L’assenza delle élite nella storia spagnola
Ragioni e conseguenze
di José Ortega y Gasset
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [dicembre 2021]
Estratto da José Ortega y Gasset, España Invertebrada. Bosquejo de algunos pensamientos históricos, Calpe, Madrid, 1921
L’assenza dei «migliori»
La prima cosa che lo storico deve fare per definire il carattere di una nazione o di un’epoca è fissare la specifica equazione in base alla quella si sviluppano le relazioni delle masse con le élite al proprio interno. La formula che risolverà questa equazione sarà la chiave segreta per accedere alle più intime pulsazioni di quel corpo storico.
Ci sono popoli che hanno avuto una penuria mostruosa di personalità esemplari, dietro le quali c’era solo una massa esigua, inadeguata e ribelle. Questo è stato il caso della Grecia, e ciò è all’origine della sua instabilità storica. Venne un momento in cui la nazione ellenica era diventata come un’industria in cui si producevano solo modelli, invece di accontentarsi di fissare alcuni “standard” e di produrre in abbondanza “merce umana” conforme a tali modelli. Brillante sul piano culturale, la Grecia era incoerente come corpo sociale e come Stato.
Il contrario è avvenuto in Russia e in Spagna, collocate ai due vertici della grande diagonale europea. Molto diverse l’una dall’altra per una serie di caratteristiche, la Russia e la Spagna condividono la sorte di essere i due “popoli” che hanno sofferto di più di una carenza evidente e duratura di individui eminenti. La nazione slava è un’enorme massa di persone su cui regna una piccola testa. C’è sempre stata, è vero, una nobile minoranza che ha agito sulla vita russa, ma una minoranza di dimensioni troppe esigue in confronto alla vastità di un popolo che non ha mai saputo organizzarsi. Da qui l’aspetto protoplasmatico, amorfo, persistentemente primitivo dell’esperienza russa.
Per quanto riguarda la Spagna …. È strano che il tratto più caratteristico della nostra lunga storia, che è così evidente, non sia stato portato ancora alla luce. Parlo della sproporzione continua tra il valore del nostro popolo e quello delle nostre élite. La personalità autonoma, che adotta un atteggiamento individuale e consapevole verso la vita, è stata estremamente rara nel nostro paese. Qui è stato fatto tutto dal “popolo”, e ciò che il “popolo” non è stato in grado di fare è rimasto incompiuto. Ora, il “popolo” non può esercitare che delle funzioni elementari della vita; non può fare scienza, né arte superiore, né creare una civiltà dotata di tecniche complesse, né organizzare uno stato di forte e duratura consistenza, né distillare dalle pratiche magiche una religione elevata.
Infatti l’arte spagnola è meravigliosa nelle sue forme popolari e anonime — canzoni, danze, ceramiche — e molto povera nelle sue forme erudite e personalizzate. Occasionalmente è sorto un uomo di genio, il cui lavoro isolato e solitario non è riuscito ad elevare il livello medio della situazione. Tra lui, individuo solitario e la massa comune, non c’era nessun intermediario e quindi nessuna comunicazione. Eppure, anche questi rari geni spagnoli sono sempre stati un mezzo “popolo”, senza che la loro opera sia mai riuscita a liberarsi completamente da una matrice plebea o volgare.
La nota che distingue il lavoro eseguito dalle masse da quello prodotto dallo sforzo personale è “l’anonimato”. Confrontate tutta la storia dell’Inghilterra o della Francia con la nostra storia nazionale, e vedrete il carattere anonimo del nostro passato rispetto al brulicare di personalità sulla scena di quelle nazioni.
Mentre la storia della Francia o dell’Inghilterra è una storia fatta principalmente da minoranze, qui tutto è stato fatto dalle masse, direttamente o attraverso la loro condensazione virtuale nel potere pubblico, politico o ecclesiastico. Quando entriamo nei nostri villaggi millenari vediamo chiese ed edifici pubblici. La creazione individuale è quasi completamente assente. Non notiamo la povertà della nostra architettura civile privata? I “palazzi” delle vecchie città sono, a rigore, stanze molto modeste sulla cui facciata la vanità degli stemmi gesticola pretenziosamente. Se si toglie da Toledo, la Toledo imperiale, l’Alcázar e la Cattedrale, rimane solo un misero villaggio.
