Libri: Capitolo 3 — Il significato della costituzione leopoldina

Il progetto di costituzione toscana di Pietro Leopoldo

Mario Mancini
12 min readJan 28, 2020

Vai agli altri capitoli del libro “Il progetto di costituzione toscana di Pietro Leopoldo”

Gli Uffizi di Firenze

Oltre il modello corporativo

È molto difficile esprimere un giudizio sulla portata politica e sociale di un provvedimento che restò sempre allo stato di ipotesi e di progetto.

Nonostante i limiti, le contraddizioni e le ambiguità riscontrabili nel testo il progetto costituzionale leopoldino si presenta, sin dalla sua prima stesura, come qualcosa di sostanzialmente diverso dai precedenti modelli costituzionali medievali a base corporativa, fondati sulla rappresentanza per stati generali.

Sotto questo profilo il progetto di costituzione appare molto più vicino alle costituzioni delle monarchie liberali del secolo successivo che non al modello corporativo-rappresentativo tipico di alcuni stati assoluti europei.

Rimane da chiarire il motivo per cui Pietro Leopoldo nel pensare ad una costituzione per la Toscana rifiutò una soluzione corporativa, dopo che, durante il breve soggiorno viennese, aveva strenuamente difeso presso il fratello e giudicate valide le costituzioni corporativa dell’Ungheria e dei Paesi Bassi.[1]

Innanzitutto per il suo aderire teoricamente e filosoficamente alle teorie del pensiero europeo più progressivo come si può notare[2] nel “primo disteso ed idee sopra la formazione degli stati e nuova costituzione pubblica” in cui, come ha descritto il Diaz, si avvertono le influenze di Erasmo da Rotterdam, Wolff, Pufendorf, Grozio, Hobbes, Locke, Montesquieu, Rousseau, Turgot, e principalmente l’eco dei principi sanciti nelle costituzioni dei vari stati delle colonie inglesi d’America proprio allora ribellatesi alla madrepatria; peculiarmente per le soluzioni che esse avevano dato al problema della rappresentanza nazionale.

Secondariamente per una particolare situazione della Toscana solcata da grandi riforme per cui sarebbe stato un errore “il classare i diversi corpi rappresentativi la nazione e dividere la nobiltà o il clero da altri ceti ugualmente immaginari nelle loro prerogative, giacché quanto vi è di buono nell’attuale forma di governo si restringe ad una imparzialità di legislazione.”[3]

“Sotto questo aspetto — scrive il Mori[4] — la costituzione leopoldina avrebbe potuto essere il mezzo per troncare definitivamente l’antico regime particolaristico di privilegio ed eliminare del tutto l’influenza dei vecchi istituti corporativi che invece di rappresentare gli interessi di determinate categorie rappresentavano quelle di determinate cerchie sociali.” Le cerchie sociali appunto del clero e della nobiltà.

Ridurre l’influenza del clero e dei ceti aristocratici

Il rifiuto di suddividere i rappresentanti della nazione nei tre ordini di derivazione medievale deriva dalla volontà di ridimensionare e colpire seriamente l’influenza soffocante del clero e della aristocrazia urbana così efficacemente e coloritamente descritta dallo stesso Pietro Leopoldo nelle prime pagine della Relazione sul Governo della Toscana.[5]

Per colpire il peso politico della nobiltà parassita e del clero l’autorità sovrana doveva cercare l’appoggio ed il sostegno da una parte di una burocrazia statale, fedele, selezionata, moralizzata ed efficiente — basterebbe descrivere[6] con quanta minuziosità, attenzione e cura dei particolari il Granduca inizia questa opera di formazione di una burocrazia di tipo nuovo — e dall’altra parte di un ceto di possidenti terrieri che sarebbe andato a costituire l’architrave del decentramento politico ed amministrativo che, con la riforma comuncativa, si era avviato e che la costituzione doveva completare.

Da questa esigenza di condizionare l’influenza dei tradizionali ceti aristocratici urbani e di promuovere nuovi ceti sociali, rurali ed intermedi, scaturisce il rifiuto di adottare una soluzione corporativa per il problema della costituzione toscana.

A tale proposito molto acuta è l’osservazione di Francovich[7] che nota come il ricorso ad un sistema unicamerale — di fronte al precedente esperimento inglese — dimostra l’inequivocabile volontà di eliminare l’aristocrazia e il clero da governo della res publica.

