dio. Negli ultimi due anni non meno di quaranta americani sono stati catturati, portati via in catene senza il minimo preavviso, e consegnati alla schiavitù e ad una atroce tortura.

Alcuni di loro avevano mogli e figli, che da essi dipendevano per il loro sostentamento; ma ciò non è stato tenuto in alcun conto. Il diritto del cacciatore sulla preda è considerato superiore al diritto di matrimonio, e a tutti i diritti di questa repubblica, inclusi i diritti di Dio! Per gli uomini neri non c’è legge, né giustizia, né umanità, né religione. La Legge sugli Schiavi Fuggiaschi fa della pietà verso di loro un crimine e corrompe il giudice che li processa.

Un giudice americano riceve dieci dollari per ogni vittima che consegna alla schiavitù, e cinque se non ci riesce. Il giuramento di due furfanti qualunque è sufficiente, secondo questo decreto nero come l’inferno, per spedire il più pio ed esemplare uomo di pelle nera nelle fauci spietate della schiavitù! Il ministro della giustizia americano è costretto dalla legge ad ascoltare solo una Parte; e quella parte è la parte dell’oppressore. Questa verità schiacciante deve essere ripetuta all’infinito, deve essere annunciata a tutto il mondo con voci tonanti: nell’America cristiana e democratica che uccide i tiranni, che odia i re, che ama il popolo, i luoghi della giustizia sono occupati da giudici che tengono il loro ufficio grazie a una corruzione aperta e palpabile, e sono costretti, nel decidere in un caso che riguarda la libertà di un uomo, a sentire solo i suoi accusatori[16]!

Con lampante violazione della giustizia, con un impudente disprezzo per le forme dell’amministrazione della legge, con un astuto espediente teso a mettere in trappola l’indifeso, e con intento diabolico, questa Legge sugli Schiavi Fuggiaschi spicca da sola negli annali della legislazione tirannica. Dubito che ci sia un’altra nazione al mondo che abbia la faccia tosta e la bassezza morale di iscrivere una simile legge nel libro dello statuto. Se qualcuno in questa assemblea la pensa diversamente da me su questa faccenda, e si sente in grado di smentire le mie affermazioni, sarò felice di discutere con lui dove e quando vorrà.

Libertà religiosa

Considero questa legge come una delle più gravi infrazioni della Libertà Cristiana, e, se le chiese e i pastori del nostro paese non fossero stupidamente ciechi, o indifferenti nella maniera più crudele, anch’essi la riterrebbero tale.

Nel momento stesso in cui stanno ringraziando Dio per il godimento della libertà civile e religiosa, e per il diritto di venerare Dio secondo i dettami delle loro coscienze, tacciono completamente su una legge che priva la religione del suo significato principale e la rende totalmente inutile in un mondo immerso nel peccato. Se questa legge riguardasse la «menta, l’aneto e il cumino»[17] — se limitasse il diritto di cantare i salmi, di partecipare ai sacramenti, o di impegnarsi in una qualsiasi cerimonia religiosa, verrebbe attaccata dal tuono di migliaia di pulpiti. Un grido generale si alzerebbe dalle chiese, chiedendo abrogazione, abrogazione, abrogazione subito!

E avrebbe vita difficile quel politico che presumesse di chiedere i voti della gente senza iscrivere questo motto sul suo vessillo. Inoltre, se questa richiesta non venisse esaudita, un’altra Scozia si aggiungerebbe alla storia della libertà religiosa, e i severi vecchi Covenanter finirebbero nell’ombra. Un John Knox[18]si vedrebbe alla porta di ogni chiesa, e si sentirebbe da ogni pulpito, e Fillmore[19]non avrebbe tregua più di quanto ne abbia avuta la bella ma infida Maria regina di Scozia da parte di John Knox. Il fatto che la chiesa del nostro paese (con esigue eccezioni) non ritenga la Legge per gli Schiavi Fuggiaschi come una dichiarazione di guerra contro la libertà religiosa significa che questa chiesa considera la religione semplicemente come una forma di culto, una cerimonia vuota, e non un principio vitale che richiede attiva benevolenza, giustizia, amore e buona volontà.

