Le amiche di Michelangelo Antonioni nella critica del tempo

Mario Mancini
27 min readJun 25, 2020

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Henri Matisse, “Donna seduta con tunica viola con anemoni”, 1937, Baltimore Museum of Art, Baltimora

«La laica fermezza di questo cineasta “borghese”, così coerentemente impietoso verso la borghesia, è veramente esemplare.»
Lino Micciché

Gian Luigi Rondi

Rosetta, Nene, Momina e Clelia sono amiche. Salvo l’ultima, appartengono tutte alla ricca borghesia; vivono di pettegolezzi, di cocktails, di amori leciti e no. Clelia, invece, è nata povera, ma si è fatta strada con il lavoro, dirige una grande sartoria ed è stata accolta senza fatica nella società delle altre. Un giorno Rosetta tenta di uccidersi; i motivi si scoprono più tardi: è innamorata di Lorenzo, il marito di Nene.

Quando le amiche lo sanno, nonostante il prudente dissenso di Clelia, tentano di far incontrare Rosetta con Lorenzo. Questi, che è un pittore fallito, fatuo, egoista, sente solleticata la sua vanità da quella ragazza cui, per amor suo, non ha fatto paura la morte, e non esita a diventarne l’amante. Quando Nene se ne accorge, pensa di lasciar libero il marito e poiché dall’America le è stato rivolto un invito per un’esposizione (è artista anche lei), annuncia a Lorenzo la sua partenza.

L’altro, però, che è stato sempre geloso dei successi della moglie e che in Rosetta ha visto solo un’avventura, ridiventa di colpo, in perfetta malafede, una perla di marito. Rosetta, abbandonata, si uccide. Clelia, che fin dall’inizio aveva previsto tutto, dice alle amiche quello che pensa della loro leggerezza e del mondo egoista e frivolo in cui vivono, ma quando un bravo giovane viene a proporle di dividere con lui la sua onesta miseria, lei dopo qualche esitazione, finisce per ritornare, se non proprio a quelle amiche, almeno a quel mondo che aveva tanto disprezzato: incapace ormai, di liberarsene.

Questa la storia che Michelangelo Antonioni ha tratto con una certa libertà, dal racconto Tra donne sole compreso nel volume La bella estate di Cesare Pavese. Presi ad uno ad uno, gli stati d’animo dei personaggi e la logica interna dei loro atteggiamenti sono in genere messi in rilievo con asciutto rigore, ma se consideriamo il racconto nel suo insieme e guardiamo ogni figura nella totalità dei suoi gesti, nella cornice in cui vive, alla luce delle parole che ci fa intendere, allora ci tocca rilevare una scarsa linearità narrativa e, forse, anche una troppo implicita impostazione psicologica di molte situazioni.

Le storie delle quattro donne non sempre si equilibrano, il loro alternarsi, spesso, è frammentario, spesso diventa episodico. C’è, comunque, nel film un impegno stilistico, un’attenzione figurativa, un’ambizione drammatica che, anche quando non riescono a risolversi compiutamente, si impongono a tutta la dovuta attenzione. Per merito, anche, di un felice complesso di interpreti, da Valentina Cortese, umanissima e sensibile nel personaggio di Nene, e a Eleonora Rossi Drago nella calda bellezza di Clelia.

Da Il Tempo, 19 Novembre 1954

Cecilia Mangini

Le amiche è il quarto film di Antonioni ma il primo che trae origine da un’opera letteraria. Un nuovo capitolo dei difficili amori tra romanzo e film? Questa volta la difficoltà è più nascosta. C’è da considerare la nessuna fortuna cinematografica di Pavese, specialmente in rapporto al saccheggio più o meno felice che in questi ultimi anni il cinema italiano ha compiuto nei riguardi della nostra narrativa. C’è da considerare la diversa natura degli interessi di Pavese e di Antonioni perché questo rapporto si riveli semplice solo in apparenza.

Non è facile d’altra parte sfuggire alla suggestione di certe affinità tra narratore e regista: l’impegno stilistico, il prevalere delle figure femminili, l’analisi di alcuni ambienti dell’alta borghesia in funzione della crisi che mina questa classe, l’approfondimento psicologico lontano da un intimismo fine a se stesso, e forse anche quel tanto di solitudine che accompagna i loro personaggi più tipici.

Ha interessato soprattutto Antonioni una delle caratteristiche principali del racconto: la femminilità vista a tutto tondo attraverso cinque ritratti di donna. Ciascuna di queste donne è colta in un periodo determinato della sua vita, in cui deve decidere della propria esistenza. A differenza di mezzo secolo fa, ogni donna è chiamata a scegliere il suo avvenire. Molte strade le sono aperte, e questo accresce le sue responsabilità. Le cinque “amiche” si trovano dunque ad affrontare questo problema fondamentale; naturalmente il carattere, l’origine, l’educazione di ciascuna di esse avranno un’influenza determinante nelle loro decisioni, persino nel rendere inevitabile, per quella che non riuscirà a legare con la vita, la tragedia.

Di Tra donne sole (questo è il titolo del racconto) c’è da ricordare prima di tutto il senso di solitudine, di vuoto che le protagoniste sentono, anche inconsciamente, inserite come sono in un tessuto sociale superficialmente organico, ma in realtà disgregato, privo di coesione. Questo aspetto del racconto tuttavia non costituisce il postulato del film; in altre parole il film non è, non vuole essere una critica alla borghesia: come al solito Antonioni ha preso dei borghesi e li ha inseriti in una vicenda borghese. Ha detto Antonioni

«Chi dice che la borghesia non ha drammi non legge i giornali. L’inverno scorso una ragazza si è suicidata a Torino. L’hanno trovata in un prato coperto di neve: aveva in mano un libro. Questo libro era La bella estate. Ed era aperto alla pagina dove incomincia il racconto Tra donne sole. Possiamo anche giudicare il gesto di quella ragazza come un segno di insufficienza spirituale, ma la consegui che ne rimane è drammatica».

