Libri: Capitolo 1 — La riforma dello Stato
Il progetto di costituzione toscana di Pietro Leopoldo
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Uno stato frantumato
Pietro Leopoldo non condivise mai i metodi di governo di suo fratello Giuseppe II, in modo particolare l’aspetto autoritario, il volto autocratico e dispotico impresso alla sua azione riordinatrice dello stato lombardo secondo modelli di razionalità ed efficienza. Un metodo condusse alla rottura della collaborazione con la parte più sensibile e feconda dell’illuminismo lombardo.
In Toscana l’opera di unificazione economica, giudiziaria, legislativa non poteva compiersi e completarsi prescindendo da una parallela e sistematica azione di riforma della pubblica amministrazione, della burocrazia statale, delle istituzioni centrali e periferiche che la reggenza lorenese aveva ereditato dal vecchio stato mediceo.
Nel 1765, all’inizio del venticinquennale governo di Pietro Leopoldo, non poteva definirsi la Toscana Stato unitario tanto era grande la polverizzazione e la frantumazione della autorità centrale in infiniti poteri locali e cittadini, in molteplici legislazioni e giurisdizioni, in istituti e prassi feudali che finivano con sovrapporsi ed interferire con quelli del Sovrano. Questo stato di fatto era particolarmente marcato ed oneroso nel campo tributario e della amministrazione della giustizia.
Pompeo Neri definiva tale situazione come una “insopportabile anarchia regolata dall’arbitrio” e vedeva la impossibilità di costruire una politica di riforme su “un edificio vecchio ed antiquato e che crollava da ogni parte”.[1] Un aristocratico piemontese così descrive l’amministrazione Toscana prima delle riforme leopoldine: “stava la Toscana come in un labirinto di confusione, intralciata per la molteplice ed irregolare legislazione portata da particolari statuti e legislazioni feudali”.[2]
Infine nello stesso proemio della costituzione di Pietro Leopoldo si fa esplicito riferimento a questa situazione di anarchia ed arbitrio: “era sorto in Toscana un governo senza veruna legge fondamentale ed interamente arbitrario ed ingiusto, poiché fondato sulla violenza e non sul consenso dei popoli che soli possono legittimare l’istituzione; e che all’istesso governo conforme era disceso poi il sistema delle regie finanze e l’amministrazione dei pubblici interessi”[3].
La burocrazia
Alla frammentazione e parcellizzazione particolaristica dello stato toscano si aggiungeva l’esistenza di una pubblica burocrazia inetta, incompetente e corrotta.
Inoltre come nota il Venturi “man mano che le riforme si approfondivano era evidente che il centro di maggiore resistenza ai cambiamenti e alle trasformazioni stava proprio nello strumento che doveva operare le riforme, nell’apparato dello stato, negli amministratori pubblici e in tutti coloro che dai privilegi legalizzati in un modo o nell’altro traevano profitto”[4].
Francesco Maria Gianni, uno dei principali collaboratori di Pietro Leopoldo, chiamò questa trasparente resistenza una “barriera invisibile contro i di lui protetti”[5].
Pietro Leopoldo, come testimoniano le sue note sul governo della Toscana, ebbe sempre particolarmente a cuore e ripose in ogni momento la massima attenzione e cura nell’affidare la gestione delle proprie riforme ad un personale statale e dell’amministrazione pubblica che accompagnasse efficienza, serietà, onestà a rispetto della gerarchia e dell’autorità del Principe. A riguardo il Granduca si esprime così: “la scelta degli impiegati è la più importante delle incombenze di chi governa, dipendendo da questa la buona riuscita di qualunque azione”[6].
Formazione di una nuova burocrazia statale efficiente, competente, fedele al Sovrano a cui affidare la pratica effettuazione delle riforme è una delle primissime esigenze e necessità cui Pietro Leopoldo deve far fronte.
Comunque l’unico modo di rendere realmente effettivo lo smantellamento dello stato cittadino e particolaristico risiedeva nella riforma degli istituti comunali e centrali sui quali si fondava l’amministrazione pubblica.
La riforma amministrativa
La riforma amministrativa fu di graduale applicazione e passò attraverso molteplici sperimentazioni prima di essere estesa a tutto il territorio toscano nel 1786.