Così, come sono mancati uomini di firte sensibilità artistica, capaci di creare uno stile personale, sono mancati anche temperamenti forti, capaci di concentrare una grande energia sociale nella propria persona, e grazie a questa qualità possono realizzare grandi opere di tipo materiale o morale.
Guardate dove volete il caso spagnolo oggi, ieri o l’altro ieri, e sarete sempre sorpresi dall’anomala assenza di una ancor piccola minoranza. Questo fenomeno spiega tutta la nostra storia, compresi quei fugaci momenti di grandezza.
Ma parlare della storia della Spagna è parlare dell’ignoto. Si può affermare che quasi tutte le idee sul passato nazionale che oggi vivono nelle mente degli spagnoli sono fatue e spesso grottesche. Questo repertorio di concezioni, non solo false, ma intellettualmente mostruose, è precisamente uno dei grandi ostacoli al miglioramento della nostra vita.
Non voglio avventurarmi ora ad esporre con troppa concisione ciò che, a mio parere, costituisce il profilo essenziale della storia spagnola. Il mio pensiero è così poco ortodosso; è così contrario al canone abituale che ne verrebbe fuori una storia di Spagna capovolta.
Ma c’è un punto che sono obbligato a toccare. Abbiamo costantemente sentito dire che una delle virtù preminenti della nostra storia è che non c’è stato il feudalesimo in Spagna. Per questa volta sono d’accordo, l’opinione preminente è, in parte, corretta: in Spagna non c’è stato quasi nessun feudalesimo; solo che questo, lungi dall’essere una virtù, fu la nostra prima grande disgrazia e la causa di tutte le altre.
La Spagna è un organismo sociale, per così dire; un animale storico appartenente a una specie particolare, a un tipo di società o “nazione” germogliata nell’Europa centrale e occidentale quando l’Impero Romano soccombette. Ciò significa che la Spagna ha una struttura specifica identica a quella di Francia, Inghilterra e Italia.
Le quattro nazioni sono formate dalla congiunzione di tre elementi, due dei quali sono comuni a tutti e solo uno è una variante. Questi tre elementi sono: la razza relativamente autoctona, il sedimento civile romano e l’immigrazione germanica.
Il fattore romano, identico ovunque, rappresenta un elemento neutro nell’evoluzione delle nazioni europee. A prima vista sembra logico ricercare il principio decisivo di differenziazione tra queste nazioni su base autoctona, per cui la Francia si differenziò dalla Spagna tanto quanto la razza gallica si differenziò dalla razza iberica. Ma questo è un errore.
Non intendo, naturalmente, negare la il differente ruolo dei Galli e degli Iberi nello sviluppo della Francia e della Spagna; ciò che nego è che sia la differenziazione decisiva. E non lo è, per una semplice ragione. Ci sono state nazioni che si sono formate dalla fusione di vari elementi su uno stesso piano. Quasi tutte le nazioni asiatiche si sono formate così. Le persone A e le persone B si sono fuse insieme senza che una delle due abbia avuto un rango superiore nella dinamica di questa unione. Ma le nostre nazioni europee hanno un’anatomia e una fisiologia storica molto diversa da quelle orientali.
Come ho detto prima, esse appartengono a una specie zoologica diversa e hanno la loro particolare biologia. Sono società nate dalla conquista di un popolo ad opera di un altro — non di un popolo da parte di un esercito, come accadde a Roma. I tedeschi conquistatori non si fusero con i nativi conquistati sullo stesso piano, orizzontalmente, ma verticalmente. Furono influenzati dai vinti, come lo furono dalla civiltà romana; ma essenzialmente sono loro a imporre lo stile sociale alla massa sottomessa; sono loro il potere che forma e organizza; sono la “forma”, mentre gli indigeni sono la “materia”. Sono l’ingrediente decisivo; sono i “decisori”. Il carattere verticale delle strutture nazionali europee che, man mano che si formano, le mantiene articolate in due livelli o strati e questa mi sembra la caratteristica tipica della loro biologia storica.