Una chiesa che dà più valore al sacrificio che alla pietà; più al cantare salmi che a fare ciò che è giusto; più ad assemblee solenni che alla pratica della rettitudine. Un culto che può essere seguito da persone che rifiutano di dare riparo a chi è senza casa, di dare pane all’affamato, vestiti all’ignudo, e che impone obbedienza a una legge che proibisce questi atti di carità, è una maledizione, non una benedizione per l’umanità. La Bibbia definisce queste persone «scribi, farisei, ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del cumino, ma trascurate le cose più essenziali della legge: la giustizia, la misericordia e la fede».

La responsabilità della chiesa

Ma la chiesa di questo paese non solo è indifferente ai torti subiti dallo schiavo: di fatto essa prende le parti dell’oppressore. Ha fatto di se stessa il baluardo della schiavitù americana, e lo scudo dei cacciatori di schiavi americani. Molti fra i suoi più eloquenti teologi, luminari della chiesa, hanno impudentemente dato l’avallo della religione e della Bibbia all’intero sistema. Hanno insegnato che l’uomo può, propriamente, essere uno schiavo; che il rapporto di padrone e schiavo è stato decretato da Dio; che rimandare uno schiavo fuggito indietro al suo padrone è chiaramente il dovere di tutti i seguaci di Gesù Cristo; e quest’orrenda bestemmia è data a bere con l’inganno a tutto il mondo cristiano.

Per quanto mi riguarda, io direi, benvenuta miscredenza! benvenuto ateismo! benvenuta qualsiasi cosa! piuttosto che il Vangelo, così come predicato da quei teologi! Essi trasformano il nome stesso della religione in un motore di tirannia e barbara crudeltà, e servono a dar manforte ai miscredenti, in quest’epoca, più di quanto non abbiano fatto, messi insieme, gli scritti senza fede di Thomas Paine, Voltaire e Bolingbroke[20]!

Questi pastori rendono la religione una cosa fredda e dal cuore di pietra, dato che non possiede né principi di giusta azione, né cuore caritatevole. Privano l’amore di Dio della sua bellezza, e rendono il trono della religione un’enorme, orribile forma repellente. È una religione per gli oppressori, i tiranni, i ladri di uomini, e i thugs[21] . Non è quella «religione pura e incontaminata» che viene dall’alto, e che è «prima pura, poi pacifica, facile da praticare, piena di misericordia e buoni frutti, senza parzialità, e senza ipocrisia»[22]. Ma è una religione che favorisce il ricco contro il povero; che esalta l’orgoglioso sull’umile; che divide l’umanità in due classi, tiranni e schiavi; e che dice all’uomo in catene, resta dove sei e all’oppressore, continua ad opprimere, è una religione che può essere professata e goduta da tutti i ladri e schiavizzatori dell’umanità; rende Dio uno che si adegua al mondo, gli nega la paternità della razza, e calpesta nella polvere la grande verità della fratellanza fra gli uomini.

Dico che tutto questo è vero per la chiesa popolare, e per il culto popolare della nostra terra e nazione — una religione, una chiesa, e un culto che, con l’autorità di una saggezza ispirata, noi dichiariamo essere un abominio agli occhi di Dio. Con le parole di Isaia, alla chiesa americana ci si potrebbe ben rivolgere così: «Non continuate a portare offerte vane! L’incenso è per me un abominio: il novilunio, il plenilunio, le sacre assemblee non le sopporto; è iniquità anche l’incontro più solenne. Odio i vostri noviluni e le vostre feste; esse sono per me un peso; sono stanco di sopportarle. Quando stendete i palmi delle vostre mani, io ritraggo il mio sguardo da voi. Sì, anche quando moltiplicate le vostre preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue–, cessate di fare del male; imparate a fare il bene; cercate la giustizia; sollevate l’oppresso; fate giustizia all’orfano; difendete la vedova»[23].