Chiediamo ad Antonioni se ha fatto dei cambiamenti rispetto alla storia originale. «Come molte opere di Pavese» — risponde il regista — «anche questa è statica, costruita più per contrasti psicologici che per susseguirsi di fatti». È stato quindi necessario, ad Antonioni e ai suoi collaboratori Suso Cecchi D’Amico e Alba De Cespedes, ricostruire, dagli stati d’animo, quegli avvenimenti che del racconto costituiscono la premessa, e poi trasferirli al presente, dar loro una funzione dinamica. Altri fatti sono stati aggiunti, senza con questo che i rapporti tra le diverse psicologie femminili ne risultino modificati.

«Io penso» — dice Antonioni — «che Pavese non avesse molta esperienza di donne; le sue intuizioni in merito sono di natura esclusivamente poetica, vorrei dire astratta. Tuttavia ne ha alcune di una acutezza e precisione sorprendenti. Certe battute appartengono al mondo delle donne inequivocabilmente, ne hanno lo spirito, la spregiudicatezza, mi dispiace solo di non poterle usare, con l’aria che tira la censura me le taglierebbe». Dice ancora Antonioni che fin dalla prima lettura di Tra donne sole gli parve di capire che il racconto, ancorché mancante di quelle caratteristiche comunemente dette “cinematografiche”, poteva offrire materia per un film. In quale maniera egli si è valso del testo letterario?

«Il romanzo non è che un punto di partenza. Non vedo nessuna differenza tra un testo letterario o teatrale e un fatto di cronaca, tra un’idea che un amico ci suggerisce e un episodio al quale ci capita di assistere o una idea che ci nasce nella testa. Il lavoro di rielaborazione è identico. Sembra di no, ma pensateci bene e vedrete che è così. Si tratta in ogni caso di ridurre all’osso l’idea o il fatto, e poi di riesprimerli con dei mezzi che non hanno niente a che vedere con quelli di prima. Nel caso di Pavese la riduzione ha presentato delle enormi difficoltà, in certi momenti il testo è stato addirittura un intralcio».

Non si può non dar ragione ad Antonioni, se si pensa che Tra donne sole è un tipico esempio del “monologo interiore” di Pavese (per usare la felice espressione del Pancrazi) «che concentrando tutto in un’unica voce dà ritmo e unità lirica al racconto»; basta pensare a quanto di Pavese dice Emilio Cecchi, sull’importanza del dialogo, nel quale si risolvono e si realizzano, in reciproco rapporto, i personaggi. Non ultima preoccupazione la censura, alla quale sono stati sacrificati certi lati morbosi della storia.

Anche al pubblico sarebbe sfuggita la complessità di alcuni atteggiamenti e la tortuosità di certe reazioni. Cosi il suicidio di Rosetta è stato “tradotto” in termini più semplici e motivato con una delusione sentimentale. È questa delusione, in sostanza, a provocare nella ragazza quel senso di assoluta inutilità della vita che in Pavese era l’unica ragione del gesto insano.

Il film presenterà anche interessanti novità per quanto riguarda la tecnica. Sono ormai note le inquadrature “alla Antonioni”, lunghe fino a 130 metri, e lo scarsissimo impiego dei controcampi. Tuttavia non vi sarà nessuna frattura stilistica rispetto ai suoi precedenti film. Contrariamente al suo solito, Antonioni ha fatto uso di controcampi, ottenendo una maggiore nervosità e scioltezza di ritmo. Ma la tecnica seguita sembra in ogni modo abbastanza spregiudicata rispetto alle regole codificate della sintassi cinematografica. «Non mi metto mai alla macchina da presa» — dice Antonioni — «con delle idee prestabilite. Mi lascio guidare dall’istinto e mi capita spesso di improvvisare inquadrature e scene non previste».

Tace un momento, poi soggiunge: «Bisognerebbe girare con più calma. A me non è mai successo. Invidio i miei colleghi, e sono i più, che lo possono fare. In nessun film io ho potuto ancora dare la misura delle mie, piccole o grandi che siano, possibilità, mi sono sempre trovato ingolfato nella fretta, nelle difficoltà materiali, nelle grane. Mi domando se per caso non sia colpa mia. Giorni fa un produttore, uno di quei produttori che riescono ad incassare molto, spendendo poco, mi faceva dei complimenti.

«Lei Antonioni e molto bravo», mi diceva, «ma le mancano degli amici che la consiglino a cambiare le sue idee. Lei va troppo contro corrente, cioè contro il pubblico, invece di andargli incontro. Faccia un film cordiale, allegro, ottimista, un film da mezzo miliardo (di incasso!) e dopo le sarà più facile fare quello che vuole». Discorso lapalissiano, al quale non ho saputo cosa rispondere. È come se uno ti dicesse: perché non si cambia il naso?».

«Tutto sommato, però, mi sembra di poter dire che Le amiche sarà un film amaro ma positivo, un film in cui la fiducia nella vita finisce per farsi strada».

