Libri: I crimini di Salò. 20 mesi di delitti della Repubblica sociale italiana
di Gabriele Coltro
la storia non ha nascondigli
la storia non passa la mano
la storia siamo noi
siamo noi questo piatto di grano.
I conti con la storia
I 20 mesi della Repubblica sociale italiana di Salò sono stati una sorta di prosecuzione della guerra civile spagnola fuori dai confini della penisola iberica. Stessa irriducibile contrapposizione tra le parti, stesso anelito all’annichilimento dell’avversario, analoghe, purtroppo, le atrocità. Non è che in Italia si siano raggiunti i picchi di crudeltà dell’esperienza spagnola. Senza per forza dover mettere le due parti sullo stesso piano, anche in Italia ci sono stati gli omicidi vendicativi, le esecuzioni sommarie, i rastrellamenti dei civili, i saccheggi e pure le torture. Prima di Salò gli italiani non si erano più armati gli uni contro gli altri da quasi mezzo millennio. Ma allora l’Italia neppure esisteva e gli italiani erano ancora da fare.
La giovane futura repubblica italiana non era per niente intenzionata a passare un colpo di spugna sulle attività dei repubblichini e dei collaborazionisti della Rsi. Accadde però che uno dei più irriducibili avversari del fascismo, Palmiro Togliatti, all’epoca ministro della giustizia, decise di metterci una pietra sopra. E forse fece bene. Questa pietra è, però, rimasta anche con lo scorrere degli anni. Alla fine è diventata un sepolcro imbiancato. È il diritto all’oblio di una nazione. Ma la storia non ha nascondigli.
I francesi, al contrario, non hanno mancato di misurarsi seriamente con la Repubblica di Vichy, un’esperienza di gran lunga più radicata, profonda e duratura di quella di Salò. Ma la Francia è una nazione emotivamente differente dall’Italia e fors’anche più crudele e meno indulgente. Mentre la ghigliottina lavorava a pieno regime in nome dell’illuminismo, nei territori italiani degli Asburgo-Lorena la pena di morte non esisteva più da vari anni. Pietro Leopoldo l’aveva abolita in Toscana nel 1786 e il fratello Giuseppe II l’anno dopo nel Lombardo-veneto. Così va la storia.
Gli studi su Salò
Non è che difettino gli studi sul periodo della Repubblica di Salò, in genere inscritti nel più ampio perimetro della storia della resistenza italiana. Ci sono pure monografie e molta memorialistica, ma in pochi hanno, in verità, dato dentro alle fonti che sono il sale della ricerca storica. A farlo davvero è stato Gabriele Coltro, giornalista del Gazzettino di Padova e storico investigativo, come ormai non ce ne sono molti.
Coltro ha prodotto uno studio sui crimini di Salò di oltre 1000 pagine, con più di 10mila nomi: I crimini di Salò. Venti mesi di delitti della Repubblica Sociale nelle sentenze della Corte d’assise straordinaria di Padova, 3 voll., goWare. Un intero volume, dei tre tomi inscindibili, è dedicato ai soli indici analitici e dei nomi.
Coltro ha letto, copiato e commentato gli atti, spesso al limite della leggibilità, dei 427 processi per collaborazionismo intentati dalla Corte straordinaria di Assise di Padova tra il 16 giugno 1945 e il 17 ottobre 1947. Nell’intervista che segue l’autore spiega bene la storia dell’“archivio della vergogna” e come sia maturata la sua decisione di farne un libro.
Proprio alla vigilia della liberazione il governo provvisorio della futura repubblica italiana aveva deciso di trasformare la responsabilità delle imprese degli aderenti alla Repubblica Sociale Italiana da azioni di natura politica a manifestazioni di matrice penale, criminalizzando, con due specifici atti legislativi, il regime di Salò e l’attività di collaborazionismo con i nazisti.
Perché Coltro ha dedicato due anni della sua vita a studiare un episodio dimenticato e alla fine, almeno nella storiografia corrente, così marginale come quello di processi “fantasma” e di sentenze mai eseguite per i crimini di Salò?
Lo studioso padovano lo spiega bene nella sua premessa al libro, scrivendo:
“Perché un libro sulle sentenze che punirono i fascisti repubblicani? Perché la memoria è importante. Una società senza memoria non ha coscienza di se stessa. In quelle sentenze ci sono tutti gli orrori dei venti mesi della guerra civile e della lotta di liberazione. Ogni riga di quelle sentenze scritte a mano, talvolta in una calligrafia al limite del leggibile, trasuda sofferenza. Averne memoria è indispensabile per non ricadere negli stessi errori, perché non v’è nulla di più sacro della vita”.