La chiesa americana è colpevole per quello che fa in appoggio alla schiavitù; ma è superlativamente colpevole perché avrebbe la capacità di abolirla.

I suoi sono peccati tanto di omissione quanto di opere. Albert Barnes non ha fatto che pronunciare ad alta voce ciò che ogni uomo di buon senso riconosce come verità, dicendo che «Non c’è nessun potere al di fuori della chiesa che potrebbe tenere in piedi la schiavitù per un’ora, se questa non fosse mantenuta all’interno di essa»[24].

Basterebbe che la stampa religiosa, il pulpito, la scuola domenicale, l’incontro della conferenza, il grande ecclesiastico, il missionario, le società per la diffusione della Bibbia e della letteratura religiosa si schierassero con le loro forze immense contro la schiavitù e il possesso degli schiavi, e l’intero sistema di crimine e sangue verrebbe disperso nel vento. Il fatto che non lo facciano li coinvolge nella più tremenda responsabilità che la mente possa concepire.

Nel portare avanti la nostra impresa antischiavista, ci è stato chiesto di risparmiare la chiesa, di risparmiare il clero; ma come, chiediamo, si potrebbe fare una cosa simile? Sulla soglia dei nostri sforzi per la redenzione dello schiavo ci vengono incontro la chiesa e il clero del paese, schierati in battaglia contro di noi; e siamo costretti a combattere o fuggire. Da quale quartiere, ditemi, è arrivato sui nostri ranghi negli ultimi due anni un fuoco tanto mortale come quello proveniente dai pulpiti del Nord?

Come campioni degli oppressori sono apparsi gli uomini eletti della teologia americana — uomini, questi, onorati per la loro cosiddetta misericordia e per la loro autentica erudizione. I Lord di Buffalo, gli Spring di New York, i Lathrop di Auburn, i Cox e gli Spencer di Brooklyn, i Gannet e gli Sharp di Boston, i Dewey di Washington[25], e altri luminari religiosi del paese, in assoluto diniego della Sua autorità, da cui affermano essere stati chiamati al loro ministero, ci hanno deliberatamente insegnato, contro l’esempio degli Ebrei e contro le rimostranze degli Apostoli, e continuano a insegnarci, «che dobbiamo obbedire alla legge dell’uomo prima che alla legge di Dio».

Il mio spirito è stanco di tali bestemmie; e come possano tali uomini essere riconosciuti come «tipi e rappresentanti di Gesù Cristo» è un mistero che lascio ad altri tentare di penetrare. Parlando della chiesa americana, comunque, sia chiaro che io mi riferisco alla grande massa delle organizzazioni religiose del nostro paese. Ci sono eccezioni, e di queste ringrazio Dio. Si possono trovare uomini nobili sparsi ovunque in questi Stati del Nord, di cui Henry Ward Beecher[26]di Brooklyn, Samuel J. May di Syracuse, e il mio stimatissimo amico[27] qui sul palco sono esempi luminosi; e lasciatemi dire di più, che su questi uomini ricade il dovere di ispirare i nostri ranghi con grande fede religiosa e zelo, e di confortarci nella grande missione della redenzione dello schiavo dalle sue catene.

La religione in Inghilterra e la religione in America

Si resta colpiti dalla differenza fra l’atteggiamento della chiesa americana nei confronti del movimento antischiavista e quello assunto dalle chiese inglesi nei confronti di un movimento simile in quel paese. Là la chiesa, fedele alla sua missione di migliorare, elevare e correggere la condizione dell’umanità, si fece prontamente avanti, fasciò le ferite dello schiavo delle Indie Occidentali, e lo restituì alla sua libertà. Là, la questione dell’emancipazione era una questione altamente religiosa. Venne pretesa, nel nome dell’umanità, e secondo la legge del Dio vivente. Gli Sharp, i Clarkson, i Wilberforce, i Buxton e i Burchell e i Knibb[28] erano famosi tanto per la loro pietà quanto per la loro filantropia. Il movimento antischiavista lì non era un movimento contro la chiesa, ed il motivo è che la chiesa ha fatto pienamente la sua parte nel sostenere quel movimento: e il movimento antischiavista in questo paese cesserà di essere un movimento contro la chiesa quando la chiesa di questo paese assumerà una posizione favorevole e non ostile nei confronti del movimento.