Essendo dunque i tedeschi l’ingrediente decisivo, lo sarà anche ai fini della differenziazione, con la quale arrivo a un pensiero che può sembrare scandaloso, ma che voglio brevemente formulare, cioè che la differenza tra Francia e Spagna deriva, non tanto dalla differenza tra Galli e Iberi, quanto dalla diversa qualità dei popoli germanici che invasero entrambi i territori. Va dalla Francia alla Spagna come va dai Franchi ai Visigoti.
Purtroppo, tra franchi e visigoti c’è unmoltadistanza. Se si dovessero collocare i popoli germanici immigrati su una scala di maggiore o minore vitalità storica, i Franchi occuperebbero il grado più alto, i Visigoti un grado molto più basso. Questo diverso potenziale degli uni e degli altri era originario, nativo?
Questo non è qualcosa che possiamo esplorare ora, né ha importanza per la nostra domanda. Il fatto è che quando i Franchi entrarono in Gallia e i Visigoti in Spagna, essi rappresentavano già due diversi livelli di energia umana. I Visigoti erano il popolo più antico della Germania: avevano vissuto fianco a fianco con l’Impero Romano nella sua ora più corrotta: avevano subito la sua influenza diretta e avvolgente.
Per questa ragione, era il più “civilizzato”, cioè il più riformato, deformato e ottuso. Ogni “civiltà” ricevuta è sicuramente fatale a chi la riceve. Perché la “civiltà” — in opposizione alla cultura -– è un insieme di tecniche meccanizzate, di impulsi artificiali, di lusso o “luxuria” che si forma per decantazione nella vita di un popolo. Inoculato in un altro organismo popolare è sempre tossico, e in dosi elevate è letale. Un esempio: l’alcol è stata una “luxuria” apparsa nelle civiltà bianche, che, pur danneggiate dal suo uso, si sono dimostrate capaci di sopportarlo. D’altra parte, trasmesso all’Oceania e all’Africa nera, l’alcol ha annientato intere razze.
I Visigoti germanici, ubriachi di romanità, erano un popolo decadente che aveva vagato nello spazio e nel tempo quando arrivarono in Spagna, l’ultimo angolo d’Europa dove trovarono un po’ di riposo. Al contrario, i Franchi irruppero intatti nella dolce terra di Gallia, riversandovi il torrente indomito della loro vitalità.
Ci sono persone che, quando sentono parlare di vitalità, pensano a una figura con muscoli poderosi, capace di mangiare un orso e bere una botte di vino. Per queste persone, la vitalità è sinonimo di brutalità. Vorrei che i miei lettori intendessero per vitalità semplicemente la potenza di creazione organica nella quale consiste la vita, qualunque sia la sua origine misteriosa. La vitalità è il potere della cellula sana di generare un’altra cellula e vitalità è anche la forza arcana che crea un grande impero storico. In ogni specie e varietà di esseri viventi la vitalità o la potenza della creazione organica prende una direzione o uno stile particolare.
Come il semita e il romano avevano il loro stile di vitalità, così lo aveva il germanico. Questi ha creato l’arte, la scienza, la società in un certo modo, e solo in un certo modo, secondo un certo modulo, e solo secondo esso. Quando nella storia di un popolo si nota l’assenza o la scarsità di certi fenomeni tipici, si può essere sicuri che si tratta di un popolo sofferente, decadente, devitalizzato. Un popolo non può scegliere tra diversi stili di vita: o vive secondo il suo, o non vive affatto. È inutile aspettarsi che uno struzzo voli come un’aquila.