È necessario guardarsi da conclusioni troppo nette e schematiche nel cercare nella politica del Granduca un marcato fondamento di classe, oppure un esplicito disegno di promozione del3° stato alla direzione politica del paese.

Giustamente il Diaz[8] nota che per la toscana della fine del 1700 è “molto discutibile se possa parlarsi d società divisa in classi tanto la borghesia appare ancora come qualcosa di estremamente eterogeneo, composito e labile”.

L’allargamento del consenso

Pietro Leopoldo, sulla base di una realistica considerazione dello stato della monarchia in rapporto allo sviluppo storico europeo testimoniano i suoi appunti del periodo viennese 1776–1779[9], appare consapevole del fatto che le nazioni rette da monarchie assolutistico-illuminate devono dilatare l’area del consenso oltre i ceti tradizionali e, nel contempo, restare legate alla nuova decisiva fase di espansione commerciale e di sviluppo mercantile e produttivo dell’economia europea.

Comunque nell’azione di Pietro Leopoldo, giunto sino alla soglia di concessioni costituzionali in senso liberale, non si riesce a cogliere nessun disegno eversivo dell’ordine costituito dal dispotismo illuminato, quanto piuttosto un consapevole tentativo di adeguare tale sistema di potere ai tempi ed al ritmo assunto dallo sviluppo storico.

Il rinnovamento dei rapporti politici tra sovrano e sudditi possidenti — previsto dalla costituzione- e l’opera di razionalizzazione e riforma dello stato erano parti integranti di un unico disegno teso a collocare in posizione marginale nobiltà e clero toscano, verso i quali Pietro Leopoldo ha parole di fuoco[10], ed a favorire l’assunzione di responsabilità sempre maggiori nella vita amministrativa e politica dello stato da parte del ceto dei proprietari i terre. I proprietari terrieri erano l’ossatura dei consigli comunali, provinciali e della rappresentanza nazionale essendo prevista l’eleggibilità solo per quei toscani che godevano di 500 scudi di rendita da possessi fondiari. In piena linea con le proprie convinzioni fisiocratiche Pietro Leopoldo vedeva nei possessori della terra il fondamento della ricchezza delle nazioni.

Ritornando alla costituzione, che costituisce l’oggetto specifico di questo lavoro, m’interessa svolgere alcune considerazioni sul rapporto esistente tra questa ed il complesso delle riforme leopoldine, particolarmente quella comunitativa.

Il coronamento delle riforme

Il Gianni, nel già citato scritto del 1804[11], conferisce al progetto costituzionale leopoldino il carattere di necessaria sintesi e di coronamento di tutta l’opera riformatrice condotta da Pietro Leopoldo in tutti i campi, primo fra tutti quello amministrativo.

Questo giudizio è stato per lungo tempo condiviso, parte integrante di una più generale interpretazione dell’intero periodo leopoldino considerato dalla storiografia ottocentesca toscana di orientamento moderato — dal Capponi[12] e dallo Zobi[13] — come un riuscito tentativo di superare, in un epoca di grandi sommovimenti sociali e politico-istituzionali, le contraddizioni ereditate dall’Ancien Regime e di fondare uno stato moderno largamente tollerante tanto da aver garantito alla Toscana un clima di libertà civile, politica e culturale nell’opprimente stagione della restaurazione.

In tal modo, come nota il Giorgetti[14], la toscana “senza subire traumi rivoluzionari si sarebbe inserita con una propria personalità e un proprio volto — le cui radici sono da ricercarsi nell’opera di Pietro Leopoldo — nel processo d’unificazione nazionale”.

Un’interpretazione indubbiamente suggestiva cui il moderatismo tosano è stato sempre gelosamente fedele e che è giunta ad influenzare storici come il Rodolico15[15] e l’Anzillotti[16]. L’Anzillotti considera la costituzione, su cui ha compiuto un importante studio, il necessario approdo del riformismo leopoldino in armonia con le conclusioni a cui il Gianni era pervenuto nel 1804.

Nel trattare questo problema è necessario guardarsi dal giungere a conclusioni affrettate e mancante di fondamento storico e occorre non dimenticare il fatto che il progetto leopoldino, nonostante le buone intenzioni del Granduca, non vide mai la luce.

Conoscendo l’iniziale scetticismo del Gianni di fronte alle idee costituzionaliste di Pietro Leopoldo il giudizio così esplicito e netto del 1804 ci sembra forzato e, come qualcuno ha giustamente notato[17], indotto post festum dall’incalzare di avvenimenti internazionali ed interni allo stato toscano.