Abbiamo rivolto alcune domande a Gabriele Contro. Condividiamo volentieri con i nostri lettori le sue risposte.
Intervista all’autore
Cosa l’ha spinta ad iniziare questa ricerca?
Un evento che mi ha molto colpito. Nell’estate 1994, negli scantinati di palazzo Cesi, a Roma, sede degli uffici giudiziari militari d’appello, venne rinvenuto un armadio contenente oltre duemila fascicoli relativi a crimini di guerra rimasti impuniti grazie ad un discutibilissimo quanto illegittimo provvedimento di “archiviazione provvisoria” adottato per mera opportunità politica agli inizi degli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, quando alla Germania fu attribuito nell’ambito della Nato un ruolo difensivo antisovietico. Il ritrovamento di quell’armadio, che la stampa subito battezzò “armadio della vergogna”, fece un grande scalpore. I fascicoli, molti dei quali contenenti elementi sufficienti all’identificazione dei responsabili di innumerevoli atti di violenza commessi contro la popolazione civile, dai saccheggi agli eccidi, furono ricatalogati e inviati alle procure militari competenti per territorio. A Padova ne giunsero un’ottantina. Il sostituto procuratore Sergio Dini inviò una denuncia al Consiglio superiore della magistratura militare chiedendo fosse fatta piena luce sul comportamento dei vertici giudiziari militari. Fu istituita un’apposita commissione la quale censurò l’operato di tre alti magistrati di nomina ministeriale che ressero la Procura generale militare dall’immediato dopoguerra fino all’inizio degli anni Settanta. Fu allora che mi venne l’idea di avviare una ricerca più ampia sui crimini commessi dai fascisti in provincia di Padova durante i venti mesi della Rsi. Mi ero già imbattuto in qualche sentenza della Corte d’assise straordinaria durante le ricerche sul processo per l’oro di Dongo che si celebrò a Padova negli anni Cinquanta. Ma avevo accantonato il progetto di studio perché il lavoro di giornalista al Gazzettino non mi lasciava tempo libero da dedicare ad una ricerca così vasta.
Perché uno studio proprio sul fascismo repubblicano a Padova?
Perché Padova esercitò un ruolo centrale nella Resistenza veneta. I venti mesi della lotta contro il nazifascismo videro impegnati nel Padovano 4.741 partigiani combattenti e 2.706 patrioti. I caduti furono 573 e i feriti 274. Operarono sei brigate di ispirazione cattolica, la brigata Garibaldi di ispirazione comunista, composta da una decina di battaglioni, una brigata azionista. Si può dire che il cuore pulsante della Resistenza veneta fu l’Università patavina, unico ateneo italiano insignito della medaglia d’oro al valor militare. Uomini come il rettore Concetto Marchesi, il prorettore Egidio Meneghetti, Ezio Franceschini, Silvio Trentin — il papà di Bruno che diventerà segretario generale della Cgil — scrissero una eroica pagina della storia della liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’oppressione tedesca. A casa di Marchesi si costituì il Cln regionale. Gli istituti universitari diventarono il fulcro dell’attività cospirativa. L’istituto di Farmacologia, diretto da Meneghetti, fu il principale centro della cospirazione antifascista veneta, collegato con i Cln provinciali, con i comandi militari, con le formazioni partigiane, con le autorità alleate dell’Italia liberata e della Svizzera. All’istituto di Chimica si prepararono gli ordigni incendiari ed esplosivi sotto la guida dell’ingegnere Otello Pighin “Renato”, assistente della cattedra di Macchine. Fu proprio Pighin, militante azionista, a costituire la rete dei campi di lancio dove gli Alleati paracadutarono le forniture di armi. Diedero la loro vita per la libertà professori e giovanissimi studenti liceali e universitari, liberi professionisti e commercianti, artigiani e operai, contadini e casalinghe. A tutti loro dobbiamo il dovere della memoria. Perché una società senza memoria non può avere coscienza di se stessa.
Sicuramente oggi più che mai è importante tenere traccia del passato e questi volumi offrono di certo un’opportunità di approfondimento. Quanto tempo ha dedicato alla ricerca?