Americani! La vostra politica repubblicana, non meno della vostra religione repubblicana, sono scandalosamente incoerenti. Vi vantate del vostro amore per la libertà, della vostra civiltà superiore, e del vostro cristianesimo puro, mentre l’intera forza politica della nazione (così come incarnata nei due grandi partiti politici) è solennemente impegnata ad appoggiare e perpetuare la schiavizzazione di tre milioni di vostri compatrioti.

Lanciate i vostri anatemi contro le teste coronate dei tiranni di Russia e Austria, e vi gloriate delle vostre istituzioni democratiche, mentre voi stessi acconsentite ad essere strumenti e guardie del corpo dei tiranni della Virginia e della Carolina. Invitate nel vostro paese chi è fuggito dall’oppressione all’estero, li onorate con banchetti, li salutate con ovazioni, li applaudite, brindate in loro onore, li omaggiate, li proteggete, e versate loro il vostro denaro come acqua; ma i fuggiaschi della vostra terra li denunciate pubblicamente, a loro date la caccia, li arrestate, sparate e li uccidete.

Vi gloriate della vostra raffinatezza e della vostra cultura universale; eppure mantenete un sistema così barbaro e spaventoso come mai ha macchiato il carattere di una nazione — un sistema cominciato nell’avidità, cresciuto nell’orgoglio e perpetuato nella crudeltà. Spargete lacrime sulla caduta dell’Ungheria, e fate della triste storia dei torti che ha subito argomento per i vostri poeti, statisti e oratori, finché i vostri prodi figli sono pronti a prendere le armi per vendicare la sua causa contro i suoi oppressori[29]; ma, rispetto ai diecimila torti subiti dallo schiavo americano, imponete il più stretto silenzio, e definireste nemico della nazione chiunque osasse fare di quei torti l’argomento di un discorso pubblico! V’infiammate tutti all’accenno della libertà per la Francia o per l’Irlanda; ma siete freddi come un iceberg al pensiero della libertà per gli schiavi d’America.

Discutete con eloquenza sulla dignità del lavoro; eppure voi mantenete un sistema che, nella sua vera essenza, lancia un marchio d’infamia sul lavoro. Potete snudare il petto di fronte alla tempesta dell’artiglieria britannica per sbarazzarvi di una tassa di tre penny sul tè; eppure strappate l’ultimo farthing[30] duramente guadagnato dalla mano dei lavoratori neri del vostro paese.

Dichiarate di credere che «Dio, da uno stesso sangue, ha fatto uscire tutto il genere umano, per popolare tutta la faccia della terra»[31], e che ha ordinato a tutti gli uomini, ovunque, di amarsi l’un con l’altro; eppure voi notoriamente odiate (e vi gloriate del vostro odio) tutti gli uomini la cui pelle ha un colore diverso dalla vostra.

Dichiarate di fronte al mondo, e al mondo risulta che dichiarate, che «le seguenti verità sono di per sé evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili; e che, fra questi, sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità»[32]; tuttavia, mantenete la settima parte degli abitanti del vostro paese stretta in una servitù che, secondo le parole del vostro stesso Thomas Jefferson, «è peggio di secoli di quella contro cui i vostri padri si ribellarono».