Furio Diaz[18], aprendo il V capitolo del suo studio sul Gianni, si pone una domanda pertinente: “La libertà economica, il miglioramento della produzione agricola e delle condizioni di vita dei contadini, l’ammodernamento e regolarizzazione della pubblica amministrazione, la riforma del sistema tributario e l’alleggerimento del debito pubblico. Come avrebbero potuto reggersi ed organizzarsi questi filoni di riforma indipendentemente da una iniziativa di rinnovamento politico dello stato?”.

Il nesso tra costituzione e riforme

Il nesso tra costituzione e le precedenti riforme non è meccanico — nel senso che le une dovevano necessariamente condurre all’altra — ma va ricercato in una duplice direzione:

1. Direzione. Le riforme specialmente quelle economiche ed ecclesiastiche avevano leso interessi e posizioni di privilegio dei ceti dominanti che, durante l’amministrazione medicea erano stati il perno ed il nerbo dello stato. Nella nuova realtà toscana si poneva il problema di un nuovo rapporto tra sovrano e sudditi in generale ed in particolare fra la monarchia e ceti possidenti rurali che costituivano, nella visione fisiocratica del Granduca, la fonte e la base della ricchezza nazionale.

2. Direzione. Chi avrebbe garantito al Granduca, una volta morto o partito da Firenze, di fronte all’esaurirsi delle migliori generazioni di riformatori ed illuministi, che tutto l’edificio di riforme da lui costruito sin dal 1765 si sarebbe salvato dalla opera smantellatrice di un principe dispotico oppure da sommovimenti e rivolte sociali?

Ricercando in questa duplice direzione si riesce a dare una spiegazione al problema di quali forze reali e di quali formazioni sociali si dovevano mobilitare intorno alle riforme ed al processo di rinnovamento della società toscana, sia all’esigenza di pensare aduno strumento che permettesse di instaurare nuovi rapporti politici tramite la coresponsabilizzazione ed associazione alla direzione dello stato di quei proprietari terrieri di cui ho già parlato.

Da qui deriva la minuziosa e meticolosa elencazione — nel testo costituzionale (elenco che occupa poco meno della metà degli articoli) — sul carattere intoccabile e immutabile dell’esistente status di libertà di commercio e di impresa, del regime fiscale e doganale, dell’ordinamento comunitativo e giudiziario, dei provvedimenti verso il clero; tutti i campi nei quali non è possibile far niente senza l’accordo tra sovrano e rappresentanti della nazione.

L’assemblea rappresentativa è investita del compito di controllo e di vigilanza sulla conservazione dello statu quo, del regime economico, sociale, civile introdotto da Pietro Leopoldo contro eventuali tentativi di Sovrani non illuminati, contro l’opera di cattivi ed ignoranti consiglieri, come quelli che Pietro Leopoldo aveva al momento della sua partenza per Vienna nel 1790, contro le trame e gli intrighi degli uomini di “Roma” e contro le turbolente plebi urbane inclini alla rivolta ed alla sobillazione.

Pietro Leopoldo illuminista

Pietro Leopoldo, da buon illuminista, aveva compreso che il grado di sviluppo della società europea, ed i recenti avvenimenti americani ne avevano costituito la verifica, non rendeva più indiscutibile l’assolutezza del potere e che quindi, per le monarchie assolute, sorgeva il problema, se ancora volevano sopravvivere, di rinnovarsi. Il Granduca, come giustamente nota il Salvestrini[19], giungeva ad individuare il nodo centrale del suo tempo, cioè quello delle forze con le quali portare avanti le riforme necessarie per creare le nuove condizioni di sopravvivenza alle monarchie assolute.

Intendeva Pietro Leopoldo, di propria volontà, con la concessione della costituzione, autospogliarsi ei suoi festosi abiti di monarca assoluto per indossare quelli più dimessi e scomodi di monarca costituzionale e liberale, oppure la Costituzione era nient’altro che un espediente originale per rendere più efficiente, moderno e razionale il dominio di un dispotismo sia pur esso confortato dalle idee dei Lumieres?

Nel ricercare una risposta a questo ennesimo quesito non intendo fare un processo alle intenzioni della storia, ma cercare di capire e scorgere il significato del progetto costituzionale leopoldino.

