Letizia Battaglia: La donna con la macchina fotografica
La fotogiornalista militante e umanista
di Susanne John
Estratto dal libro Susanne John, Giovanna Sparapani, Messe a fuoco. Storie e battaglie di 40 donne fotografe, goWare, 2022 (tutti i formati)
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Mi sono accorta con il tempo che la fotografia non mi permetteva solamente di raccontare il mondo, ma anche me stessa, la mia inquietudine, l’incanto che mi sembrava perduto.
E di cercare l’innocenza e la bellezza .
Letizia Battaglia (Palermo, 1935 -2022)
Togliete il coperchio
«Ragazzi ve lo dico subito: io fumo…». Era il 2019 quando Letizia Battaglia a Vinci, in Toscana, salutò così i partecipanti a un workshop fotografico da lei diretto insieme al collaboratore e amico fotografo Roberto Timperi.
Ottantaquattro anni, splendidi capelli rosa, sguardo diretto e sorridente, parlata autorevole senza peli sulla lingua, ma anche amichevole e divertente, Letizia Battaglia catturò fin dal primo istante l’attenzione e il cuore dei fotografi accorsi da tutta Italia per poter trascorrere tre giorni insieme a lei, senza dubbio una delle più importanti esponenti della fotografia umanista italiana, un vero mito.
Posò sul tavolo la sua macchina fotografica, guardò i partecipanti chiedendo severa: «Quanti di voi hanno l’obiettivo tappato?». Quasi tutti. «Togliete subito questi coperchi. Dovete essere sempre pronti a scattare. E dovete sempre fotografare soltanto per voi stessi.»
Il lato oscuro della società italiana
Per decenni Letizia Battaglia immortalò con scatti crudi e un bianco e nero drammatico un lato oscuro della società italiana: le carneficine mafiose di cui ha documentato la violenza, la brutalità, il sangue e l’immenso dolore da esse causato. Oggi, molte di queste fotografie sono entrate per sempre nell’immaginario collettivo.
Nata nel 1935 a Palermo, rimase per tutta la vita molto legata alla sua città. A dieci anni ebbe un incontro traumatico con un esibizionista: si confidò coi genitori che da quel momento per proteggerla le tolsero qualsiasi libertà di movimento, creandole profondo disagio. Pensando che andando via di casa avrebbe riconquistato la sua libertà, a soli sedici anni Letizia volle sposarsi, decisione che risultò sbagliata.
Nella sua autobiografia Mi prendo il mondo ovunque sia, racconta: «dopo soli tre anni, quando ne avevo diciannove, non stimavo più mio marito e quella condizione di moglie e madre mi cominciava ad andare stretta, mi pareva di soffocare e mi sentivo di nuovo in prigione, come con mio padre.»
Il marito non comprese le problematiche della moglie e fu irremovibile: Letizia doveva restare a casa per occuparsi della famiglia. Nel 1959, quando aveva appena compiuto ventiquattro anni, era già madre di tre figlie; disperata e profondamente infelice, per amore delle figlie subì questa situazione per altri dieci anni durante i quali si affidò anche all’esperienza della psicoanalisi.
La svolta esistenziale
Una scoperta che le avrebbe cambiato la vita regalandole quel coraggio e quell’energia necessari per separarsi dal marito nel 1969. Spiegò lei stessa:
«la libertà è stata per me una scelta di vita e una conquista, mi ha permesso di non avere dipendenze, di costruire un nucleo potente dentro di me, di appartenere solo a me stessa».
Lasciò il marito senza chiedere gli alimenti e fu costretta a trovare urgentemente un lavoro per sostenere se stessa e le tre figlie, lavorando per un po’ con la vendita di prodotti sanitari e cucinando per altre donne.
«Poi mi ricordai di quel sogno che avevo da bambina di fare la scrittrice, e mi presentai a L’Ora.»
Per il quotidiano palermitano scattò la sua prima foto per caso, quando, mancando in redazione i fotografi, dovette uscire un giorno per un servizio importante che realizzò da sola con una vecchia Leica prestatale da un fotografo che le aveva preimpostato esposizione e diaframma, perché lei di fotografia non sapeva ancora niente. Nello stesso anno una sua cara amica le regalò una piccola Minolta «che ha cambiato il corso della mia vita». Nel 1969 cominciò così la sua carriera di fotoreporter che l’avrebbe resa famosa nel mondo.
La svolta professionale
Letizia Battaglia si dedicò allo studio della fotografia da autodidatta:
«quando cominciai a fotografare mi abbonai alla rivista svizzera Camera, che in quegli anni era un punto di riferimento internazionale. Sfogliavo quelle pagine con avidità di conoscere, compravo cataloghi di fotografia, guardavo mostre, leggevo, leggevo tanto, guardavo film, visitavo musei».
Nel 1971 decise di trasferirsi a Milano con le figlie, per ricongiungersi con il suo compagno di allora, il fotografo Santi Caleca, e per trovare nuove opportunità di lavoro. Contattò diverse redazioni per proporre degli articoli, ma i giornali le chiesero anche delle fotografie.