Nella creazione di forme sociali, il tratto più caratteristico dei tedeschi fu il feudalesimo. La parola è inappropriata e fuorviante, ma l’uso l’ha imposta in questo modo. In senso stretto, solo l’insieme delle formule giuridiche utilizzate dall’XI secolo per definire le relazioni tra “signori” o “nobili” dovrebbe essere chiamato feudalesimo. Ma ciò che è importante non è la schematicità di queste formule, ma lo spirito che preesisteva e che ha continuato ad operare dopo il loro abbandono.
Io chiamo questo spirito feudale. La prima cosa che fa lo spirito romano, per organizzare un popolo, è fondare uno stato. Non concepisce l’esistenza e l’azione degli individui se non come membri sottomessi di questo Stato, della “Civitas”.
Lo spirito germanico ha uno stile opposto. Il popolo consiste per lui in pochi uomini energici che con la forza del loro pugno e l’ampiezza del loro spirito sanno imporsi sugli altri e, seguendoli, possono conquistare territori, farsi “signori” delle terre. Il romano non è il “signore” della sua gleba: è, in un certo senso, il suo servo. Il romano è un contadino.
D’altra parte, i tedeschi hanno impiegato molto tempo per imparare e accettare il commercio agricolo. Finché in Germania aveva davanti a sé vasti campi e ampie foreste in cui cacciare, disdegnava l’aratro. Quando la popolazione cresceva e ogni tribù o nazione si sentiva schiacciata da quelle circostanti, doveva rassegnarsi per un momento e mettere mano alla spada dall’impugnatura ricurva. La loro sottomissione al compito pacifico fu di breve durata. Non appena il recinto delle legioni imperiali fu indebolito, i tedeschi decisero di conquistare i campi fertili del sud e dell’ovest e di incaricare i popoli sconfitti di coltivarli. Questo dominio sulla terra, basato proprio sul fatto che non è coltivata, è la “signoria”.
I “signori” erano la potenza organizzatrice delle nuove nazioni. Non nasce, come a Roma, da uno stato comunale, da un’idea collettiva e impersonale, ma da persone in carne e ossa. Lo stato germanico consiste in una serie di relazioni personali e private tra i signori. Per la coscienza contemporanea è evidente che il diritto viene prima della persona e, poiché il diritto implica la sanzione, anche lo stato sarà anteriore alla persona. Oggi, un individuo che non appartiene a nessuno stato non ha diritti. Per il germanico, ciò che è giusto è l’opposto. La legge esiste solo come attributo della persona. Il Cid, quando fu cacciato dalla Castiglia, non era cittadino di nessuno stato, eppure possedeva tutti i suoi diritti. L’unica cosa che perse fu la sua relazione privata con il re e i privilegi che ne derivavano.
Questa azione personale dei signori germanici fu lo scalpello che scolpì le nazionalità occidentali. Ognuno organizzò la sua signoria, vi impresse la sua influenza individuale. Lotte, amicizie, legami con i signori vicini produssero unità territoriali sempre più grandi, fino alla formazione dei grandi ducati. Il re, che in origine era solo il primo tra pari, “primus inter pares”, cercava costantemente di indebolire questa potente minoranza. A tal fine, fece affidamento sul “popolo” e sulle idee romane. In certi momenti i “signori” sembravano essere sconfitti e l’unitarismo monarchico-plebeo-sacerdotale sembrava trionfare. Ma il vigore dei signori franchi si riprese e la struttura feudale riapparve presto.
Chi crede che la forza di una nazione consista solo nella sua unità giudicherà il feudalesimo come pernicioso. Ma l’unità è sicuramente buona solo quando unifica grandi forze preesistenti. C’è anche un’unità inerte che si ha attraverso la mancanza di vigore degli elementi che si sono unificati.
È quindi un grande errore supporre che la debolezza del feudalesimo fosse un bene per la Spagna. Quando sento il contrario, mi dà la stessa impressione do sentir dire: è un bene che nella Spagna attuale ci siano pochi saggi, pochi artisti e, in generale, pochi uomini di grande talento, perché il vigore intellettuale promuove grandi discussioni e porta a lotte e scontri.
