Le serie Disney+ tra Marvel e Star Wars

Pensieri di macchine

Mario Mancini
9 min readAug 24, 2021

di Sergio Sozzo (Sentieri Selvaggi)

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Sotto la cupola Disney convivono oramai, tra gli altri, proprio i brand Star Wars e Marvel. Da “The Mandalorian” a “The Falcon and the Winter Soldier” passando per “Loki” e l’imprescindibile “WandaVision”, le serie Disney+ stanno ridefinendo i confini di identità e rappresentazione nei codici fluidi del contemporaneo.

Non so che viso avesse, neppure come si chiamava

Ecco com’è la vita qui. Dunque quando voi sentite il tremore nell’aria dovete stare molto attenti. Qui noi viviamo come ubriachi e non si sa mai cosa può capitarvi. E non attraversate tanto la strada, mi raccomando. Perché da queste parti tutti rispettano solo le macchine, e hanno solo pensieri di macchine. E ritengono che, se qualcosa non è una macchina, quella sia una bassezza della vita.
Gianni Celati

“Nessun essere vivente mi ha visto in viso da quando ho giurato fedeltà al Credo”, dice il Mandaloriano ferito gravemente, puntando la sua arma verso IG11, il “droide balia” che per soccorrerlo ha però necessità di sfilargli l’elmo che la casta di killer del pianeta Mandalore ha l’obbligo di non togliersi mai dal volto. “Io non sono un essere vivente”, risponde IG11, alzando la visiera del casco dell’uomo.

Siamo all’episodio finale della prima stagione di The Mandalorian, la serie Disney+ creata da Jon Favreau e ambientata nell’universo di Star Wars, circa cinque anni dopo Il ritorno dello Jedi.

Il cruccio morale del Mandaloriano è un istante centrale non solo per la poetica della piattaforma streaming di casa Disney, ma anche per tutta la parabola di Jon Favreau, il regista responsabile del primo passo del Marvel Cinematic Universe nel 2008 con Iron Man.

Tony Stark e Din Djarin condividono la pesante armatura che ne cela le fattezze, ma il volto del Mando potrà essere rivelato solo a un essere “che non è mai stato davvero vivo” (come noterà proprio IG11 prima di innescare la propria autodistruzione). Mentre il proclama di Stark, “io sono Iron Man”, in chiusura della sua prima avventura su grande schermo, è la rivelazione che pone di fatto fine all’epoca degli alter-ego all’interno delle storie super-eroistiche.

La questione identitaria rinnova la propria urgenza nel momento in cui sotto il cappello Disney convivono oramai, tra gli altri, proprio i brand Star Wars e Marvel: non a caso, è ancora una volta Jon Favreau a porre da queste parti le fondamenta con quello che è con tutta probabilità il primo vero film del 21esimo secolo, la sua versione fotorealista de Il Re Leone che porta la problematizzazione del concetto di rappresentazione e post-verità delle immagini a un nuovo livello.

Tutte queste inquietudini si agitano intorno a ogni fotogramma di WandaVision, la miniserie incentrata sulle vicende di Wanda Maximoff e Visione, due degli Avengers “di seconda linea”, creata per Disney+ da Jacqueline ‘Jac’ Schaeffer (un altro nome proveniente dalla comicità, come Favreau e come il Taika Waititi che in Mandalorian ha diretto proprio il season finale oltre che dare la voce a IG11: sarà perché la lingua della commedia è storicamente quella che da sempre ha affrontato di petto le idiosincrasie e le crisi d’identità? — pensiamo anche, in altri campi, alla traiettoria di un nome come Jordan Peele…).

Se la parabola di Wanda/ Scarlet Witch arriva ad affrontare l’immaginario esoterico stregonesco del folk horror di questa generazione, tra rimandi ai roghi di Salem e una via all’accettazione del lutto che passa addirittura dalle teorie della Chaos Magick di Austin Osman Spare, nume tutelare dell’occultismo post-Crowley, è però in verità la natura ibrida del personaggio di Visione l’elemento che rilancia definitivamente WandaVision al di là del gioco metatestuale e dell’ammiccamento destrutturalista.

“The Falcon and the Winter Soldier” miniserie televisiva Marvel del
2021 creata da Malcolm Spellman

Gli eroi son tutti giovani e belli

Visione è un “sintezoide” nato dall’innesto di J.A.R.V.I.S., l’intelligenza artificiale che fa da assistente vocale a Tony Stark, nel corpo di un androide: “sono stato una voce senza corpo, un corpo ma non umano, e ora una memoria diventata reale — chissà cosa potrei essere la prossima volta?”, si chiede nell’ultimo episodio della serie che lo vede protagonista insieme all’amata Wanda.