Da Cinema Nuovo, n. 60, 10 giugno 1955, pp. 408–409

Guido Aristarco

Molto c’è da dire su Le amiche. Che cosa ha voluto fare — e che cosa ha fatto Michelangelo Antonioni con questo film? Perché, anzitutto, si è ispirato all’ultimo racconto di La bella estate? Come, ed entro quali limiti, è avvenuto il suo incontro con Cesare Pavese? Motivi in comune esistono tra lo scrittore scomparso e il regista: certo riserbo, a esempio, e rigore nel lavoro, e la tendenza al saggismo.

Non a caso la scelta di Antonioni è caduta su Tra donne sole e non su un altro racconto di Pavese. La tensione stilistica fu per Pavese «qualcosa di sommamente vitale ed eccitante»: nessuno dei nostri contemporanei — ha scritto il Muscetta — seppe volere uno stile come lui: e in Tra donne sole i «particolari stilistici sono di una abilità icaria, da pilota acrobatico, vi fanno trattenere il respiro». Eccitante, se non sempre vitale, questa tensione stilistica è anche in Antonioni: nessuno dei nostri registi (e qui non si vogliono stabilire raffronti qualitativi) ha cercato e voluto ottenere come lui, e con tanta insistenza, uno stile, un particolare modo di angolare, di descrivere; di questi registi, egli è forse il più “elegante” […] Altre ragioni ancora — e affinità — hanno spinto Antonioni a ispirarsi a Pavese: i personaggi intesi come mezzo e non come fine, quei ritratti di donna — Clelia, Rosetta, Momina, Nene e Mariella — e la scoperta della città e di una società in cui la parola “amicizia” ha perso il valore originario, chiaro e aperto.

Si tratta, scriveva il Pavese di La bella estate, di un clima morale, un incontro di temi, una temperie ricorrente in libero gioco di fantasia. «Per quanto ricchi di aperture paesistiche, sono tre romanzi cittadini, tre romanzi di scoperta della città e della società, tre romanzi di giovanile entusiasmo e passione e sconfitta. Un tema ricorrente in ciascuno dei vari intrecci e ambienti è quello della tentazione, dell’ascendente che i giovani sono tutti condannati a subire. Un altro è la ricerca affannata del vizio, il bisogno baldanzoso di violare la norma, di toccare il limite. Un altro, l’abbattersi della naturale sanzione sul più colpevole e inerme, sul più “giovane”».

Non v’è chi non veda, nei film di Antonioni — Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie, l’episodio dei mancati suicidi in Amore in città — questi temi ricorrenti: questa tentazione, e ascendente, e ricerca affannata, e bisogno baldanzoso, e abbattersi. In Le amiche essi temi, e la scoperta di una città e di una società, confluiscono con disegno organico maggiore, con una più consapevole presa di coscienza.

Aiutato da un testo letterario e anzi da un artista «limitato ma inconfondibile» (è evidente che non si è fermato alla lettura di La bella estate), Antonioni scopre ora, come seppe scoprire il Pavese, che lo stile non è tutto, che la «gioia di inventare», di «provare più volte situazioni stilistiche» è altra cosa che il lavoro creatore del genio. Questa l’indicazione del film, l’importanza concreta e sostanziale che esso assume per il suo autore; di qui un giudizio condiviso da molti: Le amiche è l’opera migliore di Antonioni.

Il quadro non racchiude, contrariamente a suoi precedenti film, un valore soprattutto figurativo (e in funzione figurativa era costretta la stessa recitazione); dal quadro scaturisce, anzi, un giudizio morale non […] solo nelle intenzioni; si articola, cerca di approfondirsi, non è reticente, talvolta esplode con forza inconsueta alla natura del regista — «Cose dell’altro mondo», qualcuno esclama scandalizzato alla notizia che Rosetta ha tentato per la seconda volta di uccidersi, e questa volta ci è riuscita davvero.

Siamo nell’ atelier” appena inaugurato, le modelle ancora sfilano dinanzi alle clienti di “madame”. — «No, cose di questo mondo», replica Clelia decisa, «di questo mondo che…». E, rivolta a Momina, incalza: «Sei tu che l’hai uccisa». Clelia, da Roma, è tornata a Torino — sua città natale — per aprire il negozio di mode: la sua modesta infanzia non l’ha vista «prendere il caffè con la mamma»; ma dalla madre ha ereditato l’ambizione, la mania di far da sola, di bastare a se stessa. Il suo vizio è il piacere di starsene sola; non è però fredda spettatrice, o testimone soltanto: anche se può apparire egoista, le sta a cuore la sorte di Rosetta, la «giovinezza e purezza di cuore in un mondo che tutto contamina e devasta». Clelia Oitana, certo «il personaggio più bello di uno scrittore che non credeva nei personaggi», perde nel film alcuni elementi della sua natura, e non perché sia vista con maggiore approfondimento critico da Antonioni.

Clelia, osserva Italo Calvino, «sa riconoscere un uomo che vale in Becuccio, l’imbianchino, e lo porta con sé a cena e a letto una sera sola e poi basta, perché sa che un rapporto così semplice e onesto è il massimo che si possa avere senza finire per guastar tutto». Qui, secondo noi, la chiave di quanto il film sarebbe potuto essere, e non è. Non tanto perché Becuccio è ora Carlo, cioè non più un imbianchino ma un assistente; o perché non ragiona con l’architetto sui problemi della libertà.

Ma piuttosto perché Clelia, nel film, non vede in Carlo un uomo superiore — superiore al pittore Loris, all’architetto, agli altri — nuovo o comunque diverso: la figura di quest’uomo viene diminuita, livellata alle altre figure di uomini, deboli, pieni di complessi, senza forza propria: così essi almeno appaiono alle “amiche”, sono visti soggettivamente, con occhi di donna, di quel particolare tipo di donna.

