Le elezioni per la Casa Bianca si decideranno in Pennsylvania?

L’anomalia degli swing States

Mario Mancini
10 min readOct 20, 2024

di Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova

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Philadelphia dove si svolge il primo film della serie “Rocky” è la principale città della Pennsylvania.

Il Keystone State

Gli occhi di pressoché tutti gli analisti e gli osservatori politici sono puntati sulla Pennsylvania in vista del voto per la presidenza degli Stati Uniti del prossimo 5 novembre. L’importanza attribuita a questo Stato è dovuta al fatto che, tra i sette swing States (gli Stati in bilico), la Pennsylvania è quello che dispone del maggior numero di grandi elettori: 19 rispetto ai 16 ciascuno della Georgia e del North Carolina, ai 15 del Michigan, agli 11 dell’Arizona, ai 10 del Wisconsin e ai 6 del Nevada.

Inoltre, dal 1972 il candidato che ha portato a casa la Pennsylvania è anche riuscito ad assicurarsi la Casa Bianca, con le uniche eccezioni dei democratici Al Gore nel 2000 e John Kerry quattro anni dopo. Insomma, nella politica elettorale americana, la Pennsylvania sembra essere davvero il Keystone State (lo “Stato chiave di volta”), come la definisce il suo storico soprannome.

Non è, quindi, un caso se il partito democratico e quello repubblicano hanno organizzato una cinquantina di eventi elettorali in Pennsylvania per i loro candidati alla presidenza e alla vicepresidenza dall’inizio della campagna per la Casa Bianca.

Elezione indiretta del presidente e centralità degli swing States

Il rilievo degli swing States nella corsa per lo Studio Ovale è una delle conseguenze dell’anomalia rappresentata dall’elezione indiretta dell’inquilino della Casa Bianca. Il presidente è formalmente eletto da un collegio nazionale di grandi elettori. I cittadini che si recheranno alle urne il 5 novembre o che invieranno o hanno già spedito la scheda elettorale per posta votano per scegliere i grandi elettori degli Stati in cui risiedono.

Ciascuno Stato dispone di un numero di grandi elettori analogo a quello dei propri senatori e rappresentanti che siedono nel Congresso federale di Washington. Al Senato, il ramo alto del Congresso, vige un principio di rappresentanza paritetica: ogni Stato ha due seggi, a prescindere dal peso demografico. Alla Camera, invece, il numero dei seggi è proporzionale all’entità della popolazione. Il Distretto di Columbia, corrispondente alla capitale Washington, che non fa parte di uno Stato, ha diritto a tre grandi elettori. Il Senato ha 100 membri, la Camera 435.

In totale, quindi, i grandi elettori sono 538 e per diventare presidente è necessario ottenere la maggioranza assoluta dei loro voti, pari a 270. Salvo che nel Maine e nel Nebraska, dove vige un’assegnazione proporzionale (la proverbiale eccezione che conferma la regola), il sistema con cui sono attribuiti i grandi elettori in ogni Stato è quello maggioritario.

Ciò significa che il partito che ottiene la maggioranza, assoluta o relativa, dei voti dei cittadini in uno Stato si aggiudica tutti i suoi grandi elettori. Pertanto, in teoria, per conquistare la presidenza basterebbe vincere nei dodici Stati più popolosi che, da soli, conferiscono 279 grandi elettori, nove in più della maggioranza assoluta del collegio. In pratica, però, questi dodici Stati non hanno lo stesso orientamento partitico: la Florida e il Texas sono baluardi repubblicani, mentre la California e lo Stato di New York costituiscono roccaforti democratiche.

Anche in 39 dei restanti 46 Stati dell’Unione e nel Distretto di Columbia c’è una consolidata tradizione politica che porta ciascuno di loro a esprimere con una relativa continuità una maggioranza per uno dei due partiti principali. Ad esempio, l’Illinois si è ininterrottamente schierato con il candidato democratico dal 1992.

Invece, il Tennessee si è sempre allineato con quello repubblicano dal 1996. L’ultima volta in cui l’Alaska ha sostenuto un democratico si è verificata nel 1964. Di contro, il Distretto di Columbia, che proprio nel 1964 ha ottenuto per la prima volta una rappresentanza nel collegio elettorale, non ha mai appoggiato un repubblicano.