Concittadini! Non mi dilungherò oltre sulle vostre incoerenze nazionali. L’esistenza della schiavitù in questo paese taccia il vostro repubblicanesimo di frode, la vostra umanità di vile apparenza, e il vostro cristianesimo di menzogna. Distrugge la vostra forza morale all’estero; corrompe i vostri politici in patria. Mina le fondamenta della religione; rende il vostro nome uno zimbello su tutte le bocche in un mondo beffardo.

È la forza contraria nel vostro governo, l’unica cosa che disturba seriamente e mette in pericolo la vostra Unione. Incatena il vostro progresso; è il nemico del miglioramento, l’avversario mortale della cultura; alleva l’orgoglio; genera l’arroganza; promuove il vizio; protegge il crimine; è una maledizione per la terra che la mantiene; eppure, restate ad essa aggrappati, come se fosse l’ancora estrema di tutte le vostre speranze.

Oh! State attenti! State attenti! Un rettile orrendo è attorcigliato nel petto della vostra nazione e la velenosa creatura si nutre al tenero seno della vostra giovane repubblica; per l’amore di Dio, strappatela via, scagliate lontano da voi quel mostro odioso, finché il peso di venti milioni di esseri umani lo schianti e lo distrugga per sempre!

La Costituzione

Ma a tutto ciò si risponde dicendo che esattamente ciò che io ho appena denunciato è, in realtà, garantito e sancito dalla Costituzione degli Stati Uniti; che il diritto a possedere e a dare la caccia agli schiavi è parte di quella Costituzione redatta dagli illustri Padri di questa Repubblica. Allora, io oso affermare che, a dispetto di tutto quanto ho detto prima, i vostri padri si sono piegati, si sono piegati vilmente:

Per prendersi gioco di noi con i loro enigmi:
E mantengono le promesse alle nostre orecchie,
Ma poi le rompono in cuor loro.[33]

E invece che uomini onesti, come li ho prima descritti, essi erano i più grandi impostori che abbiano mai ingannato l’umanità. Questa è l’inevitabile conclusione, e da essa non ce scampo. Ma io non sono d’accordo con chi attribuisce tale viltà ai redattori della Costituzione degli Stati Uniti. È una calunnia alla loro memoria, o almeno questo è quello che io credo. Non c’è tempo ora per discutere a lungo la questione costituzionale; né ho io la capacità per discuterla così come dovrebbe essere discussa. L’argomento è stato trattato con forza magistrale da Lysander Spooner, da William Goodell, da Samuel E. Sewall, e, ultimo ma non meno importante, da Gerrit Smith.[34] Questi signori hanno, credo, pienamente e chiaramente difeso la Costituzione da ogni disegno volto a difendere la schiavitù anche solo per un’ora.

Concittadini! Non ce nessuna materia sulla quale il popolo del Nord si sia tanto rovinosamente lasciato raggirare, come quella del carattere favorevole alla schiavitù della Costituzione. Io ritengo che in quello strumento non ci sia né giustificazione, né autorizzazione, né ratifica di quella cosa odiosa; ma, interpretata così come dovrebbe essere interpretata, la Costituzione è un glorioso documento di libertà.

Leggete il suo preambolo, considerate i suoi scopi. Trovate fra essi la schiavitù? È all’ingresso? O è nel tempio? Non c’è da nessuna parte. Ma anche se non intendo discutere questa questione in quest’occasione, permettetemi di chiedere: non è in un certo senso singolare che, se la Costituzione è stata intesa da chi l’ha redatta e adottata come uno strumento per possedere schiavi, non si riesca a trovare da nessuna parte né schiavitù, né possesso di schiavi, né tanto meno schiavo?