Questo livellamento, oltre ad alcune soluzioni sentimentali (Alba de Céspedes prende il posto di Pavese), determina alla fine in Clelia un diverso e meno convincente modo di comportarsi. è vero che Clelia (non si dimentichi che sotto quelle sembianze femminili si nascondeva Pavese) ha uno «straordinario, testardo, divorante amore» per il lavoro; ma nel film essa è pronta — quando crede di essere licenziata in seguito allo “scandalo” («No, sono cose di questo mondo») — ad andare con Carlo; lo lascia invece, per tornare al posto che aveva a Roma, quando apprende che quel posto è ancora libero per lei. Nella prima come nella seconda decisione non agisce la chiave accennata: la coscienza, in Clelia, che il suo rapporto con Becuccio, cioè Carlo, non può durare a lungo senza finire coi guastare tutto.

Antonioni, che ha dato un’opera così singolare e bella con Le amiche, così ricca di umori e temi (per la prima volta il cinema italiano è riuscito a entrare con convincenti risultati in un mondo che a esso recalcitra) ha capito, come si è accennato, che lo stile non è tutto; permangono in lui, d’altra parte, alcuni dei veleni più sottili dell’intellettualismo contemporaneo, un atteggiamento ancora troppo aristocratico, che lo porta ad aver paura dei conflitti dialettici (di qui il livellamento di Carlo) e magari a restar fermo, sul piano formale, a effetti di pianola e alla musica di Fusco e alle incertezze di tutta la prima parte.

Da Cinema Nuovo, a. IV, n. 67, 25 settembre 1955

Filippo Sacchi

È almeno dai Vinti che si sente in Antonioni la segreta aspirazione a un cinema di costume. Nelle Amiche questa aspirazione diventa programma dichiarato. Se il cinema italiano dovrà avere il suo Dumas figlio, Antonioni è il primo candidato iscritto. (Senza nessun riferimento alla Signora senza camelie.) Egli ha scelto anche stavolta un settore scabroso: quello delle signorine depravate di buona famiglia. I modelli è andato a domandarli al compianto Cesare Pavese, prendendoli in blocco tra i personaggi di quel breve romanzo, Tra donne sole, che fa parte della trilogia de La bella estate e dove, sullo sfondo di una Torino fortemente monparnassiana, sono effigiati, nei loro modi e mentalità e comportamento caratteristici, appunto cinque esemplari di queste fanciulle; naturalmente con il campionario dei maschi di contorno.

Nonostante amino un linguaggio brutale e pratichino il vizio con indifferenza, questi personaggi sono in realtà tipi abulici e svaporati, all’apparenza insofferenti uno dell’altro (“vivevano come i gatti sempre pronti a portarsi via l’osso”), all’atto pratico condannati a cercarsi e a stare insieme, quasi legati da una inconsapevole complicità. A stare insieme e ad annoiarsi insieme, noia dalla quale non riescono a sfuggire che in due modi, entrambi purtroppo temporanei: sbronzandosi o facendo l’amore. Nemmeno in questo, che si danno l’aria di considerare la loro specialità, sono molto interessanti.

Ora quei personaggi potevano avere un senso finché restavano com’erano nel libro, vaghi, falsi, ondeggianti, imprecisi, leggermente manichini. Ma purtroppo così non sarebbero divenuti materia di cinema. Perché il cinema, lo abbiamo visto mille volte, è esigente; è come i bambini e le donne, vuole cose concrete, vuole fatti. Antonioni è stato dunque costretto a forzarli, a calarli nel reale. Allora è successo quel che succede sovente ai personaggi disossati di tanta letteratura contemporanea, appena sono tirati fuori da quegli erotici vapori che confondono così bene i contorni.

Tranne Momina (tenuta con molto mordente da quel diavolo della Furneaux) la quale mantiene intatta la sua funzione di scarica-battute, tutti gli altri, obbligati a prendersi sul serio, non reggono. Guardate Rosetta. Nel romanzo nessuno sa perché si uccide, perché in realtà non lo sa neanche lei: e questa tragedia assurda è, in un certo senso, la logica conclusione di quella vicenda tra esseri inconcludenti. Forzato dalle necessità del racconto cinematografico a mettere i puntini sulle “i”, Antonioni ha dovuto dare al dramma di Rosetta una concatenazione evidente di cause e di effetti, e così è venuta fuori una banale e lacrimogena storia di camere ammobiliate. Altrettanto il personaggio di Carlo, l’assistente, che sarebbe il rappresentante del sano proletariato nel cinico mondo dei signori, e a cui persino Pavese non aveva osato togliere la sua soddisfatta fisionomia di maschio di passaggio, diventa nel film un dignitoso cuore-infranto, e la sua bonne fortune con la grande sarta si trasforma nel romanzo di un giovane povero.

Ma più che negli altri questa forzatura è avvertibile in Clelia, personaggio a parte, che per la sua posizione di testimonio era, già nel romanzo, la effettiva ambasciatrice della polemica sociale. Anche Antonioni c’è cascato in pieno, sino a portarla a imbarcarsi, all’ultimo, nella scenata a Momina davanti alle clienti della casa di mode, in una vera e propria carica a fondo contro il costume borghese. Con una visibile alterazione di prospettive: perché questa manica di sciaguratelle con i loro degni compagni, poveri tipi oscillanti tra una mondanità spicciola e un esistenzialismo velleitario, non sono che una piccola efflorescenza marginale, senza nessun valore rappresentativo, di una inconsistente società.