Gli Stati competitivi — cioè quelli in cui il voto è fluido, non c’è un vincitore quasi scontato in partenza e le maggioranze si modificano da un’elezione a un’altra — sono appena sette, gli swing States appunto, ed è qui che si conquista o si perde la Casa Bianca.

L’importanza della Pennsylvania

In questa prospettiva, a prescindere dall’entità numerica della propria dote consistente di grandi elettori, la Pennsylvania è un esempio emblematico dell’alternanza di maggioranze nelle tornate di voto più recenti.

Infatti, andando a ritroso nel tempo, hanno vinto in questo Stato il democratico Joe Biden nel 2020, il repubblicano Donald Trump nel 2016 e il democratico Barack Obama nel 2012. La Pennsylvania aveva abbracciato in ritardo il New Deal del democratico Franklin D. Roosevelt e nel 1932, in controtendenza con l’esito delle elezioni presidenziali a livello nazionale, si era schierata per il repubblicano Herbert Hoover.

Tuttavia, dal 1936, la forte concentrazione di minatori e operai nelle contee orientali e occidentali (quella di Allegheny, con la città di Pittsburgh, è stata a lungo il cuore della siderurgia mondiale) e l’influenza elettorale delle organizzazioni dei lavoratori erano riuscite a sopravanzare con largo margine l’orientamento conservatore delle zone rurali e avevano assicurato con continuità al partito democratico l’egemonia nello Stato, fatta eccezione per gli anni Ottanta (segnati dai successi dei repubblicani Ronald Reagan nel 1980 e nel 1984 e George H.W. Bush nel 1988) quando cominciarono a essere avvertiti i primi effetti della deindustrializzazione e del declino dei sindacati.

Queste dinamiche politiche pluridecennali sono venute meno a seguito della progressiva chiusura degli impianti estrattivi e industriali che ha reso una buona metà dell’elettorato della Pennsylvania, compresi i pochi operai che sono riusciti a conservare l’impiego, non soltanto molto più conservatrice che in passato, ma soprattutto particolarmente ricettiva dei proclami trumpiani: sovranismo, protezionismo doganale, stigmatizzazione della globalizzazione quale incentivo alla delocalizzazione delle manifatture all’estero, guerra dei dazi con la Repubblica Popolare Cinese, negazionismo sul cambiamento climatico e xenofobia verso immigrati irregolari considerati concorrenti sleali sul mercato del lavoro e per i quali The Donald propone la deportazione di massa.

Nel 2016 Trump vinse in Pennsylvania proprio grazie all’impegno a ricreare occupazione nel settore industriale e in quello minerario, una promessa in parte vanificata dal crollo dei livelli occupazionali poco prima delle elezioni del 2020, a causa però di circostanze contingenti e indipendenti dalle politiche della sua presidenza repubblicana quali l’esplodere della pandemia del covid-19.

È l’aritmetica, baby!

Al netto del responso delle urne nei sette Stati “incerti”, i sondaggi più attendibili (come quelli presentati sull’autorevole sito www.270towin.com) assegnano 226 voti elettorali sicuri alla democratica Kamala Harris e 219 a Trump.

Senza la Pennsylvania, Harris dovrebbe conquistare ben quattro swing States per raggiungere la fatidica soglia di 270 grandi elettori, fatta eccezione per il caso in cui trionfasse in Georgia, Michigan e North Carolina.

Con la Pennsylvania, invece, le sarebbe sufficiente vincere in soli altri due Stati in bilico. Di contro, Trump avrebbe sempre bisogno della maggioranza in altri quattro Stati “incerti” per diventare presidente senza la Pennsylvania.

Tenendo conto di tutte le possibili combinazioni dell’esito del voto negli swing States, qualora venissero sconfitti in Pennsylvania, Harris avrebbe altre dieci alternative su venti complessive per entrare alla Casa Bianca, Trump solo altre sei su ventuno.