“La costituzione — come ha scritto il Venturi[20] — è uno dei sintomi più interessanti del venticinquennio leopoldino, indicandoci una evoluzione logica, insita in quel sistema, anche se le circostanze non permisero al frutto di maturare. Un po’ ovunque il passaggio dal dispotismo illuminato alla monarchia costituzionale non potè essere opera di un pacifico e graduale processo, ma fu segnata da rotture e rivoluzioni.”

La divisione dei poteri

Voglio richiamarmi al testo definitivo della costituzione. In base ad esso i poteri dello stato sono bipartiti tra il sovrano — capo dello stato, dell’esercito, dell’esecutivo dotato di poteri discrezionali nella scelta dei ministri degli impiegati pubblici, dei vescovi e ei giudici — ed un consiglio generale composto da proprietari terrieri aventi il compito di coadiuvare il sovrano e di concordare con esso l’adozione di determinate leggi oltre che di illuminare, consigliare e portare a conoscenza del sovrano i problemi locali e particolari delle provincie e delle comunità; un potere legislativo mediamente diviso tra sovrano e assemblea rappresentativa.

Siamo ben lungi dallo stato costituzionale moderno; eppure se Pietro Leopoldo avesse voluto veramente edificare uno stato costituzionale superando quello assolutistico, non aveva che da ispirarsi alle costituzioni degli stati americani che egli conosceva molto bene, dove il problema della divisione dei poteri e delle rispettive competenze non lascia margini ad alcun dubbio di sorta.

Nella costituzione leopoldina il monarca continua a controllare direttamente ed assolutisticamente parti e componenti vitali dello stato, mentre il “parlamento” si limita ad esercitare una funzione di controllo e di consulta all’opera del sovrano che, in ultima istanza riassume nella sua persona anche il potere legislativo.

Come si può dunque parlare, dopo aver letto ed esaminato il testo della costituzione, di stato costituzionale o addirittura di democrazia roussoiana, come se qualcuno ha scorto nel progetto leopoldino[21]; è necessario tuttavia riconoscere che, quanto a premesse teoriche e a principi generali il proemio dell’editto appare realmente il prodotto di una evoluzione in senso liberale del pensiero e di quello leopoldino, di una evoluzione cioè verso una monarchia costituzionale, come dice il Gianni[22] di “un governo monarchico temprato dall’intervento del voto nazionale.” Le affermazioni del preambolo a questo proposito non lasciano dubbi: “intendiamo riassumere nei veri e giusti limiti soltanto la potestà governativa per noi e per i nostri successori — solo il potere esecutivo — e conferire all’intero corpo dei nostri sudditi le loro originarie e libere facoltà di intervenire validamente e con ogni legittimo diritto mediante il voto pubblico a tutti — e sottolineo tutti — gli atti di governo e di legislazione nei quali l’universale dello stato deve avere il principale interesse.”[23]

Non era forse interesse dell’universale dello stato la nomina del governo, dei magistrati, dei funzionari, dei vescovi? Perché dunque queste prerogative restano di stretta ed esclusiva competenza del sovrano delle quali non è dato ai deputati nè di conoscere nè di intervenire.

Il compromesso necessario

Le idee illuministiche e le convinzioni “liberali” di Pietro Leopoldo devono venire a compromesso con la grande responsabilità di essere il rappresentante del potere più assoluto d’Europa: quello degli Asburgo.Da questo compromesso tra convinzione e realtà tra vecchio e nuovo nasce questa idea di costituzione toscana maturata e composta nelle sedi più esclusive del potere e non sentita, dalla stessa intelligentia toscana.

Per quanto acuta è l’osservazione del Francovich[24], del quale condivido le conclusioni, che questa avanzata convinzione ideologica e politica del Granduca si rivela a pieno nel proemio mentre la volontà conservatrice emerge dal testo della costituzione stessa, assai meno liberale di quanto era dato di sperare dalle premesse teoriche.

di ampliare la battaglia a quei ceti proprietari delle campagne che aveva più volte cercato di favorire e di mobilitare con le sue allivellazioni.

In sintesi la costituzione era il tentativo di rafforzare e stabilizzare le riforme, di compiere un esperimento che, nell’ambito dell’assolutismo illuminato, mostrasse all’Europa la vitalità e dinamicità, l’aperturismo delle monarchie ed il felice connubio fra quanto di nuovo emergeva e quanto di meglio c’era nell’Ancien Regime, nel tentativo di squarciare la tempestosa nube che si addensava sui destini del dispotismo europeo.