Il perno della riforma della pubblica amministrazione era costituito dal comune, dai suoi istituti e dalle sue magistrature che godevano di una autonoma sfera di competenze nell’ambito della gestione dei problemi locali. Siamo nuovamente messi di fronte ad una di quelle originali costruzioni leopoldine nate dalla felice collaborazione tra il Granduca ed i suoi più illuminati consiglieri e uomini di governo, particolarmente il Gianni ed il Neri.
La soluzione, data al problema della riforma della pubblica amministrazione, è originale e peculiare poiché, ancora una volta, considera realisticamente e tiene di conto delle effettive condizioni della Toscana. Un territorio che, per tradizioni storiche ormai consolidate da secoli, difficilmente si sarebbe resa governabile da un sistema fortemente accentrato centralizzato e burocratizzato, da quel fanatico statalismo autoritario e dispotico instaurato e vigente nella Lombardia giuseppina.
Le tradizioni municipali e cittadine toscane, la lunga esperienza di autogoverno, l’autonomia di cui sino ad allora avevano goduto i comuni toscani erano precedenti che non potevano che rendere obbligatoria e necessaria una scelta ed una soluzione decentrata, articolata e autonomistica alla essenziale questione della riforma dello stato.
All’opzione autonomistica, oltre alle sopra indicate condizioni oggettive, contribuivano le stesse convinzioni politiche di Pietro Leopoldo che riteneva: “nessuno potesse avere maggiore zelo e premura della buona condotta degli affari economici delle comunità quanto gli interessati medesimi, perciò abbiamo risoluto concedere ampie facoltà ai magistrati rispettivi per dirigere e governare le faccende comunicative”[7].
Il carattere, diciamo, pedagogico politico (quasi a significare la prova generale di qualcosa di ben diverso e radicale) della riforma comunicativa lo possiamo riscontrare nelle parole del Gianni: “imprimere nei toscani i sentimenti di vero patriottismo e far conoscere l’importanza di concordare per mezzo di lumi e voti, talmente chè degli interessi del trono e di quelli della nazione si formasse un solo interesse comune, in breve tempo era difficile dopo secoli scorsi in costumi affatto opposti ed insegnamenti che allontanavano gli spiriti da ogni premura per gli oggetti pubblici. Perciò conveniva eccitare gli interessi privati a concorrere alle operazioni di interesse pubblico e dare ai toscani l’esercizio del loro voto”[8].
La riforma comunale
Sulla riforma comunale si è molto dibattuto in sede storiografica e alcuni studiosi hanno posto in discussione il suo reale contenuto autonomistico sottolineando il fatto che con essa si cercava di accentrare ed eliminare le vecchie autonomie comunali storicamente tradizionali.
Il Wandruskza, nella sua monumentale biografia di Pietro Leopoldo, effettua una precisazione pertinente: “se la riforma comunale leopoldina era una misura accentratrice, prodotto dell’assolutismo dei principi, non si può neppure negare che essa tendeva, al tempo stesso, a decentrare e rendere più autorevoli le amministrazioni comunali, e con questo non già per far rivivere puramente e semplicemente le vecchie storiche autonomie locali, ma piuttosto allo scopo di razionalizzarle per renderle atte a far fronte ai compiti sempre più estesi che si assumeva lo stato, educando, classi colte e possidenti a partecipare e collaborare alla vita politica e amministrativa”[9].
La riforma non fu facile attuazione, incontrò tenaci resistenze e necessitò di un lungo periodo di gestazione e sperimentazione prima di divenire vigente in tutto il territorio del Granducato.
Il primo atto della riforma si ha con il motuproprio del 1769 che riformò le autorità centrali dello stato mediante la soppressione delle vecchie magistrature e l’introduzione della camera delle comunità che riassunse i poteri delle precedenti istituzioni. La camera delle comunità era formata da un collegio di tre giudici con competenze legali (auditori legali) e da un sopra sindaco con l’incarico di sovraintendere alle faccende economiche.
La camera delle comunità aveva la funzione di suprema istanza di controllo e appello, poiché molte competenze esecutive furono, in campo legale ed economico, successivamente affidate e passate alle comunità locali.