Discutibile come analisi moralistica, il film si distingue almeno come opera di regia. Antonioni vi ha raggiunto ormai una assoluta padronanza del mezzo scenico, una rara e felicissima fluidità nel muovere azioni e personaggi. Il modo con cui riesce a contrappuntare certi episodi d’insieme, per esempio la gita in Riviera o l’inaugurazione della casa di mode, prova che il regista è fatto. Forse non gli parrà un gran complimento. Ma anche Dumas figlio ha cominciato così.

Al cinema col lapis, Milano, Mondadori, 1958

Michelangelo Antonioni

Ho seguito anche la polemica sulla “mia” Torino, che non avrebbe soddisfatto i torinesi, alcuni dei quali autori di lettere indignate a un giornale locale. Secondo costoro io avrei scelto «le vie più brutte» invece di rappresentare il «volto inconfondibile» della città, la sua «civetteria e grazia», eccetera. Evidentemente ciascun torinese vede e ama la propria città a modo suo, che è un modo sempre legittimo. Ma, con tutto il rispetto per questi molteplici modi, debbo dire che venendo a girare a Torino l’ultima cosa che avevo in mente di fare era occuparmi della città da un punto di vista turistico, occuparmi della città tout court.

Il paesaggio aveva una importanza relativa in un film così specificamente psicologico. Dirò di più: non ho mai avuto nemmeno la preoccupazione della fedeltà a Pavese, le sole parole sull’argomento ricordo di averle spese per rassicurare Muscetta, e con lui Einaudi, che avrei fatto il possibile per non tradire lo spirito del racconto. Non si trattava evidentemente di fare il possibile. Non era questo il possibile. Quando si distacca una storia dalle parole che la esprimono, che la fanno racconto compiuto in sé artisticamente, che cosa rimane? Rimane una vicenda che equivale a un fatto di cronaca letto sul giornale, al racconto di un amico, a un avvenimento al quale abbiamo avuto occasione di assistere, a un parto della nostra fantasia.

Questo è il nuovo punto di partenza. Si tratta poi di svolgere, plasmare, articolare la materia tornata grezza in un altro linguaggio, con tutte le conseguenze che il fatto comporta. Anzi a questo punto il testo originario può addirittura intralciare. Credo di essere un discreto lettore, se non altro perché leggendo riesco a dimenticare la mia professione; così avviene che certe pagine esercitino su di me una forte suggestione, ma è una suggestione di natura essenzialmente letteraria, che non ha niente a che vedere con la adattabilità allo schermo. Quando ciò accade, la decisione se si debba rinunciare o no a quelle pagine, diventa difficilissima, facilissimo, invece lasciarsi sedurre e commettere un errore.

In Pavese il pericolo era sempre latente, soprattutto in un racconto come Tra donne sole scritto in una prosa così incantata, allusiva, ferma in un mondo di sentimenti come una pianta miracolosamente immobile in un mulinello del vento. Portare sullo schermo il racconto così com’è sarebbe stato non solo impossibile, ma forse dannoso a Pavese stesso. Il cambiamento di linguaggio porta inevitabilmente a modifiche sostanziali. Non voglio affermare l’esistenza di uno “specifico cinematografico”, ma se non altro una portata pratica l’affermazione ce l’ha. Si sarebbe forse potuto seguire un’altra strada, quella della sottomissione completa del cinema alla letteratura, per esempio adottando uno speaker che leggesse le parole di Pavese, e illustrando queste parole con delle immagini. Tutto è possibile. Ma io non credo a simili ibridismi e non credendoci non sarei mai riuscito ad essere sincero adottandoli.

Le illustrazioni di un’opera letteraria hanno valore artistico nella misura in cui non sono illustrazioni. Cosi è per il cinema. La fedeltà a Pavese non poteva essere un fatto aprioristico e letterale. Se ho scelto questa vicenda piuttosto che un’altra evidentemente una ragione c’era. “Ragione” è forse la parola meno propria, si trattava piuttosto di qualcosa che sfuggiva alla ragione, ed era quindi impossibile ragionarci su. Qualche critico ha scritto che Le amiche è un film intelligente. Posso dire di averlo fatto sotto la spinta di facoltà diverse dall’intelligenza, nei limiti naturalmente in cui ciò è possibile. Se il film, per usare le sue stesse parole, dà di Pavese «un’interpretazione fondamentalmente giusta», vuol dire che la scelta stessa è una garanzia di fedeltà, la sola che potessi dare in buona fede. E che era giusto non farne un problema, il problema essendo un altro: quello della autonomia del film, della sua validità.

Ecco perché le critiche che si ostinano a comparare film e racconto rischiano di uscire di strada. l’accaduto perfino, secondo me, a Filippo Sacchi, per il quale l’aver dato concretezza al suicidio di Rosetta ha fatto scadere di tono il suicidio stesso. Come se un suicidio possa essere più bello di un altro, fuori del fatto espressivo, Sacchi può obbiettare che è a quello del film cosi espresso che si riferisce: in tal caso non ho altro da dire, se non esprimere il mio disappunto, l’irritazione di cui parlavo in principio. Credevo di aver dato al personaggio di Rosetta una sua sincerità, un suo pudore direi figurativo, tale da evitagli la banalità. Senza aggiungere poi che il movente amoroso del suicidio, nel film, non è che la goccia che fa traboccare il vaso di una noia di vivere, di una impossibilità a legare con la vita, che sono i motivi di Pavese. Ma il suicidio del racconto trasportato di peso sullo schermo sarebbe rimasto in ogni caso letterario.