Proprio come IG11 che è l’unico a cui viene permesso di scoprire il volto di Mando in quanto occhio-non-umano, Visione è un’entità di circuiti e pulegge intorno alla quale vengono ricreati la vita e l’amore: il vero plot twist di WandaVision non è nei mille ganci con l’imminente Fase 4 della narrazione condivisa, quanto nella scoperta che quella che avevamo sospettato dall’inizio essere una resurrezione del corpo esanime dell’androide, sia in verità una nuova creazione, una replica senza bisogno dell’apporto della Gemma della Mente (è un discorso centrale anche in tutta la questione delle Varianti introdotta nel successivo Loki: nel pilot, al dio dell’inganno viene chiesto di dimostrare di non essere un robot, passando sotto una sorta di portale-captcha).

Siamo in territori carpenteriani: la cittadina di WestView, prigioniera della cupola invisibile sotto la quale Wanda ha trasformato la realtà in una sitcom, come la mappa dell’Impero in scala 11 del racconto di Borges (“nel momento in cui realizza la mappa, l’impero diventa irrappresentabile”, direbbe al riguardo Umberto Eco), non è forse così lontana dal raggio di antimateria che “zombifica” ogni cosa nel suo campo d’azione, ne Il signore del Male (d’altronde anche Wanda e Visione fanno sogni abitati da voci dal futuro, quelle dello S.W.O.R.D. che cercano di penetrare la cupola…).

Wanda come il romanziere Sutter Cane, padrone e creatore della Hobb’s End de Il seme della follia? Queste profezie hanno assunto oggi la forma nuova del flusso degli algoritmi, la bolla definitiva dentro la quale le fattezze umane possono cangiare ancor più velocemente di uno snap di Thanos, e dove il fratello della donna, Pietro Maximoff/Quicksilver, può presentarsi con sembianze completamente nuove, grazie al vecchio trucco del recasting tipico delle soap.

Non è allora un caso se WandaVision e The Mandalorian spartiscono dentro Disney+ la natura sferica della propria messinscena, la tecnica scenografica del 360 Led Wall varata proprio dalla serie di Favreau è forse una rappresentazione “reale” dei confini sintetici ma “responsive” della WestView mentale della strega.

La teoria della vita dentro una gigantesca simulazione, più o meno opera di una macchina senziente, è d’altronde una delle ipotesi del complotto più gettonate nell’infosfera postMatrix: dentro queste mega-simulazioni la procreazione umana e la proliferazione della specie sono sempre in mano a oscure macchinazioni (ricordate le piantagioni di feti proprio nel film delle Wachowski?), così come i figli gemelli di Wanda e Visione nascono e crescono “per magia”, senza che tra i due, ci viene fatto capire, sia possibile alcuna intimità (secondo i seguaci della cospirazione, da qualche tempo alcuni “errori nella simulazione” ne stanno svelando le fondamenta — l’elezione di Trump, la pasticciata vittoria di Moonlight agli Oscar: sono quelli che nella terza serie Marvel/Disney+, appunto la straordinaria Loki, vengono chiamati “eventi Nexus”, piccole apocalissi ritornanti che creano nuove ramificazioni della Sacra Linea Temporale, e per questo perfette come rifugio, nascondiglio nel caos della fine imminente e sempre rinnovabile).

Anche in questo, WandaVision recupera una delle regole-chiave dell’intero Marvel Cinematic Universe, ovvero l’asessualità neutrale di tutti i suoi protagonisti, l’impossibilità di questi corpi statuari a veicolare un pur minimo desiderio fisico o una tensione verso un contatto “carnale” — tolta, probabilmente, la Vedova di Scarlett Johansson, l’unica a cui è permessa una certa procacità (il suo venturo film standalone parte da uno script della stessa Jac Schaeffer che ha fatto innamorare di Elisabeth Olsen/Wanda l’intero pubblico della miniserie).

Compresa una liaison dangereuse con Hulk, da puro archetipo Bella-e-la-Bestia, proprio nello stesso film da cui si origina l’amore tra Visione e la Strega Scarlatta, Avengers-Age of Ultron di Joss Whedon, davvero il più smaccatamente romantico, almeno fino a WandaVision, tra tutti i capitoli del MCU. Qualsiasi ambiguità è bandita dalla rappresentazione di queste figure, e infatti a WestView Visione può tranquillamente “indossare” senza fatica alcuna, come un Iron Man o un Mandaloriano rovesciati, il proprio volto umano per recarsi al lavoro o per frequentare la società, vestendolo come una sorta di deep-fake dell’attore Paul Bettany, che era già stato la voce di J.A.R.V.I.S. prima di incarnarsi anch’egli nell’eroe sintetico.

Con forza cieca di baleno

Siamo nel mondo post-blip, giusto? Il che significa che tutto è cambiato”, ha dichiarato al sito Comicbook Kari Skogland, la regista di The Falcon and the Winter Soldier, la serie che ha fatto seguito a WandaVision su Disney+.