Ebbene: ciò che nella società attuale rappresenta la èlite, era nell’ora germinale delle nostre nazioni la minoranza dei feudatari. In Francia furono molti e potenti; riuscirono a plasmare storicamente, a riempire di senso della nazione l’ultimo atomo della massa del popolo. Per questo fu necessario che il corpo francese vivesse lunghi secoli separato in innumerevoli molecole, che, man mano che raggiungevano la maturità della coesione interna, si intrecciavano in trame più complesse e più ampie, fino a formare province, contee e ducati. Il potere dei “signori” difendeva questo necessario pluralismo territoriale contro una prematura unificazione in un regno.
Ma i Visigoti, arrivati esausti e corrotti, non avevano questa élite. Un soffio d’aria africana li spazzò via dalla penisola e quando la marea musulmana cedette, si formarono dei regni, con tanto di monarca e di plebe, ma senza una élite nobiliare. Mi si dirà che, nonostante questo, abbiamo avuto i nostri otto gloriosi secoli di riconquista. E a questo rispondo semplicemente che non capisco come si possa chiamare Reconquista una cosa che è durata otto secoli. Se ci fosse stato il feudalesimo, ci sarebbe stata probabilmente una vera Reconquista, come altrove ci furono crociate, meravigliosi esempi di vitalità, di energia traboccante e di sublime agonismo storico.
L’anomalia della storia spagnola è stata troppo permanente per essere dovuta a cause accidentali. Cinquant’anni fa, si pensava che la decadenza nazionale fosse in corso solo da pochi decenni. Costa e la sua generazione cominciarono a intravedere che la decadenza era già in atto da due secoli. Quindici anni fa, quando cominciai a meditare su questi argomenti, cercai di dimostrare che la decadenza si estendeva su tutta l’epoca moderna della nostra storia. Ragioni di metodo, che non è utile ripetere ora, mi hanno consigliato di limitare il problema a quel periodo, il più noto della storia europea, per rendere più facilmente precisa la diagnosi della nostra debolezza.
In seguito, ulteriori studi e riflessioni mi hanno insegnato che la decadenza spagnola non fu minore nel Medioevo che nell’epoca moderna e contemporanea. Ci sono stati alcuni momenti di sufficiente salute; ci sono state anche ore di splendore e di gloria universale; ma il fatto ovvio che nel nostro passato l’anormalità è stata la norma salta sempre agli occhi. Arriviamo quindi alla conclusione che tutta la storia della Spagna, ad eccezione di giorni fugaci, è stata una storia di decadenza.
Questo, ovviamente, è assurdo. La decadenza è un concetto relativo a uno stato di salute; e poiché la Spagna non è mai stata i salure — vedremo che neanche il suo momento migliore è stato sano — non si può dire che sia decaduta.
Non è un gioco di parole? Non credo. Se parliamo di decadenza, come se parlassimo di malattia, tenderemo a cercarne le cause negli eventi, nelle disgrazie che hanno colpito chi ne soffre. Cercheremo l’origine del male al di fuori del paziente. Ma se siamo convinti che quest’ultimo non è mai stato sano, rinunceremo a parlare di decadenza e a ricercarne le cause; parleremo invece di difetti di costituzione, di insufficienze originarie, native, e questa nuova diagnosi ci porterà a cercare cause di tutt’altro tipo, cioè non esterne al soggetto, ma intime, costituzionali.
Questo è il senso di trasferire l’intera questione dall’Età Moderna al Medioevo, l’epoca in cui la Spagna si è costituita. E se avessi qualche autorità sui giovani capaci di impegnarsi nella ricerca storica, raccomanderei loro di smettere di menare il can per l’aia e di studiare i secoli centrali e la formazione della Spagna. Tutte le spiegazioni che sono state date per il suo declino non reggono a cinque minuti della più cruda analisi. E questo è naturale, perché la causa di una decadenza difficilmente può essere trovata quando questa decadenza non è esistita.
Il segreto della sfortuna della Spagna si trova nel Medioevo. Chi vuole provare una lettura parallela delle nostre cronache medievali e di quelle francesi, lo scoprirà. Il risultato sarà spaventoso per la sua stessa evidenza e luminosità. Questo confronto rivela che, più o meno, esisteva in quel periodo la stessa distanza tra la vita spagnola e quella francese che esiste oggi.