Quanto al contenuto morale del film, il discorso è analogo. Taluni critici mi hanno rimproverato di non aver fatto di Carlo un personaggio dialettico. Non ho alcuna esitazione a dichiarare che detesto i personaggi chiave. Il mio mestiere è quello di fare il regista, ma è anche quello di vivere, come dice Pavese. Vivere in una società, in un ambiente, avere dei rapporti con i propri simili, fare delle esperienze. Non sarà certo dirigendo un film che posso dimenticare tutto questo. Le mie esperienze, le mie opinioni, i miei stessi errori, che sono quello che c’è di più personale in un’esperienza, coleranno nel film mio malgrado, se sono sincero. Se il film riesce, ciascuno potrà ricavarle. Se non le ricava vuol dire che il film è mancato. Ma lo è sul piano estetico, questo lo voglio sottolineare. Così quando lei giudica il personaggio di Clelia confuso, questa è una critica che io posso condividere o meno (la condivido), ma è legittima.

Le amiche è un film di cui potendo rigirerei almeno un terzo. È stato realizzato nelle condizioni peggiori. Incominciato da una casa di produzione, è stato ripreso da un’altra dopo due mesi e mezzo di interruzione. Due mesi e mezzo di interruzione sono molti. Ma quello che è peggio è che tutto questo tempo è stato speso in trattative finanziarie, colloqui, discussioni, a tu per tu cioè con la faccia prosaica del cinema, quella che un regista, almeno girando, dovrebbe ignorare. È triste constatare de visu che una storia di personaggi, un conflitto di sentimenti e di psicologie, uno svolgersi di stati d’animo e di atmosfere diventano un affare; che sentimenti, stati d’animo, atmosfere pesano sulla bilancia della speculazione.

È avvilente dover raccontare la vicenda decine e decine di volte a facce sconosciute (non so perché, ma a certe facce non riesco a raccontare certe storie); trovarsi di fronte alle reazioni, alle espressioni più impensate; sentirsi fare i rilievi più strani, come il seguente: «Perché non facciamo che Momina ha un cane che poi muore nel Po? È più commovente».

Da Cinema Nuovo n. 76, 10 febbraio, 1956, p. 88

Giuseppe Marotta

Dite che sono una belva o un tanghero, ma quando finì Le amiche e mi alzai, e riebbi le cose e la gente effettive proruppi: “Mi sento come se uscissi dal Consiglio di Leva, dopo un’ora di nudità e di gelo, col mio certificato di riforma in tasca”. Decine di occhi pesti e di facce lucide mi risposero che avevo ragione. Ognuno si restituiva lietamente alla propria insufficienza o ai propri guai: scomodi, certo, ma naturali, genuini. E che diamine. Confesso di non aver letto il racconto di Pavese a cui s’è aggrappato Antonioni; ciò se da un lato mi rincresceva e forse mi impoveriva, dall’altro mi assicurava quella fertile indipendenza di giudizio senza la quale un critico, valga quanto valga, è spacciato. Bene, vi avverto anzitutto, con la virile concisione di un cartello di taglia affisso a un albero del Far West, che Le amiche non è un racconto e non è un film. Si tratta di alcuni verbosi, prolissi, frangiati appunti su due signore e due signorine del ceto medio, collocate, una eccezionalmente e tre stabilmente, nella geometrica e linda città di Torino.

La prima, Clelia, e una ragazza d’affari giunta da Roma per inaugurare un atelier di mode. Nella sua camera d’albergo ella si accinge a lavarsi, ma non è agevole. Infatti la morte bussa all’uscio della stanza accanto, qui la ricca ma infelice Rosetta ha ingerito molto veronal. Che impiccio. La moribonda va all’ospedale e Clelia deve spiegare alla polizia: “Sono una cliente dell’hotel”.

Poi arriva Momina De Stefani, amica di Rosetta; e domanda (testuale): “Non ha per caso visto una lettera? Dicono che si fa così. Si lascia una lettera sul comodino”. Clelia è spiacente ma non ha visto lettere. Si reca all’atelier, dove i lavori, per colpa dell’architetto Cesare, non sono terminati. Uno strillone grida: “La Stampa! La Stampa!”. Ciò ribadisce l’azione a Torino. Clelia investe Cesare e Cesare tenta di rabbonirla. Uditeli. Cesare: “Non si preoccupi. Fra qualche giorno tutto sarà in pedine”. Clelia: “Non lo crederebbe neppure un bambino”, Cesare: “Perché, lei, ha bambini?”. Clelia: “No, ma potrei averli. Per avere famiglia ci vuole senso di responsabilità”.

La maggior parte delle battute ha questa coerenza, questa grazia, questa emotività. Del pittore Lorenzo, marito di Nene (altra amica della ragazza avvelenatasi), Momina dice: “È uno di quegli uomini che ha bisogno che una donna lo ami anche per sciacquarsi i denti” (a parte la finezza dell’espressione, indovinate chi, lui o lei, senza l’amore avrebbe i denti sporchi). E ancora: “Va’ dal fotografo a farti sviluppare il cervello”. E poi, in un ristorante: “Vorrei mezzo litro di vino e qualcosa da mangiare”. E inoltre: “Rosetta, prendi l’Alfa?”. E successivamente: “Una che non e buona nemmeno ad ammazzarsi è ridicola”.

E più avanti: “Oggi è domenica, siamo tutti un po’ scemi”. Nonché, per un dono ricevuto: “Poteva mandare dei fiori, la cioccolata mi fa male”. E infine, come incitamento agli svaghi: “I principi azzurri oggi ballano il mambo. Dai retta, divertiti”.