La semplificazione amministrativa
Le nuove istituzioni comunali costituivano una netta semplificazione rispetto alle precedenti poiché si componevano di un’unica magistratura i cui membri, gonfalonieri e priori, dovevano essere tratti a sorte tra i maggiori proprietari terrieri, di un consiglio generale composto da possidenti sorteggiati tra i contribuenti del comune in numero proporzionale alla popolazione ed infine di alcuni “cancellieri comunali” di nomina governativa che, rispondendo alla camera delle comunità. Queste erano le reali autorità comunali tramite le quali il potere centrale si legava e condizionava quello periferico.
Competenze delle nuove amministrazioni comunali era la gestione di tutti i beni comunali, la nomina degli impieghi del comune, l’imposizione e riscossione di determinati tributi, la costruzione di strade la regimentazione delle acque e così via.
Il Gianni non sembrò essere troppo convinto della necessità e utilità di queste figure di cancellieri comunali non elettive che, secondo il suo punto di vista, esercitavano un limite reale e un condizionamento quasi “dispotico” sulla autonoma vita del comune. più volte si era lamentato presso il Granduca del fatto che le amministrazioni comunali riformate stavano avviandosi alla paralisi imbavagliate e imbrigliate, com’erano, dall’azione dei cancellieri comunali che colpivano e limitavano l’azione dei consigli generali delle comunità.
Il nuovo ordinamento comunale introdotto a titolo di sperimentazione a Volterra ed Arezzo nel 1772 fu successivamente applicato nel 1774 al contado fiorentino e a Pisa, alla provincia superiore dello Stato di Siena nel 1777, al comune di Firenze nel 1782, alla provincia inferiore di Siena e alle maremme nel 1783 ed infine nel 1786 fu disposta la sua applicazione a tutto il territorio del Granducato, escluso Livorno che godeva di ordinamenti particolari.
Il Gianni nello scritto del 1804 In memoria della costituzione del Granduca Pietro Leopoldo presenta la riforma amministrativa come il preludio e la fase preparatoria alla riforma istituzionale e costituzionale.
Alcuni nessi fra le due riforme sono evidenti e palesi relativamente al modo di elezione dal basso dei rappresentanti nelle istanze costituzionali, di cui il consiglio comunale costituiva la particella edificante.
Altrettanto evidenti sono le diversità ed una marcata mancanza di consequenzialità tra la riforma comunicativa e la costituzione. Questa è particolarmente evidente, in un primo luogo, nel procedere incerto, graduale e stentato della riforma amministrativa sino al 1786 ed in secondo luogo, come osserva il Mori nella differente soluzione al problema della composizione dei consigli. Nella riforma comunicativa no compare il criterio elettivo previsto nella costituzione, ma quello più arbitrario ed imperfetto del sorteggio.
La riforma giudiziaria
Comunque la riforma amministrativa allargò le esigue basi della partecipazione politica aprendo la possibilità anche ai non nobili di accedere alla direzione delle comunità locali.
Unificazione amministrativa ed unificazione giudiziaria andarono di pari passo non potendo prescindere l’una dall’altra nel quadro di una ricomposizione unitaria ed organica dello stato.
In campo giudiziario il particolarismo e la frammentazione erano più accentuati che in qualsiasi altra parte della vita dello stato: ogni città aveva una sua magistratura e un suo codice, molteplici tribunali e fori si sovrapponevano e si sommavano entrando in conflitti di competenze tanto che l’amministrazione della giustizia regnava nel più assoluto caos, abuso ed illegalità sottoposta all’esercizio di privilegi particolari e di casta.
La riforma dell’amministrazione giudiziaria fu fatta nello stesso spirito di gradualità e prudenza di quella amministrativa.
Le innumerevoli giurisdizioni dell’Ancien Regime furono abolite e con esse le molteplici immunità, privilegi, prerogative giurisdizionali e sostituite da una nuova gerarchia di tribunali emanati dall’autorità sovrana.
Il paese fu suddiviso in distretti giudiziari nei quali fu separata la giurisdizione penale da quella civile, unificata e snellita la procedura. Tutta la procedura penale, con il nuovo codice del 1786, fu unificata ed uniformata alle nuove disposizioni introdotte da esso.
