Lenin: l’imperialismo fase suprema del capitalismo (1917)

Mario Mancini
9 min readMar 26, 2020

Vai agli altri capitoli del libro “Documenti storici”

Lenin scrisse l’opera che reca questo titolo a Berna e a Zurigo, nella prima metà del 1916; il 2 luglio ne spedì il testo a Pietrogrado, dove venne stampato nell’aprile del 1917. Rifacendosi alle analisi compiute dall’inglese J. A. Hobson, Imperialism (1902) e dall’austriaco Rudolph Hilferding, Finanz-Kapital [Il capitale finanziario] (1910), Lenin sostiene che dopo il 1870 si è verificato un processo di crescente subordinazione del capitale industriale al capitale finanziario (bancario), che è riuscito a portare sotto il proprio controllo interi rami produttivi, nel cui ambito è dunque scomparsa la libera concorrenza teorizzata dagli economisti liberali, per far posto a posizioni di monopolio.

D’altra parte, il contemporaneo rapidissimo accrescimento della accumulazione del capitale e della massa dei beni prodotti non ha potuto trovare sbocco sufficiente all’interno dei singoli mercati nazionali, a causa del basso livello dei salari e quindi dei consumi a cui le masse sono costrette nel regime capitalistico.

I paesi economicamente più avanzati, e dove quindi è più sviluppato il capitale finanziario di tipo monopolistico, si sono perciò lanciati alla conquista di nuovi mercati all’estero, e specialmente nei paesi extraeuropei per trovarvi nuove possibilità di investimento dei propri capitali e della propria produzione, e insieme fornituradi materie prime a basso prezzo.

Da ciò la corsa all’accaparramento dei mercati coloniali (imperialismo): che, condotta dapprima sulla base di una ripartizione amichevole tra i grandi gruppi del capitale finanziario internazionale, deve poi condurre inevitabilmente allo scontro e all’urto violento tra i vari imperialismi e quindi alla guerra: e appunto sotto questa luce andava interpretato, secondo Lenin, il primo conflitto mondiale, provocato dalle rivalità tra potenze tutte ugualmente imperialistiche.

Da tutto questo deriverà, per la strategia dei partiti comunisti nel mondo, dopo la rivoluzione russa del 1917, una conseguenza assai importante cioè il collegamento della lotta del proletariato dei paesi sfruttati dall’imperialismo con quella del proletariato dei paesi più avanzati (che, secondo Lenin, solo nei suoi strati più elevati — aristocrazia operaia — ha beneficiato dei guadagni realizzati dal capitalismo imperialistico).

L’originale russo è da vedere nelle Opere complete a cura dell’Istituto Marx-Engels-Lenin, vol. XIX, 3 ed., Mosca, 1946, pp. 67-173. Le pagine che seguono sono tratte dal capitolo vii (L’imperialismo, particolare stadio del capitalismo), di cui si dà qui la traduzione italiana pubblicata in Lenin, Opere scelte, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, pp. 675-683, più accessibile però nella edizione di Lenin, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 637-647. Cfr. G. Sabine, Storia delle dottrine politiche, Milano, Comunità, 1953, pp. 647-650; R. N. Carew Hunt, Teoria e pratica del comunismo, trad. it., Roma, Opere Nuove, 1956, pp. 260–270.

L’imperialismo, particolare stadio del capitalismo

Dobbiamo ormai tentare di sintetizzare quanto sin qui abbiamo detto intorno all’imperialismo e di concludere. L’imperialismo sorse dall’evoluzione e in diretta continuazione delle qualità fondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato ed assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso ad un più elevato ordinamento economico e sociale. In questo processo vi è di fondamentale, nei rapporti economici, la sostituzione dei monopoli capitalistici alla libera concorrenza.