Antonioni, abbi pazienza, non dirmi che un simile frasario e volutamente sciocco, un’arma polemica. Non basta, per dare vita a uno sciocco sulla pagina o sullo schermo, riempirlo di fatuità e idiozia. Macché, bisogna invece, per virtù di angolazione e di sintesi, arrivare al nocciolo, all’anima della stupidità. L’arte e una lente graduata, graduatissima, non un facile vetro di balcone.

I personaggi de Le amiche parlano, parlano e parlano dirottamente, perciò non fanno quasi nulla. Rosetta, guarita, si dà a Lorenzo. Ma il pittore ama in realtà sua moglie. Affranta, la ragazza si annega nel Po: ella non intende la giovinezza che come una breve parentesi di case d’appuntamenti fra due suicidi. Perché? Non lo sappiamo. Altrettanto ignoti ci sono i motivi per i quali Momina si era divisa dal marito e gli si ricongiunge poi. E Clelia? Ama riamata l’assistente dell’architetto; ma lo abbandona quando l’alta moda esige che lei torni a Roma. Appartengono a condizioni assai diverse: bel pretesto, in un mondo che vede continuamente duchi impalmare ballerine e principesse in braccio a sguatteri. Per un assistente edile c’era forse lavoro anche a Roma; non il destino recide la sartissima dall’operaio, bensì una perfida quanto opinabile congiura degli autori del film.

Non riconoscerete, ad Antonioni, che un abile, talora perfetto uso della macchina da presa. Ma il vezzo di non tenere un momento fermi gli attori mentre discorrono (vanno e vengono come animali ingabbiati, una singolare frenesia, un ballo di San Vito dell’inquadratura) gli nuoce. “Un film peripatetico”, mormorò qualcuno, forse io. Tutto quello che le tre coppie fanno, badateci, lo fanno camminando. Ne deriva un che di instabile, di fratturato, di errabondo, che accentua il carattere dispersivo, frammentario dell’opera. Gli interpreti: una filiforme Valentina Cortese, un’ancheggiante Eleonora Rossi Drago una fragile (ed eccellente, in verità) Maddalena Fischer, una capziosa Yvonne Fourneaux, contrapposte agl’immutabili Ferzetti, Manni e Fabrizi.

Da Giuseppe Marotta, Questo buffo cinema, Bompiani, Milano, 1956

Marco Chiani

Da Roma, Clelia arriva a Torino per gestire un atelier. Appena giunta in albergo entrerà in contatto con Momina, una ragazza oziosa e di agiata condizione sociale, la cui amica Rosetta, la notte prima, ha tentato il suicidio per via di un amore non corrisposto. In breve, entrerà nel giro delle due donne, conoscendo anche Nene, ceramista di successo, e il suo uomo, Lorenzo, un pittore fallito che mal sopporta i successi della compagna. La vita di Clelia sarà presto assorbita dalle abitudini e dal modo di pensare di quest’annoiata borghesia.

Da Tra donne sole di Cesare Pavese, contenuto all’interno del trittico La bella estate, Michelangelo Antonioni estrae un’opera di forte indagine psicologica, servita da dialoghi secchi, lineari e per questo ancora più idonei a sviscerare l’indolenza in cui tutto è immerso. Con attento sguardo antropologico su una Torino borghese, vista dagli occhi di chi vi è appena ritornata da un’altra città, Le amiche fornisce un campionario umano di scorata tristezza, fatto di sotterfugi e piccole ignobiltà, fallimenti e diffusa mancanza d’amore. I rapporti tra i personaggi, infatti, sembrano fare capo soltanto ad una congenita assenza di fiducia nell’altro, all’opportunità e alla convenzione, ad una dipendenza affettiva che è gabbia e croce per entrambi i sessi. Ci sono pagine bellissime nel quarto lungometraggio dell’autore ferrarese, sequenze che racchiudono molto della sua futura poetica: la gita al mare, in cui nuovi equilibri si stabiliscono senza sottolineature o toni forti, è quasi un film nel film, la prova generale per quel cinema dell’incomunicabilità e del disagio che dal successivo Il grido renderà grande Antonioni.

In certo modo, Clelia, le amiche e gli uomini orbitanti intorno a loro hanno più da dividere con i personaggi di L’avventura e dei successivi titoli che con la fonte letteraria dichiarata nei titoli di testa: «nella conversione dalla pagina allo schermo si perdono le mitologie pavesiane e si privilegia l’attenzione nei confronti dei riti delle nevrosi, del vuoto ideale e affettivo della borghesia torinese» (Gian Piero Brunetta, Storia del cinema mondiale, Einaudi).

Fotografato stupendamente da Gianni Di Venanzo, Le amiche è pregno di un informe senso di mistero, di una noia soffusa eppure asfissiante tipica del grande cineasta. La sceneggiatura è opera di Antonioni e di due donne: Suso Cecchi D’Amico e Alba de Céspedes. Premiato con il Leone d’argento al Festival di Venezia.

Georges Sadoul

Clelia (Eleonora Rossi-Drago), venuta a Torino per fondarvi una sartoria, si fa amica di un’indossatrice (Madeleine Fischer), d’una ceramista (Valentina Cortese), d’una ricca oziosa (Yvonne Fourneaux) e d’un arredatore (Franco Fabrizi). La più giovane delle amiche si suicida e Clelia abbandona la città.