Che cosa si dovrebbe pensare di uno strumento redatto, legalmente redatto, allo scopo di conferire alla città di Rochester un pezzo di terra, e in cui non venisse mai menzionata la parola terra? Ora, ci sono certe regole di interpretazione per l’esatta comprensione di tutti gli strumenti legali. Queste regole sono state ben fissate. Sono regole semplici e basate sul buon senso, tali che voi ed io, e tutti noi, possiamo comprenderle ed applicarle, senza aver trascorso anni a studiare il diritto. Io respingo l’idea che la questione della costituzionalità o dell’incostituzionalità della schiavitù non sia una questione adatta al popolo. Io ritengo che ogni cittadino americano abbia il diritto di farsi un’opinione sulla Costituzione, e di diffondere quell’opinione, e di usare tutti i mezzi onorevoli per far prevalere quell’opinione. Senza questo diritto, la libertà del cittadino americano sarebbe tanto incerta quanto quella di un francese.

L’ex vice presidente Dallas[35]ci dice che la Costituzione è un oggetto rispetto al quale nessuna mente americana può essere troppo attenta e nessun cuore americano troppo devoto. Dice inoltre che la Costituzione, nelle sue parole, è chiara e intellegibile, ed è intesa per le intelligenze semplici e non sofisticate dei nostri concittadini. Il senatore Berrien[36] ci dice che la Costituzione è la legge fondamentale, che controlla tutte le altre, lo statuto delle nostre libertà, che ogni cittadino ha interesse personale a comprendere a fondo. Potremmo chiamare a testimoni in proposito i senatori Breese e Lewis Cass[37], e molti altri che si potrebbero nominare, considerati ovunque avvocati di tutto rispetto. Assumo, pertanto, che non è presunzione da parte del privato cittadino formarsi un’opinione su quello strumento.

Ora, prendete la Costituzione nell’evidenza del suo testo, e vi sfido a presentare una sola clausola in essa che sia a favore della schiavitù. D’altro canto si scoprirà che contiene principi e scopi interamente ostili all’esistenza della schiavitù.

Ho trattenuto il mio pubblico già troppo a lungo. Nel futuro sarò felice di servirmi dell’opportunità di trattare questo argomento in un dibattito approfondito ed equilibrato.

Permettetemi di dire, in conclusione, che nonostante il nero quadro che ho oggi presentato sullo stato della nazione, io non dispero di questo paese. Ci sono forze all’opera, che dovranno inevitabilmente portare alla caduta della schiavitù. «La mano del Signore non è troppo corta»[38], e il destino della schiavitù è certo. Io, pertanto, termino dove ho iniziato: con la speranza.

Mentre attingo speranza dalla Dichiarazione d’indipendenza, dai grandi principi che contiene, e dal genio delle istituzioni americane, il mio spirito è confortato anche dalle ovvie tendenze dell’epoca. Ora il rapporto fra le nazioni non è più come un tempo. Nessuna nazione si può ora chiudere al mondo circostante, e trotterellare indisturbata lungo lo stesso sentiero dei suoi padri. È passato il tempo in cui questo era possibile. Usanze antiquate e nocive in passato potevano chiudersi in un recinto e operare malvagiamente nell’impunità sociale. La conoscenza allora aveva confini ed era goduta solo da pochi privilegiati, mentre la moltitudine si muoveva nell’oscurità della mente.

Ma ora è cambiato qualcosa negli affari dell’umanità. Le città recintate da mura e gli imperi sono ormai fuori moda. Il braccio del commercio ha abbattuto i cancelli di città potenti. L’intelligenza sta penetrando negli angoli più bui del globo. Si fa strada sopra e sotto il mare, come pure sulla terra. Il vento, il vapore e l’elettricità sono i suoi agenti. Gli oceani non dividono più, ma legano insieme le nazioni. Da Boston a Londra ormai è un viaggio di piacere. Lo spazio è relativamente annullato. Pensieri espressi su un lato dell’Atlantico vengono ormai chiaramenti uditi sull’altro.