Ma lasciamo perdere. Nell’ordine di pensieri di questo saggio, ho voluto solo sottolineare uno dei difetti più gravi e permanenti della nostro popolo: l’assenza di una élite, sufficiente per numero e qualità. La cachessia del feudalesimo spagnolo significa che questa assenza era originaria; che i “migliori” mancavano già nell’ora augurale della nostra genesi; che la nostra nazionae, insomma, aveva un’embriogenia difettosa.
La migliore prova che un’idea può ricevere è quella che serve a spiegare, oltre alla regola, l’eccezione. La scarsità e la debolezza dei “signori” spiega la mancanza di vigore che affligge il nostro Medioevo. Beh, spiega anche la nostra mancanza di vigore dal 1480 al 1600, il grande secolo di Spagna.
È sempre stato sorprendente che dallo stato miserabile in cui si trovava il nostro popolo intorno al 1450, in cinquant’anni o poco più, si sia elevato a una potenza sconosciuta nel nuovo mondo e paragonabile solo a quella di Roma nel vecchio. È scoppiata improvvisamente in Spagna una potente fioritura di cultura? È stata creata in così breve tempo una nuova civiltà con tecniche potenti e sofisticate? Niente affatto. Tra il 1450 e il 1500 si verificò solo un nuovo evento importante: l’unificazione della penisola.
La Spagna ha avuto l’onore di essere la prima comunità a diventare una nazione, a concentrare tutte le sue energie e capacità nel pugno di un re. Questo è sufficiente per rendere comprensibile la sua immediata ascesa. L’unità è un apparato formidabile che, da solo, e anche se è molto debole, rende possibili grandi imprese. Mentre il pluralismo feudale manteneva disperso il potere di Francia, Inghilterra e Germania e un atomismo municipale dissociava l’Italia, la Spagna divenne un corpo compatto ed elastico.
Ma con la stessa subitaneità dell’ascesa del nostro popolo nel 1500, avvenne la sua caduta nel 1600. L’unità ha agito come un’iniezione di vitalità artificiale senza essere un sintomo di potenza vitale. Al contrario: l’unità è nata così presto perché la Spagna era debole, perché mancava un forte pluralismo sostenuto da grandi personalità di tipo feudale. Il fatto, d’altra parte, che anche a metà del XVII secolo, i magnifici fremiti della Fronda scuotevano ancora il corpo della Francia, lungi dall’essere un sintomo di morbosità, rivelavano i giacimenti di vitalità ancora intatti che i francesi avevano conservato dai Franchi.
Sarebbe bene, quindi, capovolgere la valutazione abituale. La mancanza di feudalesimo, che era considerata una cosa buona, era una disgrazia per la Spagna; e la precoce unità nazionale, che sembrava un segno glorioso, era propriamente la conseguenza del precedente impoverimento.
Il primo secolo di unità peninsulare coincise con l’inizio della colonizzazione americana. Non sappiamo ancora cosa sia stato questo meraviglioso evento. Non conosco nemmeno un tentativo di ricostruire i suoi caratteri essenziali. La poca attenzione che le è stata dedicata è stata assorbita dalla conquista, che è solo il suo preludio. Ma ciò che era importante, ciò che era meraviglioso, non era la conquista — senza che io voglia sminuire la sua grandezza –; ciò che era importante, ciò che era meraviglioso, era la colonizzazione.
Nonostante la nostra ignoranza al riguardo, nessuno può negare le sue dimensioni come evento storico di grande importanza. Per me, è evidente che è l’unica cosa veramente, sostanzialmente grande che la Spagna abbia mai fatto. Che cosa strana da dire! Basta avvicinarsi un po’ al gigantesco evento, anche se si rinuncia a decifrare i suoi retroscena segreti, per rendersi conto che la colonizzazione spagnola dell’America fu un’opera popolare.