“La Terra prima del blip era una cosa, ma dopo che è sparita metà della popolazione, il mondo è cambiato, è stato riformato, e le genti di Paesi in conflitto sono diventate amiche, hanno dovuto iniziare a fare affidamento gli uni sugli altri.

E forse la situazione era addirittura migliorata perché le persone, un po’ come accaduto a noi con la pandemia, hanno dovuto imparare a cooperare”.

Skogland si riferisce all’evento che chiude Avengers: Infinty War, il film di Anthony e Joe Russo che è forse ad oggi ancora l’approdo più avanzato dell’intera produzione Marvel, e che ha avuto per questa generazione lo stesso impatto del finale de L’impero colpisce ancora per la classe 1980.

Thanos, il “cattivo”, è in realtà il vero protagonista del film, e i ripetuti scontri con gli Avengers sono le tappe da superare per raggiungere il suo scopo, ovvero raccogliere tutte le Gemme dell’Infinito per decimare la vita su tutti i pianeti abitati, e salvare così i mondi dalla sovrappopolazione.

Nonostante il successivo Endgame abbia rimesso le cose a posto, il ritorno degli esseri umani ha portato con sé una serie di problematiche, riassunte nel prologo di Spiderman: Far from Home di Jon Watts — i “ritornati” sono più giovani di cinque anni, e il mondo nel frattempo è andato avanti: “c’è stato il blip, gli scomparsi sono ricomparsi, e un gran numero di persone ha cercato di tornare al mondo com’era prima. Si tratta di una cosa positiva?”, si chiede sempre Kari Skogland.

Nel suo The Falcon and the Winter Soldier si mostra una società che cerca una maniera per affrontare il problema dei riapparsi istituendo dei centri a metà tra il supporto psicologico e il contenimento coercitivo, ad opera del cosiddetto Comitato di Rimpatrio Globale che va lavorando ad un ultra-discriminatorio Patch Act. Ma è ancora WandaVision il testo che chiarisce in maniera ufficiale quanto gli effetti del blip fungeranno da punto di ripristino per tutte le ramificazioni dell’intera Fase 4: se fino ad ora l’universo era una rete distribuita accessibile da qualsiasi punto “d’entrata”, e da lì poi attraversabile e riordinabile in maniera combinatoria (tutto Endgame è appunto un monumento a questa modalità di storytelling), ora il blip riallinea queste narrazioni intorno a un attimo che vale intere esistenze.

Tutta la questione della velocità sfalsata con cui progrediscono gli eventi, le epoche e i personaggi dentro WandaVision (le crescite istantanee dei gemelli) non è solo l’ennesimo omaggio alla temporalità disordinata e casuale delle messe in onda televisive delle sit com che hanno formato l’immaginario della giovane sokoviana Wanda e dato vita ai riferimenti iconografici di WestView, ma ancora una volta una riflessione sulle velocità differenti a cui corrono le informazioni, i dati, le immagini in movimento e le “copie” (i due Visione a confronto sul mito della nave di Teseo nell’ultimo episodio) dentro la cupola algoritmica della fruizione piattaformizzata.

Come il John Walker/Archiloco (vada in malora lo scudo! ne comprerò uno migliore) spuntato all’improvviso tra Falcon e il Soldato d’Inverno, il reale protagonista nascosto di WandaVision si rivela così essere Monica Rambeau, l’agente S.W.O.R.D. che è una delle vittime del blip (per colpa del quale non riesce a dare l’ultimo saluto alla madre morente…), e che riapparsa cinque anni dopo è l’unica in grado di attraversare le pareti elettrico catodiche invisibili poste come confine invalicabile della Westview controllata da Wanda.

In una sequenza lisergica e cruciale che rielabora il meglio dei titoli più visionari del MCU, quelli di James Gunn e di Ryan Coogler, per mettere in scena il viaggio che i nostri corpi compiono quando passano attraverso la smolecolarizzazione dell’ingresso nel flusso di immaginario, identità, rappresentazione e dispersione sensoriale costruito a partire da questo gigantesco, irrinunciabile laboratorio di autoriflessione sulle istanze del presente che sono gli hyper link dell’universo (cinematografico?) Marvel.

Tratto da “Sentieri Selvaggi”, n. 9, 2021, pagg. 10–14

Sergio Sozzo è giornalista pubblicista, direttore editoriale di www.sentieriselvaggi.it nonché curatore e organizzatore delle rassegne e delle proiezioni, e gli incontri con gli ospiti del Sentieri Selvaggi Network. Come saggista cinematografico ha pubblicato per Filmcritica, Empire, Le Mani, Bietti, Castelvecchi, Sovera e altri. Tra gli ultimi saggi segnaliamo Il sublime americano sul cinema di M.Night Shyamalan all’interno del volume Il viaggio del supereroe e la prefazione del volume monografico su Sofia Coppola Just like honey, edito da Bakemono Lab. Nel 2017 è aiuto regista di Abel Ferrara per il documentario Piazza Vittorio, presentato Fuori Concorso alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.