La libera concorrenza è l’elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale; il monopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Ma fu proprio quest’ultima che cominciò, sotto i nostri occhi, a trasformarsi in monopolio, creando la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancor più grandi, spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale che da essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, i sindacati, i trust, fusi con il capitale di un piccolo gruppo di una decina di banche che manovrano miliardi.

Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma esistono con essa e al disopra di essa, originando così una serie di aspre e violente contraddizioni, attriti e conflitti. Il sistema dei monopoli è il passaggio dal capitalismo ad un ordinamento superiore.

Se si volesse dare la più concisa definizione possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbe l’essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche, fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e d’altro lato la ripartizione del mondo significa passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancora dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita.

Ma tutte le definizioni troppo concise sono bensì comode, come quelle che compendiano l’essenziale del fenomeno in questione, ma si dimostrano tuttavia insufficienti, quando da esse debbono dedursi i tratti più essenziali del fenomeno da definire.

Quindi noi — senza tuttavia dimenticare il valore convenzionale e relativo di tutte le definizioni, che non possono mai abbracciare i molteplici rapporti, in ogni senso, del fenomeno in pieno sviluppo — dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè:

1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria;

3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;

4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;

5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.

L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intiera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.

Vedremo in seguito come dell’imperialismo possa e debba darsi una diversa definizione, quando non si considerino soltanto i concetti fondamentali puramente economici (ai quali si limita l’anzi-riferita definizione), ma si tenga conto anche della posizione storica che questo stadio del capitalismo occupa rispetto al capitalismo in generale, oppure del rapporto che corre tra l’imperialismo e le due tendenze fondamentali del movimento operaio. Occorre subito rilevare come l’imperialismo, concepito in tal senso, rappresenti un particolare stadio di sviluppo del capitalismo.

Per dare al lettore una rappresentazione dell’imperialismo più saldamente fondata, abbiamo appositamente cercato di citare quanto più giudizi si potevano di economisti borghesi, che si vedono costretti a riconoscere i fatti ineccepibili della nuovissima economia capitalista. Allo stesso fine abbiamo prodotto circostanziati dati statistici, che mostrano fino a qual punto sia accresciuto il capitale bancario, ecc. e in che cosa si sia manifestato il trapasso dalla quantità alla qualità, dal capitalismo altamente sviluppato all’imperialismo. Senza dubbio, tanto nella natura quanto nella società, ogni limite è convenzionale e mobile, cosicché non avrebbe senso discutere, per esempio, sulla questione dell’anno e del decennio in cui l’imperialismo si sia “definitivamente” costituito.

Richard Calwer, nella sua breve «Introduzione all’economia mondiale», ha fatto il tentativo di raccogliere i più importanti dati, puramente economici, che ci consentono una idea concreta dei rapporti reciproci in seno all’economia mondiale sul limitare del XX secolo. Egli suddivide il mondo in cinque “principali sfere economiche”: 1) l’Europa centrale (tutta l’Europa all’infuori della Russia e dell’Inghilterra); 2) la britannica; 3) la russa; 4) l’orientale- asiatica; 5) l’America, includendo le colonie nelle “sfere” degli Stati cui esse appartengono, e “lasciando in disparte” alcuni pochi paesi, per esempio la Persia, l’Afghanistan, l’Arabia in Asia, il Marocco, l’Abissinia in Africa, ecc.

Ecco, in forma riassuntiva, i dati economici prodotti dal Calwer sulle dette sfere:

Le cifre fra parentesi si riferiscono alle colonie.

Abbiamo qui tre sfere di elevato sviluppo capitalistico (forte sviluppo tanto dei trasporti quanto del commercio e dell’industria); quella dell’Europa centrale, la britannica e l’americana; ed in esse tre Stati che dominano il mondo: la Germania, l’Inghilterra e gli Stati Uniti.