Gli swing States: un’aberrazione nell’aberrazione

Il ruolo decisivo degli swing States comporta un’ulteriore anomalia in una procedura elettorale che è già di per se stessa singolare dal momento che, in ragione del ricorso al sistema maggioritario per l’assegnazione dei grandi elettori, può diventare presidente anche un candidato che non abbia raggiunto la maggioranza (né quella assoluta, né quella relativa) dei voti popolari, come è già accaduto nel 1824, nel 1876, nel 1888, nel 2000 e nel 2016.

Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin esprimono complessivamente soltanto 93 grandi elettori su 538 e sono gli Stati di residenza di appena il 15,5% della popolazione totale degli Stati Uniti.

Queste cifre significano che a decidere in ultima istanza l’assegnazione della Casa Bianca è una ristrettissima minoranza di cittadini degli Stati Uniti.

L’emergere degli Stati “incerti” in coincidenza con la nascita dei partiti

L’esistenza degli swing States non è una conseguenza della crescente polarizzazione partitica della società statunitense. Si è manifestata fin dal sorgere di formazioni politiche organizzate al termine del Settecento.

Nel corso degli anni sono cambiati i singoli Stati in bilico ed è diminuito il loro numero, passato per esempio dai ventitré del 1960 a tredici nel 2004 fino ad arrivare agli attuali sette. Ma è rimasto una costante il fenomeno per il quale esistono Stati in cui il successo di uno dei due partiti principali può essere ritenuto assodato e altri in cui l’esito del voto è incerto e varia da un’elezione all’altra.

All’alba della repubblica, il partito federalista poteva essere sicuro di affermarsi negli Stati del New England grazie alle sue proposte a sostegno del commercio e della nascente industria manifatturiera, le principali attività economiche di questa regione.

Invece, il partito democratico-repubblicano trionfava regolarmente nel Sud, in quanto il suo programma di difesa delle prerogative dei singoli Stati dai poteri delle istituzioni federali rappresentava una garanzia contro eventuali provvedimenti legislativi del Congresso per abolire la schiavitù, il fondamento dell’economia di piantagione degli Stati meridionali.

All’epoca, il più importante swing State era lo Stato di New York: il suo pacchetto di dodici grandi elettori, da solo, determinò la vittoria del federalista John Adams nel 1796 e, in seguito a un repentino cambiamento di fronte, quella del partito democratico-repubblicano di Thomas Jefferson nel 1800.

Gli Stati “incerti” nell’Ottocento

La presenza di swing States caratterizzò anche il sistema di partito incentrato sulla contrapposizione tra democratici e whig. Per esempio, esprimendo una differente maggioranza in cinque elezioni presidenziali consecutive, l’accoppiata della Pennsylvania e dello Stato di New York contribuì all’elezione del democratico Martin Van Buren nel 1836, del whig William Harrison nel 1840, del democratico James Polk nel 1844, del whig Zachary Taylor nel 1848 e del democratico Franklin Pierce nel 1852.

Nell’ultimo quarto dell’Ottocento, quando i due partiti principali erano quelli che ancora oggi dominano la scena politica, gli Stati Uniti risultarono caratterizzati da un doppio monopartitismo di fatto: al Sud dominava il partito democratico, perché quello repubblicano era associato all’abolizione della schiavitù, al tentativo di integrazione degli afroamericani e all’occupazione militare della disciolta Confederazione al termine della guerra civile (1861–1865).

Nel resto della nazione, invece, la forza egemone era il partito repubblicano, perché quello democratico veniva ritenuto responsabile della secessione e del successivo scontro militare tra il Nord e il Sud. Gli unici Stati competitivi erano Indiana, New York e Ohio.

Per ingraziarsi gli elettori di questi swing States, indispensabili per aggiudicarsi la Casa Bianca, repubblicani e democratici arrivarono al punto di ridursi a scegliere i propri candidati tra i politici locali. Così, tutti i presidenti eletti tra il 1876 e il 1900 furono originari di Ohio, Indiana o New York. Inoltre, in tale arco di tempo, risiedevano in questi tre Stati ben sedici dei venti candidati democratici e repubblicani alla presidenza o alla vicepresidenza.