Gli anni milanesi non permisero alla Battaglia di trovare una vera stabilità economica, ma la aiutarono a prendere confidenza con il mezzo fotografico. Alla fine riuscì a trovare lavoro come giornalista freelance e a vendere degli scatti anche a prestigiosi quotidiani come il Corriere della Sera e Il Giorno. Sempre a Milano, nel 1974 immortalò nei suoi scatti personaggi a lei cari come Franca Rame e Pier Paolo Pasolini.
La fotografa delle mattanze di mafia
Nello stesso anno arrivò da Palermo una proposta che Letizia Battaglia non poté rifiutare: il direttore di L’Ora, Vittorio Nisticò, le propose di dirigere il servizio fotografico del giornale. Letizia si recò a Palermo per ricominciare a lavorare per la testata fino al 1992, quando la stessa fu costretta a chiudere per ristrettezze economiche.
Un lavoro duro senza orari fissi e fine settimana liberi, sempre a correre per la città a documentare qualsiasi cosa. Durante quegli anni Letizia realizzò molti dei suoi servizi più famosi e scattò un suo diario personale di terrificanti massacri mafiosi e di molte altre testimonianze degli anni di piombo. La macchina fotografica le permise di realizzarsi, divenendo una potente arma con cui combattere orrori e ingiustizie, unica donna fra i colleghi fotografi ad affrontare le mattanze dei Corleonesi.
Nel 1975 si separò dal compagno Caleca, che tornò a Milano. Un anno più tardi, a Mirano, incontrò il fotografo Franco Zecchin, con cui avrebbe condiviso vent’anni della sua vita privata e lavorativa.
If…
Sempre a Palermo, nel 1974, creò insieme a Franco Zecchin il Laboratorio d’If. Raccontò la stessa Battaglia in un’intervista a Eleonora Lombardo per il quotidiano La Repubblica: «facemmo l’Associazione Laboratorio If, che stava per “informazione fotografica”, ma anche come il “se” inglese e soprattutto era un richiamo al film di Lindsay Anderson sulla ribellione alla violenza» (If è su Prime video a noleggio).
Letizia Battaglia si distinse dai colleghi per il suo modo di rappresentare le scene dei delitti dove fotografò le vittime spesso da molto vicino utilizzando un obiettivo grandangolare. Fu il suo modo di relazionarsi con i morti: esseri umani ammazzati brutalmente, cadaveri vittime di una violenza inaudita con cui dovette confrontarsi per anni e i cui carnefici non furono mai individuati.
La brutalità dell’agire mafioso avrebbe trovato negli anni testimonianza anche nei ritratti di molte donne: mogli che piangono il marito massacrato o che il dolore sembra abbia trasformate in sculture di pietra, madri che stringono in mano la fotografia del figlio ucciso.
Donne delle quali Letizia colse la dignità e il bisogno di andare avanti per diventare ciò che la sociologa Renata Siebert definisce “il dolore che si libera dal tradizionale pudore e diventa domanda etica e questione politica.”
Letizia regalò inoltre l’onore della memoria a molti esponenti della giustizia che avrebbero pagato il loro coraggio con la vita.
La militanza
Ma la rabbia e la voglia di giustizia della Battaglia andarono oltre: immortalò i volti di mafiosi e criminali ed ebbe il coraggio, insieme a pochi altri, di esporre quegli scatti in piazza mettendo a rischio la propria incolumità e, pur ricevendo minacce di morte, si rifiutò di allontanarsi da Palermo o di vivere sotto scorta. Niente e nessuno le avrebbe mai più tolto la sua libertà.
La fotografia che l’avrebbe resa famosa anche in Italia — perché la sua patria la scoprì solo anni dopo, quando all’estero aveva già ricevuto importanti riconoscimenti — la scattò per caso quando nel giugno 1979, all’uscita dall’Hotel Zagarella, immortalò il mafioso Nino Salvo insieme a Giulio Andreotti. Uno scatto che il giornale non avrebbe pubblicato, ma che sarebbe stato acquisito anni più tardi per il processo che coinvolse lo stesso Andreotti.
Letizia Battaglia ai partecipanti al workshop fotografico di Vinci ha raccontato: «un giorno suonano alla porta di casa. Mi trovo davanti degli ufficiali della Direzione scientifica antimafia con un mandato di perquisizione. Vogliono vedere il mio archivio e tutti i negativi delle foto che ho scattato quella sera. Gli faccio vedere dove trovarli. Poi mentre mi stavano portando via i negativi gli ho detto “capiamoci, io, questi negativi li rivoglio”». Ma due dei suoi negativi non le furono mai restituiti. Quando nel 1993 la foto di Giulio Andreotti con Nino Salvo divenne un vero e proprio scoop, la Battaglia era piuttosto preoccupata per la sua reputazione di fotografa: «era una foto brutta, mossa, orribile, una delle più brutteche abbia mai fatto».
Oltre la cronaca nera
Il 6 gennaio 1980 è la prima fotoreporter ad arrivare sul luogo dell’omicidio di Piersanti Mattarella; ma quando furono uccisi Falcone prima e Borsellino poi, Letizia era arrivata oltre il limite di sopportabilità. Non scattò nessuna fotografia: troppo dolore, troppo strazio, troppo tutto.