Antonioni dice d’aver amato nel racconto di Pavese (a cui s’è liberamente ispirato) soprattutto “i personaggi femminili e il loro modo di vivere nell’intimità. S’è parlato d’una certa somiglianza tra Pavese e me. Le sue esperienze intellettuali coincisero tragicamente con le sue esperienze personali (si suicidò infatti nel 1955). Si può forse dir lo stesso di me? Non sto forse facendo dei film, dando così una prova d’ottimismo? Volevo collocare i miei personaggi sul loro sfondo, non staccarli dal loro ambiente quotidiano. Ecco perché non troverete ne Le amiche un solo campo-controcampo. La tecnica è istintiva, legata al desiderio di seguire i personaggi per svelare i loro più nascosti pensieri”.

L’analisi dei sentimenti di personaggi borghesi prosegue, con qualche punto morto. Ottima direzione d’un gruppo di attrici di valore.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Lino Miccichè

Le amiche, del 1955, offre già, rispetto ai tre lungometraggi precedenti, i chiari segni di una svolta. Esso rappresenta l’incontro di Antonioni con il mondo di Cesare Pavese al cui romanzo Tra donne sole, l’ultimo del trittico La bella estate, il film è ispirato. Ispirato, si diceva, non “tratto”, come invece si è soliti dire: perché, infatti, nonostante le molte esterne analogie di situazioni, personaggi e dialoghi, il film ha un’autonomia quasi totale rispetto al testo letterario, cui pure si riferisce. Basti sottolineare che qui, alla narrazione pavesiana “in soggettiva”, che offre una radiografia del “bel mondo” torinese attraverso l’ambiguo sguardo di Clelia, Antonioni sostituisce un occhio che oggettiva tutti i personaggi, Clelia e Rosetta, Momina e Nene, incrociando il loro vuoto agitarsi e annoiarsi, essere aridi e soli, disperati e futili, ad una sorta di media distanza dal proprio punto di vista, senza condanne e al contempo senza pietà, in una laica fenomenologia della dissoluzione esistenziale e morale che precede di cinque anni quella, indubbiamente assai più clamorosa e significativa, ma anche più inquinata di ambigue venature spiritualistiche, della felliniana Dolce vita.

Certamente, come tutte le opere del primo Antonioni, Le amiche non ha la compattezza narrativa e il rigore stilistico dei film della maturità. Ma nonostante l’apparente distacco dall’immediatezza della cronaca — che lo fece a volte, in quegli anni, classificare come «formalista» (confondendo la responsabilità della forma con il vizio del suo parossismo) — Antonioni si conferma con Le amiche (e in generale in tutti questi suoi primi lungometraggi) il cineasta italiano più sensibile se non alle “voci” quanto meno agli “ultrasuoni” degli anni in cui opera.

Egli punta, cioè, ad offrire i sintomi più allarmanti delle trasformazioni ed evoluzioni che, nella psicologia e nei sentimenti della classe egemone, sta producendo (anzi ha già in buona parte prodotto, pur se non sono in molti ad accorgersene: per questo parlavamo di “ultrasuoni”) l’assestamento del paese sull’asse della normalizzazione conseguente al 18 aprile del 1948; e che ha proprio negli anni ’50 il proprio epicentro. In stagioni durante le quali il cinema italiano o si consola di tardiva ideologia populista o tende a consolare con il più sgangherato bozzettismo vernacolo, la laica fermezza di questo cineasta “borghese”, così coerentemente impietoso verso la borghesia, è veramente esemplare.

Da La ragione e lo sguardo, Cosenza, Lerici, 1979, pp. 215–216

Stefano Lo Verme

Clelia è appena arrivata a Torino per dirigere un atelier di alta moda. Nella stanza d’albergo accanto alla sua, una ragazza di nome Rosetta tenta il suicidio dopo una delusione d’amore; e mentre Rosetta viene ricoverata, Clelia entra a far parte del piccolo gruppo di amiche della giovane, che comprende l’elegante e cinica Momina e la ceramista Nene, compagna del pittore Lorenzo, l’amante di Rosetta.

Tratto dal racconto Tra donne sole di Cesare Pavese, adattato per il grande schermo dal regista Michelangelo Antonioni con Suso Cecchi D’Amico e Alba de Céspedes, Le amiche è un disincantato ritratto della classe borghese, ambientato negli eleganti salotti della città di Torino. Premiato con il Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1955, Le amiche è una pellicola corale che ha per protagonista Clelia, interpretata dall’attrice Eleonora Rossi Drago: una giovane donna proveniente da Roma che si trova a Torino per occuparsi dell’inaugurazione di un atelier, e che verrà coinvolta nella rete di intrighi e di rivalità di un gruppo di amiche dell’alta società torinese.

Per certi versi, il film di Antonioni potrebbe apparire quasi come la versione italiana di Donne di George Cukor: anche qui, infatti, al centro della narrazione abbiamo un’interessante galleria di personaggi femminili, ritratti dal regista con sguardo asciutto e realistico. Il fulcro della trama è costituito proprio dai rapporti fra le “amiche” del titolo, tra confidenze e pettegolezzi, passioni e tradimenti che si consumano su uno sfondo tipicamente borghese, per culminare infine in un epilogo amarissimo e niente affatto consolatorio. I protagonisti (ma soprattutto le protagoniste) sono rappresentati con ammirevole finezza psicologica, per merito di una sceneggiatura accurata e ricca di sfumature, ma anche per l’eccellente direzione del cast.

Fra i vari titoli del primo periodo della carriera di Antonioni, Le amiche resta senza dubbio uno dei più riusciti, oltre che uno dei migliori prodotti del cinema italiano del decennio. Brave tutte le attrici, bravissima Valentina Cortese nel ruolo di Nene, la donna che sopporta in silenzio le infedeltà del compagno Lorenzo (Gabriele Ferzetti), un artista in crisi che farà innamorare di sé la giovane e fragile Rosetta (Madeleine Fischer).

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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