La gara imperialista e la lotta tra di essi è inasprita in modo particolare dal fatto che la Germania possiede un ristretto territorio e poche colonie; la “Media Europa” (Mitteleuropa) appartiene ancora all’avvenire e sta nascendo in mezzo a lotte disperate. Per il momento, la caratteristica di tutta l’Europa è il frazionamento politico. Invece, tanto nel territorio britannico, quanto nell’americano è assai forte la concentrazione politica; ma v’è enorme sproporzione tra le estese colonie del territorio britannico e le insignificanti dell’americano. Frattanto, nelle colonie il capitalismo è appena sul nascere. La lotta per l’America meridionale diventa sempre più aspra.

In due sfere è debole lo sviluppo capitalista, la russa e quella orientale-asiatica. Nella prima si ha scarsa densità di popolazione; nella seconda densità altissima; nella prima è grande la concentrazione politica, che manca interamente nella seconda. Si incomincia appena la spartizione della Cina, che diventa oggetto di lotta sempre più aspra tra il Giappone, gli Stati Uniti, ecc.

Il capitale finanziario ed i trust, acuiscono, non attenuano le differenze nelle velocità di sviluppo dei diversi elementi dell’economia mondiale. Ma non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza? Nella statistica ferroviaria troviamo dei dati eccezionalmente precisi indicanti la diversa rapidità di sviluppo del capitalismo e del capitale finanziario nell’economia mondiale. Negli ultimi decenni di sviluppo imperialista la lunghezza delle linee ferroviarie si modificò nel modo seguente:

Come si vede, lo sviluppo della rete ferroviaria fu più rapido nelle colonie e negli Stati indipendenti (e semi-indipendenti) d’Asia e d’America. È noto che ivi domina illimitatamente il capitale finanziario dei quattro o cinque maggiori Stati capitalistici. Duecentomila chilometri di nuove ferrovie nelle colonie e negli altri paesi d’Asia e d’America vogliono dire un nuovo investimento di oltre 40 miliardi di marchi impiegati in guisa particolarmente vantaggiosa, con speciali garanzie di reddito, di proficue ordinazioni alle acciaierie, ecc.

Il più rapido sviluppo capitalistico si verifica nelle colonie e nei paesi transoceanici. Tra essi sorgono nuove potenze imperialiste (il Giappone). La lotta degli imperialismi mondiali diventa più aspra. Le imprese coloniali e transoceaniche particolarmente redditizie pagano sempre maggiori tributi al capitale finanziario. Nella ripartizione del “bottino” la parte di gran lunga maggiore spetta a paesi che non sempre hanno i primi posti nella rapidità dello sviluppo delle forze produttive. La lunghezza delle linee ferroviarie delle maggiori potenze, comprese le loro colonie, ammonta in migliaia di km:

Circa l’80% della lunghezza totale delle linee ferroviarie è concentrato dunque nelle cinque maggiori potenze. Ma assai più considerevole è la concentrazione della proprietà di queste ferrovie, la concentrazione del capitale finanziario, giacché per esempio gran parte delle azioni e obbligazioni delle ferrovie americane, russe ed altre, appartiene ai milionari inglesi e francesi.

L’Inghilterra, in grazia delle sue colonie, ha aumentato la “sua” rete ferroviaria di 100.000 km, cioè quattro volte più della Germania. E tuttavia, notoriamente, in questo stesso periodo di tempo, lo sviluppo delle forze produttive, e specialmente dell’industria mineraria e siderurgica, fu assai più rapido in Germania che in Inghilterra, a tacere della Francia e della Russia. Nel 1892, la Germania produceva 4,9 milioni di tonnellate di ghisa, l’Inghilterra 6,8; ma già nel 1912 rispettivamente 17,6 contro 9,0: vale a dire un poderoso sopravvento della Germania! Si domanda: quale altro mezzo esisteva, in regime capitalista, per eliminare la sproporzione tra lo sviluppo delle forze produttive e l’accumulazione di capitale da un lato e dall’altro la ripartizione delle colonie e “sfere d’influenza” del capitale finanziario all’infuori della guerra?

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.