Il lontano e quasi favoloso Pacifico scroscia grandioso ai nostri piedi. L’Impero Celeste, il mistero dei secoli, si sta dissolvendo. L’ordine dell’Onnipotente, «E luce sia», non ha ancora perso la sua forza. Nessun’offesa, nessun oltraggio, sia esso per gusto, divertimento o avidità, può ora nascondersi dalla luce che tutto pervade. La scarpa di ferro e il piede fasciato della Cina vanno considerati come contrari alla natura. LAfrica deve alzarsi e indossare il suo abito non ancora tessuto. «L’Etiopia tenderà le mani a Dio»[39]. Nelle fervide aspirazioni di William Lloyd Garrison, io dico, e invito ogni cuore a dire:

Affretti Iddio l’anno del giubileo In tutto il mondo!
Quando, liberati dalle brucianti catene,
Gli oppressi che piegano vilmente il ginocchio,
E portano il giogo della tirannia Non saranno più come bestie.
Verrà quell’anno, e regnerà la libertà,
All’uomo rendete I suoi diritti saccheggiati.
Affretti Iddio il giorno in cui il sangue umano Cesserà di scorrere!
Ovunque si comprendano,
Le richieste dell’umana fratellanza,
E ciascuno risponda al male con il bene,
Non colpo per colpo;
Verrà quel giorno a porre fine a tutte le contese,
E a trasformare in amico fedele Ogni nemico.
Affretti Iddio l’ora, l’ora gloriosa,
Quando nessuno sulla terra Eserciterà un potere da padrone,
Né si inchinerà di fronte al tiranno;
Ma tutti si ereggano a dignità umana,
Uguali per nascita!
Verrà quell’ora, per ciascuno, per tutti,
E dalla sua casa-prigione uscirà Lo schiavo.
Fino all’arrivo di quell’anno, quel giorno, quell’ora, Lotterò con la testa, il cuore e la mano,
Per spezzare la verga, e lacerare le catene,
Per privare il saccheggiatore della sua preda — Sia testimone il Cielo!
E che mai dal posto che ho scelto,
Qualsiasi il pericolo o il costo,
Io mi allontani[40].

Note

[1] Douglas sta qui parafrasando il saggio The Crisis (1776) di Thomas Paine (1737-1809). Paine è uno dei principali propagandisti della Guerra d’indipendenza.

[2] [Conservatori. Tradizionalmente il termine tory, contrapposto a whig, definiva un membro o sostenitore del più grande gruppo politico inglese del diciottesimo secolo e dell’inizio del diciannovesimo, che cercava di mantenere la struttura politica tradizionale e di frenare la riforma parlamentare. Ma il termine fu usato anche durante la Rivoluzione Americana per definire i sostenitori americani della causa della Corona Britannica contro i fautori dell’indipendenza coloniale].

[3] II termine a cui Douglass allude potrebbe essere «hunker», usato per riferirsi ai Conservatori Democratici dell’epoca.

[4] Qui, come altrove, Douglas cita o parafrasa la «Dichiarazione d’indipendenza».

[5] Da Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882), «A Psalm of Life» (1838).

[6] Saggista e pastore anglicano (1771-1845), conosciuto negli Stati Uniti soprattutto per le sue critiche alla cultura americana del tempo («chi, nel mondo, legge un libro americano?»)

[7] Luca 3:8.

[8] II testamento di George Washington stabiliva che, alla morte di sua moglie, i 300 e più schiavi che possedeva venissero liberati.

[9] William Shakespeare, Giulio Cesare, III, II 76.

[10] Salmo 137:1–6

[11] Douglass cita l’editoriale di William Lloyd Garrison, pubblicato nel primo numero del giornale antischiavista The Liherator.

[12] [Nell’originale, «negro race». È la formulazione accettata all’epoca; solo a fine secolo si ufficializza l’iniziale maiuscola per la parola «Negro».]

[13] Thomas Hart Benton (1782-1858), senatore degli Stati Uniti per il Missouri, 1821-1851.

[14] In realtà si tratta di Austin Woolfolk, famoso mercante di schiavi di Baltimora, a cui Douglass si riferisce nella sua Narrative del 1845.