Gli swing States nel Novecento

Con le sue fluttuazioni da un partito all’altro, l’Ohio è rimasto di fatto uno Stato imprescindibile fino al 2020, quando Biden riuscì a diventare presidente pur essendovi stato sconfitto da Trump. D’altro canto, nessun candidato repubblicano è mai riuscito a conquistare la Casa Bianca senza aggiudicarsi l’Ohio.

Nel corso del Novecento, però, emersero altri swing States significativi. Il voto del Wisconsin, conquistato in precedenza dal democratico Franklin D. Roosevelt nel 1940 e dal repubblicano Thomas E. Dewey nel 1944, fu risolutivo per l’elezione del democratico Harry S. Truman nel 1948.

In tempi molto più recenti, la Florida, dopo essere andata al repubblicano George H.W. Bush nel 1992 e al democratico Bill Clinton nel 1996, si dimostrò decisiva, sia pure per soli 537 voti popolari, nell’assegnazione della presidenza al repubblicano George W. Bush nel 2000.

Stati in bilico e dinamiche elettorali

Gli swing States condizionano l’affluenza alle urne e influenzano le strategie di conduzione delle campagne elettorali. Da un lato, la partecipazione al voto è in genere più alta negli Stati in bilico perché chi vi risiede è consapevole che le proprie scelte possono determinare l’assegnazione della presidenza.

È, invece, di solito contenuta negli Stati “sicuri” dove l’esito delle consultazioni viene dato per scontato e, pertanto, gli elettori non hanno particolari incentivi a esercitare un voto che può essere ragionevolmente ritenuto inutile. Dall’altro lato, i candidati tendono a concentrarsi sugli Stati “incerti”, consapevoli del velleitarismo dello sforzarsi per conquistare le roccaforti del partito avversario e certi dell’impossibilità di essere sconfitti là dove la propria formazione politica esce tradizionalmente vincitrice.

Se ne avvide con lungimiranza e oculatezza il democratico John F. Kennedy, che si aggiudicò la presidenza nel 1960 anche grazie alla decisione di non disperdere energie e risorse svolgendo la campagna elettorale in tutti e cinquanta gli Stati dell’Unione, come invece fece il suo antagonista repubblicano Richard M. Nixon, per occuparsi prioritariamente dei soli swing States.

Per questo motivo, ha destato sensazione, in quanto comportamento poco convenzionale, la notizia che Trump abbia programmato di tenere un comizio il prossimo 27 ottobre al Madison Square Garden di New York, un luogo certamente iconico ma collocato in uno Stato solidamente democratico dove sia Biden sia Hillary Clinton lo hanno battuto nel 2020 e nel 2016, distanziandolo entrambi di circa 23 punti percentuali.

L’azzardo di Kamala Harris

Le scelte inconsuete non si sono limitate a Trump. Il peso elettorale della Pennsylvania avrebbe voluto che, per ingraziarsene i votanti, Kamala Harris indicasse il governatore di questo Stato, Josh Shapiro, come candidato democratico alla vicepresidenza.

La designazione di Shapiro sarebbe potuta servire anche per compensare l’assenza di Biden dal ticket del partito rispetto al 2020. Il presidente in carica, infatti, è originario di Scranton, capoluogo della contea di Lackawanna, nel nordest della Pennsylvania, e legato da un rapporto affettivo così stretto con la città natale da essere stato soprannominato “Scranton Joe”.

La preferenza di Harris è, invece, andata a Tim Walz, l’apparentemente bonario governatore del Minnesota, uno Stato che non premia un candidato repubblicano da quando espresse una maggioranza per Richard M. Nixon nell’ormai lontano 1972. Harris ha ritenuto che l’accoppiata tra una donna di ascendenza africana e indiana e un ebreo come Shapiro avesse poche probabilità di successo. Inoltre, ha temuto che il sostegno espresso da Shapiro, in maniera un po’ acritica, alle operazioni militari condotte dal governo Netanyahu a Gaza in risposta agli attentati terroristici compiuti da Hamas contro inermi cittadini israeliani il 7 ottobre 2023 potesse danneggiarla presso l’elettorato arabo-americano del Michigan, un altro swing State, ancorché assegnatario di quattro voti elettorali in meno della Pennsylvania.

Vedremo dopo il 5 novembre se la scommessa irrituale di Harris si rivelerà vincente.

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.