La sua opera fotografica fu molto di più di una cronaca nera. Con i suoi scatti ha raccontato anche la sua Palermo, città dai mille volti, fatta di miseria e quartieri degradati, ma anche di sontuosa bellezza e pulsante di vita culturale. Le sue foto fatte ai bambini non corrispondono agli stereotipi dell’infanzia felice: fotografie emozionanti come la Ragazza con il pallone nel quartiere palermitano della Cala e Il gioco del killer fecero il giro del mondo.
Letizia ha sempre amato fotografare soprattutto bambine: «in tutte le bambine che ho fotografato ci sono io: è come se ogni volta dall’obiettivo, mentre scatto, uscisse fuori la bambina che ero e che ritrova se stessa e il suo mondo fantastico perduto».
La fotografia dell’innocenza
Letizia ha sempre amato fotografare soprattutto bambine: «in tutte le bambine che ho fotografato ci sono io: è come se ogni volta dall’obiettivo, mentre scatto, uscisse fuori la bambina che ero e che ritrova se stessa e il suo mondo fantastico perduto».
Attraverso di loro Letizia ci racconta realtà sociali difficili, disarmante innocenza e speranza, le sue bambine non ridono mai. Trova le emozioni che cerca nei volti minuti che guardano l’obiettivo con occhi diffidenti e pieni di domande, occhi intelligenti nei quali si confondono tristezza e sfida, ritratti che non possono lasciare indifferente l’osservatore. Come quelli delle sue donne: dopo anni di sangue e carneficine, Letizia Battaglia sente il bisogno di indagare l’anima femminile attraverso pose e corpi reali, lontani dagli stereotipi dell’occhio maschile: un’altra battaglia, un’altra sfida per la leonessa dell’obiettivo che ha sempre portato avanti anche un suo intenso impegno sociale e politico.
Per trent’anni ha documentato la sua Sicilia, denunciato povertà, clientelismi, abusi di potere e la brutale realtà mafiosa, ma ha lottato anche per il diritto delle donne e dei carcerati e per questioni legate alla protezione dell’ambiente.
L’impegno istituzionale
Dalla fine degli anni Ottanta fino a metà degli anni Novanta la Battaglia fu consigliere comunale con i Verdi e assessore comunale a Palermo con la giunta Orlando. Nel 1991 fu deputato all’Assemblea regionale siciliana con il partito La Rete. Ma stanca di lottare all’interno dei meccanismi politici, nel 1996 non si ricandidò.
Nel 1985 a New York, ex aequo con l’americana Donna Ferrato, è stata la prima donna europea a ricevere l’importante premio Eugène Smith. E da quel momento in poi arrivarono richieste da molti paesi che le proponevano di esporre le sue foto in mostre personali, ma nessuna dall’Italia. Racconta Letizia: «in Italia, almeno fino a dieci anni fa, se mi chiamavano, era al massimo per esporre qualche fotografia in una collettiva.»
Il riconoscimento internazionale
Nel 1999 arrivò un altro importante omaggio: il premio Mother Johnson Achievement for Life per la sua opera fotografica complessiva. Solo negli ultimi anni Letizia Battaglia è riuscita a ottenere anche in Italia la meritata attenzione con l’allestimento di varie esposizioni monografiche.
Nel 2017, a 82 anni, ha inaugurato a Palermo in qualità di direttrice il Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, metà museo, metà scuola di fotografia e galleria che coinvolge anche altri fotografi della città. Risponde la stessa Battaglia in un’intervista a Eleonora Lombardo per La Repubblica alle domande sul progetto del nuovo spazio: «io voglio vedere crescere gli altri, voglio scoprire talenti e coltivarli […]. Che diventi un’agorà, un posto per far nascere e crescere delle correnti di pensiero […]. E poi vorrei che tutte le realtà fotografiche della città convergessero in questo posto. Vorrei istituire delle borse di studio per mandare i ragazzi palermitani nelle scuole di Londra, Liverpool, New York e viceversa».
L’ultima esplorazione
Negli ultimi tempi seguì un altro progetto da lei intensamente voluto dal titolo Palermo nudo, dedicato alle donne che lei definisce “vere”: non le piacevano le labbra gonfie, i visi rifatti, il trucco pesante, le pose sexy, la pelle coperta da tatuaggi.
Un’altra avventura fotografica intensa di un’eccelsa fotografa, artista mai banale, grande maestra e donna speciale che per tutta la vita è sempre rimasta fedele a se stessa.
Nella sua lunga carriera ha saputo testimoniare con la sua fotografia piena di denuncia, empatia e umanità l’amore per la sua terra, con le sue ferite e il suo profondo desiderio di giustizia e bellezza.
«Avere un’identità chiara: questo fa la differenza. Non è lo strumento che crea l’opera d’arte, ma chi lo muove, è come per la scrittura, con la stessa penna si possono scrivere delle bellissime poesie oppure la lista della spesa.»
Da: Susanne John, Giovanna Sparapani, Messe a fuoco. Storie e battaglie di 40 donne fotografe, goWare, 2022, pp. 47–55