Più di due anni. Dopo la pubblicazione de Il tesoro del Duce ho ripreso in mano il progetto sui crimini nazifascisti. E ho iniziato la raccolta sistematica di tutte le sentenze emesse dalla Corte d’assise straordinaria dal giugno 1945 sino alla fine del 1947 quando la Corte cessò ogni competenza e venne sciolta. Nell’archivio del Tribunale ho rinvenuto 476 sentenze relative a 927 imputati. I processi vennero istruiti da uno staff di undici pubblici ministeri, tre dei quali togati. Nella Corte d’assise si alternarono sei giudici e ben 197 giurati. Furono emesse 26 sentenze di condanna alla pena capitale, delle quali solo 4 eseguite con fucilazione alla schiena nel poligono di via Goito, mentre 3 furono commutate in ergastolo dalla Commissione alleata e altre 17 vennero annullate dalla Cassazione per difetto di motivazione, una fu annullata per la morte dell’imputato e un’altra fu spazzata via dall’amnistia. La Corte inflisse anche 18 condanne all’ergastolo. Infine 125 condanne furono annullate dalla Suprema corte con rinvio a collegi giudicanti di altre province.
Perché un numero così elevato di sentenze cassate?
La spiegazione sta nel fatto che l’epurazione nella magistratura fu lenta e con risultati assai scarsi. Sicché alla guida degli organi di vertice rimase per lo più il personale anziano, quello che era stato maggiormente segnato dallo stretto rapporto con il fascismo, che rivendicando la natura tecnica delle funzioni svolte sopravvisse alla defascistizzazione avviata negli organi dello Stato. Quindi i giudizi di legittimità vanificarono in parte il grande sforzo compiuto dalle Corti d’assise nel punire una moltitudine di malefatte commessa dai fascisti di Salò. Va aggiunto che nell’analisi del concetto di collaborazionismo i giudici padovani fornirono eccellenti interpretazioni che fecero scuola.
Quali difficoltà ha incontrato nel portare avanti questo studio?
La parte più complessa è stata proprio la lettura delle sentenze, tutte scritte a mano su fogli protocollo, talvolta al limite della leggibilità, con linguaggio tecnico arcaico. È stato necessario ricostruire i fatti sinteticamente descritti nei capi di imputazione e nella parte motiva. E per fare questo mi sono avvalso innanzitutto delle relazioni delle varie formazioni partigiane, depurandole dai passi di pura esaltazione autoreferenziale. Ho potuto apprezzare l’equilibrio dei nostri giudici e giurati: per loro non dev’essere stato facile raggiungere la serenità di giudizio soprattutto nei primi processi che videro un’enorme partecipazione di pubblico, percorso da una grande ansia di rivalsa, desideroso che giustizia fosse fatta severamente. È facile comprendere quale atmosfera aleggiasse alle udienze che mettevano i testimoni a confronto con quanti erano accusati di essere i loro aguzzini, specialmente nel momento in cui si ricostruivano sevizie, torture uccisioni. Per capire il clima di quei primi mesi successivi alla Liberazione basti pensare che il primo processo contro le brigate nere cittadine fu interrotto da un linciaggio: la folla strappò dalle gabbie gli imputati, li trascinò in piazza Insurrezione e ne ammazzò uno. Solo l’intervento in forze della polizia militare alleata salvò gli altri dal furore popolare. Se è vero che i primi procedimenti furono caratterizzati da maggiore rigore sanzionatorio, è anche vero che il lavoro della Corte si distinse sempre per la difesa della legalità e impedì che il furore popolare, particolarmente acceso in quel periodo, degenerasse in gravissimi episodi di giustizia sommaria.
Quali reparti nazifascisti operavano a Padova?