[15] Douglass cambia leggermente i primi quattro versi di «Stanzas for the Times», di John Greenleaf Whittier (1807-1892) poeta attivo nella causa antischiavista.

[16] Il «Fugitive Slave Act» del 1850 stabiliva che le testimonianze di un presunto fuggiasco non fossero «ammesse come prova»; né la persona poteva chiamare testimoni.

[17] Matteo 23:23. Douglass cita l’intero passaggio alla fine del paragrafo.

[18] Riformatore religioso scozzese (1505-1572), che attaccava Maria Stuart, regina di Scozia, chiamandola «Jezabel».

[19] Il presidente Millard Fillmore.

[20] Thomas Paine e Henry St. John, visconte Bolingbroke (1678-1751) erano famigerati nel diciottesimo e diciannovesimo secolo per le loro idee non ortodosse, soprattutto rispetto alla religione.

[21] [«Thug»: membro di una setta di fanatici assassini in India: strangolatore, criminale. In America viene spesso usato nel senso di «sicario».]

[22] Giacomo 1:27.

[23] Isaia 1:13–17.

[24] Douglass cita da An Inquiry Into the Scriptural Views of Slavery (1846), di Albert Barnes, un pastore di Philadelphia.

[25] Rispettivamente, John Chase Lord, Gardiner Spring, Léonard Elijah Lathrop, Samuel Hanson Cox, Ichabod Smith Spencer, Ezra Stiles Gannet, Daniel Sharp e Orville Dewey. Questi uomini non approvavano necessariamente la schiavitù ma consigliarono l’obbedienza al Fugitive Slave Act e in genere si opposero all’appello per «l’emancipazione immediata» di abolizionisti come Douglass e Garrison,

[26] Henry Ward Beecher, fratello di Harriet Beecher Stowe.

[27] Il reverendo Robert R. Raymond, che aveva letto la Dichiarazione d’indipendenza durante la cerimonia.

[28] Rispettivamente, Granville Sharp, Thomas Clarkson, William Wilberforce, Thomas Fowell Buxton, Thomas Burchell e William Knibb, leader dell’opposizione cristiana alla schiavitù e alla tratta degli schiavi in Gran Bretagna e nelle sue colonie.

[29] Nel 1849 l’Ungheria era stata invasa e il suo governo repubblicano abbattuto dalle truppe russe e austriache.

[30] [«Farthing»: moneta inglese non più in uso; quarta parte di un penny.]

[31] Atti degli Apostoli, 17:26.

[32] [Si tratta dell’incipit della Dichiarazione d’indipendenza.]

[33] Shakespeare, Macbeth V, VIII, 20-22

[34] Lysander Spooner aveva pubblicato The Unconstitutionality of Slavery nel 1845; William Goodell, Views of American Constitutional Law, Its Bearing Upon American Slavery (1844); Samuel E. Sewell, avvocato e uomo politico antischiavista del Massachusetts, Remarks on Slavery in the United States (1827); Gerrit Smith scrisse spesso sull’argomento.

[35] George Mifflin Dallas (1792-1864) è stato vice presidente (1845-1849); aspirava alla candidatura democratica alle elezioni presidenziali, ed era impegnato nell’applicazione della Fugitive Slave Law.

[36] Il senatore della Georgia John MacPherson Berrien (1781-1856), noto come avvocato costituzionalista e favorevole al compromesso sul tema della schiavitù.

[37] Sidney Breese e Lewis Cass erano senatori degli Stati Uniti rispettivamente per l’Illinois e il Michigan.

[38] Parafrasato da Isaia 59:1.

[39] Vedi salmo 68:31: «Verranno dei principi dall’Egitto; l’Etiopia si affretterà a tendere le mani a Dio»

[40] William Lloyd Garrison, «The Triumph of Freedom».

Da Frederick Douglass, L’indipendenza e la schiavitù, a cura di Alessandro Portelli, traduzione di Sandra Grieco, I grandi discorsi, manifestolibri, Roma, 1995

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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