La colonizzazione inglese fu portata avanti da potenti élite. Le grandi aziende presero l’impresa nelle loro mani. I “gentiluomini” inglesi erano stati i primi ad abbandonare lo strumento della guerra e a preferirgli il commercio e l’industria come nobili attività. In Inghilterra, lo spirito audace del feudalesimo riuscì presto a spostarsi verso imprese meno bellicose e, come ha dimostrato Sombart, contribuì notevolmente alla creazione del capitalismo moderno.
L’impresa guerriera si trasforma in un’impresa industriale e il paladino in un imprenditore. La mutazione è facile da capire: durante il Medioevo l’Inghilterra era un paese molto povero. Il “signore” feudale doveva periodicamente scendere sul continente in cerca di bottino. Quando il bottino era esaurito, all’ora di pranzo la signora del feudatario gli serviva uno sperone su un vassoio. Il cavaliere sapeva cosa significava: dispensa vuota. Metteva lo sperone e partiva per la Francia, una terra di abbondanza.
La colonizzazione inglese fu l’azione riflessiva di minoranze, organizzata in consorterie economiche o per secessione di un élite alla ricerca di terre dove potevano servire meglio Dio. Nella colonizzazione spagnola, è il “popolo” che direttamente, senza scopo cosciente, senza leader, senza tattica deliberata, genera altri popoli. La grandezza e la miseria della nostra colonizzazione vengono entrambe da qui. La nostra “gente” ha fatto tutto quello che doveva fare: ha popolato, ha coltivato, ha cantato, ha gemuto, ha amato. Ma non poteva dare alle nazioni che ha generato ciò che non aveva: disciplina superiore, cultura vivace, civiltà progressiva.
Credo che ora si capirà meglio ciò che ho detto sopra: in Spagna il “popolo” ha fatto tutto, e ciò che il “popolo” non ha élite, così come un corpo vivente non è solo un muscolo, ma anche un ganglio nervoso e un centro cerebrale.
L’assenza di élite, o almeno la loro scarsità, agisce su tutta la nostra storia, e ci ha impedito di essere una nazione sufficientemente normale, come lo sono state le altre nate da condizioni simili. Non c’è da stupirsi che io attribuisca a un’assenza, una negazione, una performance positiva. Nietzsche ha giustamente sostenuto che le nostre vite sono influenzate non solo dalle cose che ci succedono, ma anche, e forse di più, dalle cose che non ci succedono.
L’assenza delle élite ha creato nella massa, nel “popolo”, una cecità storica incapace di distinguere il migliore dal peggiore; così che quando appaiono élite nella nostra terra, la “massa” non sa come approfittarne, e spesso le annienta.
Siamo un popolo “paesano”, una razza agricola, un temperamento rurale. Quello che chiamo ruralismo è il segno più caratteristico delle società senza élite. Quando si attraversano i Pirenei e si entra in Spagna, si ha sempre l’impressione di arrivare in un villaggio di contadini.
La figura, il gesto, il repertorio di idee e sentimenti, le virtù e i vizi sono tipicamente rurali. A Siviglia, una città vecchia di tremila anni, difficilmente si incontrano per le strade delle fisionomie non contadine. Sarete in grado di distinguere tra il contadino ricco e il contadino povero; ma vi mancherà quella raffinatezza di tratti che produce l’urbanizzazione la quale forma un tipo di persona, il prodotto di una città tre volte millenaria.
Ci sono comunità che rimangono per sempre in quello stadio elementare dell’evoluzione che è il villaggio. Può anche essere un enorme quartiere, ma il suo spirito sarà sempre contadino. Ci sono città nel Sudan — Kano, Bida, per esempio — di duecentomila e più abitanti, che hanno mantenuto la loro esistenza rurale per centinaia e centinaia di anni.
Ci sono villaggi contadini, “felahs”,”mujik”…; vale a dire, villaggi senza “aristocrazia”.
Da José Ortega y Gasset, España Invertebrada. Bosquejo de algunos pensamientos históricos, Calpe, Madrid, 1921, pp. 143–167