Qui risiedono i limiti e le originalità del progetto di costituzione toscana di Pietro Leopoldo. Era il limite massimo, invalicabile delle concessioni del paternalismo illuminato che un monarca assoluto potesse accordare senza scavarsi la fossa sotto i piedi.

Tant’è che, anche in quella orma, il progetto costituzionale fu presto abbandonato e non fu mi reso noto nonostante esso costituisse un elemento importante del disegno riformatore di Pietro Leopoldo.

L’abbandono del progetto

Sul motivo di tale improvviso ed apparentemente inspiegabile abbandono, storici e biografi di Pietro Leopoldo si sono soffermati, senza peraltro giungere a conclusioni definitive.

Probabilmente l’insabbiamento del progetto agli inizi del suo curriculum si può spiegare se si considerano due elementi che, probabilmente, convinsero Pietro Leopoldo a soprassedere.

Da una parte, come rivela il Wandruszka[25], i non buoni rapporti con il fratello Giuseppe II derivati da fatto che l’imperatore intendeva sopprimere la secondogenitura ed unificare la Toscana all’impero. Una delle ripercussioni del riacutizzarsi dei rapporti con Vienna fu la rinuncia momentanea a promulgare la Costituzione, la quale avrebbe reso incandescente il clima in casa Asburgo.

Dall’altra parte il crescente malumore che si andava diffondendo a corte, tra i ministri e consiglieri di Pietro Leopoldo che vedevano con sempre crescente sospetto e diffidenza i principi sanciti dalla costituzione e gli istituti rappresentativi che essa avrebbe introdotto.

Questa duplice opposizione spinse il Granduca a rinviare l’entrata in vigore della costituzione a tempi migliori estrapolando dal progetto la separazione dei beni dello stato da quelli della corona che di lì a poco fu promulgata.

Questo progetto nato dall’idea di un sovrano, composto nelle sedi del potere assoluto, senza un reale retroterra e sostegno nella società civile, ma semplice “parto” del Sovrano e del suo più eminente consigliere doveva rimanere vittima del gioco e degli intrighi politici e di corte.

Gli avvenimenti d’oltralpe del 1789 si incaricarono di fare il resto e convinsero Pietro Leopoldo che i tempi erano davvero cambiati e che il compito dei sovrani del suo rango era quello di tamponare il dilagare della marea rivoluzionaria.

Note

[1] cfr.: A. WANDRUSZKA, Pietro Leopoldo op. cit., pp. 395-396

[2] cfr.: F .DIAZ, F:N: Gianni op. cit., pp. 284-285

[3] cfr. F .DIAZ, op. cit., p. 288

[4] R. MORI, Le riforme op. cit., p.97

[5] P. Leopoldo, relazione sul governo della toscana, vol. I a curs di A. Salvestrini, Firenze 1968

[6] Ibd.

[7] C. FRANCOVICH, La rivoluzione americana op. cit.

[8] F. DIAZ, recenti interpretazioni della storia toscana nell’età di P. Leopoldo, in “Rivista storica italiana”, 1970

[9] A. WANDRUSZKA, op. cit. pp. 390-391

[10] vedi: P. Leopoldo relazione op. cit.

[11] F. M. GIANNI, In memoria op.cit.

[12] vedi E. Sestan, Gino Capponi storico in Europa settecentesca ed altri saggi, Milano-Napoli, 1951

[13] A. ZOB, Storia civile della toscana dal 1737 al 1848, voll.5, Firenze, 1850-1852.

[14] G. GIORGETTI, Sulle origine della società contemporanea toscana in “Studi storici “, 1974

[15] N. RODOLICO, Stato e Chiesa in toscana durante la reggenza lorenese 1737-1765, Firenze 1910; e Saggio sul giansenismo italiano, Firenze, 1920

[16] A. ANZILLOTTI, Movimenti e contrasti per l’unità italiana, Milano, 1964

[17] F. DIAZ, op. cit., p. 283

[18] Ibd., p. 245

[19] cfr.: L’introduzione del Salvestrini alle Relazioni sul governo op. cit.

[20] F. VENTURI, Introduzione a F. M. Gianni in Illuministi Italiani, op. cit.

[21] Vedi partic. R. MORI, op. cit. p.102

[22] F. M. Gianni, In memoria op. cit.

[23] Editto per la formazione op. cit.

[24] C. FRANCOVICH, La rivoluzione americana op. cit.

[25] A. WANDRUSZKA, P. Leopoldo op. cit.

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.