Questa riorganizzazione generale del sistema giudiziario, uniformato alle nuove idee e tesi illuministe e beccariane, costituì un passo decisivo verso il superamento dell’Ancien Regime nel suo aspetto giuridico.
La costituzione di una forte ed unitaria autorità statale non poteva che scontrarsi e venire a collisione con quella forza che più di ogni altra interferiva e si ingeriva nell’ambito della sfera e della sovranità dello Stato: il clero.
La riforma ecclesiastica
Molto si è discusso sulla natura della politica ecclesiastica leopoldina, sulle venature accesamente giansenistiche e richeriane che essa assume più volte sotto la spinta del vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci.
Ancora una volta è il Gianni a farsi interprete delle reali necessità ed esigenze dell’assolutismo illuminato nel campo della politica ecclesiastica: eliminare l’invadenza, la presenza e il potere nella vita dello stato della clerocrazia che costituiva uno degli elementi di maggior freno al libero dispiegarsi della politica di riforme e di sviluppo in senso moderno della società toscana.
La politica giurisdizionale è dunque un aspetto fondamentale del processo di ricostruzione unitaria dello stato. Viene soppressa ogni autorità del clero, le scuole vengono pubblicizzate come pure gli ospedali, la mano morta, la inalienabilità dei possessi ecclesiastici vengono aboliti insieme ai fideocommissi; nelle mani del clero rimane solo l’amministrazione della fede per la quale lo stato si prende e si assume il compito di formare e istruire in appositi seminari e scuole i preti ritenuti, a ragione, da Pietro Leopoldo come la parte più ignorante della popolazione toscana.
Le riforme economiche
Il principio fisiocratico della libera iniziativa economica, della libertà di lavoro, di scambio e di commercio, del Laisse faire condusse all’abolizione di tutti quegli istituti e prassi statali e comunali che vincolavano e regolavano l’attività economica e commerciale; pertanto è lecito andare a ricercare il primo atto di ricostruzione unitaria dello stato nelle riforme annonarie e nel famoso provvedimento del febbraio 1776 che instaurava la libertà di commercio frumentario disponendo l’abolizione di tutti gli istituti che ne controllavano il prezzo e la distribuzione.
Unificazione economica, unificazione amministrativa e giudiziaria, laicizzazione dello stato sono le tappe e i filoni essenziali tramite i quali si riforma il vecchio stato cittadino e particolaristico avviando la Toscana a divenire uno stato moderno con una unica fonte di potere ed un unico principio ispiratore.
Nelle intenzioni di Pietro Leopoldo questa opera di ricostruzione dello stato in senso unitario doveva compiere un ulteriore passo in avanti e investire il piano dei rapporti politici e delle istituzioni di governo dello stato.
Il principe lorenese giungeva così al limite massimo delle concessioni dall’alto del paternalismo illuminato, alla soglia cioè del varo di una costituzione 10 anni prima della rivoluzione francese.
Note
[1] A. ANZILLOTTI, Decentramento amministrativo e riforma municipale in Toscana sotto Pietro Leopoldo, Firenze, 1910, p. 9.
[2] Rapporto diretto a Re Vittorio Amedeo III pubblicato da L. BULFERRETTI in l’assolutismo illuminato in Italia, Milano, 1944, pp. 426–467.
[3] Editto per la formazione degli Stati di Toscana pubblicato da R. MORI in Le riforme leopoldine nel pensiero degli economisti toscani del ’700, Firenze 1951, pp. 159–173
[4] F. VENTURI, Nota introduttiva a Francesco Maria Gianni in illuministi italiani, tomo III, Milano Napoli, 1958, pp. 984–985.
[5] Ibid., p. 984.
[6] A. WANDRUSKZA, Pietro Leopoldo un gran riformatore, Firenze, 1968.
[7] R. MORI, op. cit., p. 43-44.
[8] F.M. GIANNI, Memorie sulla costituzione del Granduca Pietro Leopoldo in Illuministi italiani, op. cit.
[9] A. WANDRUSKZA, op. cit.