I tedeschi occuparono Padova nel tardo pomeriggio del 10 settembre 1943. Un reparto di esploratori su semoventi blindati al comando di un maggiore ottenne subito dal generale Italo Gariboldi la resa dell’intero stato maggiore e il disarmo di circa 2.500 militari rimasti chiusi nelle caserme in attesa di ordini, che finirono tutti in campo di concentramento. Fu imponente la struttura militare e amministrativa che si insediò in città. C’era persino una sezione del Partito nazionalsocialista. Ma l’organo di polizia che più faceva paura era la SD, la polizia di sicurezza, il più temuto reparto delle SS. La comandava il maggiore Friedrich Bosshammer. Aveva organizzato la “soluzione finale” in Bulgaria (51mila ebrei deportati), in Romania (75mila ebrei deportati) e in Slovacchia (17.500 ebrei deportati e 832 uccisi sul posto). Poi c’era la brigata nera “Begon”, comandata dai famigerati fratelli Allegro che scrissero una delle pagine più buie del fascismo. Aveva distaccamenti in tutta la provincia. I più feroci erano nella Bassa Padovana, nel Conselvano e nel Camposampierese. Infine c’era la “banda Carità”. Era una sbirraglia di torturatori al servizio dei tedeschi. La comandava Mario Carità. Figlio di ignoti, all’anagrafe era registrato come Pietro Carità del fu Gesù. Cresciuto a Lodi, trapiantato a Firenze, aveva la fronte bassa, il grugno suino, sui capelli nerissimi spiccava una candida ciocca proprio in mezzo alla fronte, rivelatrice di anomalie del sistema nervoso. L’offensiva alleata del maggio 1944 a Cassino costrinse il reparto a trasferirsi al Nord. La “banda” approdò a Padova alla fine di ottobre, chiamata dal prefetto Federigo Menna, stabilendosi a Palazzo Giusti. Furono cinque mesi infernali. La fantasia dei torturatori non aveva limiti. Il pezzo forte era la famigerata “macchinetta”, un telefono da campo tedesco che manovrato manualmente produceva energia elettrica fino a 125 volt e che divenne lo strumento principe per ottenere le confessioni dagli arrestati. Quasi tutti i detenuti passarono per la tortura della corrente elettrica. Comprese le donne, che per ulteriore crudeltà e dileggio venivano costrette a denudarsi e a subire ripugnanti manifestazioni di libidine. Incredibile, a proposito delle torture con la corrente, l’atteggiamento della Cassazione che negò potessero essere considerate “sevizie particolarmente efferate”.
Un libro sull’oppressione e la resistenza che fa comprendere a quale prezzo gli italiani abbiano conquistato la libertà.
È lo scopo che mi sono prefisso con questo lavoro. Di libri sulla Resistenza ce ne sono moltissimi. Ma spesso, quando si parla della Resistenza, si dimentica il grande ruolo che ebbero le donne e il clero. La lotta di liberazione in Italia vide 35 mila partigiane, 20 mila patriote, 4.633 arrestate, 2.750 deportate, 2.900 cadute in combattimento o fucilate. A Padova le donne furono davvero eroiche. A cominciare da coloro che conobbero il campo di concentramento: studentesse e operaie come Maria Zonta, Milena Zambon, Delfina e Maria Borgato, Lidia, Liliana e Teresa Martini, per citarne solo alcune. Altre subirono tremende torture da parte della “banda Carità”, come Ida D’Este, Anna Bilato e Taìna Dogo. Anche i preti diedero un grande contributo. I benedettini di Santa Giustina, i frati del Santo, i sacerdoti del Barbarigo e dell’Antonianum, moltissimi parroci che nascosero prigionieri alleati fuggiti dalla caserma di Chiesanuova dopo l’armistizio, perseguitati politici, ebrei. E a proposito di ebrei, anche Padova ebbe un campo di raccolta, a villa Contarini Venier di Vò Vecchio. Ne furono ristretti 71 e la vigilanza venne affidata alla Questura. Il 17 luglio 1944 i tedeschi li caricarono sui camion. Finirono tutti nel campo di sterminio di Auschwitz. Solo tre donne si salvarono.
Gabriele Coltro, giornalista padovano, è l’autore de I crimini di Salò, edito da goWare, uscito lo scorso Natale. Un libro in tre tomi dedicato alle sentenze della Corte d’assise straordinaria di Padova sui delitti commessi dai fascisti nei venti mesi della Rsi. Un lavoro di raccolta documentale lungo e laborioso su una pagina di storia fondamentale nella nascita dell’Italia repubblicana.
Coltro è stato inviato nel Kurdistan iracheno nella Prima guerra del Golfo, nei Balcani durante il conflitto serbo-bosniaco, in Albania con l’“Operazione Pellicano” e in Brasile per il programma Onu contro i campi di cocaina nel Sertao Central. A Gaza ha intervistato in esclusiva Yasser Arafat nel trentennale di Al Fatah. Ha diretto la redazione di Rovigo de Il Gazzettino. Con goWare ha pubblicato Il tesoro del Duce.