L’arte proibita, da Hollywood ai nuovi comandamenti di oggi

Le vie infinite della censura

Mario Mancini
7 min readApr 4, 2021

di Paolo Marcucci

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Balthus, “Thérèse Dreaming” (1938), The Metropolitan Museum of Art, New York

Nonostante la saggezza popolare dei proverbi sappia, da sempre, che non c’è regola senza eccezione, i saggi hanno sempre cercato di scrivere norme e leggi per limitare la naturale tendenza degli uomini a eluderle. Il dito di Dio in persona, narra la leggenda cristiana per dare ancora più forza alle parole, ha scritto e inciso le Tavole della Legge, i dieci comandamenti, prima di darle a Mosè, il profeta, che in realtà è una figura, un emblema, basilare e trasversale alle tre grandi religioni: ebraica, cristiana e islamica, che risale al XIII secolo a.C.

Anche le società di oggi, ogni tanto si accorgono quando i propri comandamenti sono troppo ignorati, o dimenticati, e allora intervengono a creare altre tavole della legge, per educare e indirizzare positivamente l’energia sociale che caratterizza gli esseri umani.

Il codice Hays e maccartismo

Esemplare in questo senso, è la condotta morale, e il conseguente tentativo di fustigazione, che talvolta nel ciclo storico pervade gli Stati Uniti d’America, prima di trasferirsi al resto del mondo occidentale. Tra il 1934 e il 1967 entrò in vigore il Codice Hays, che prese il nome del suo estensore, Will H. Hays. Erano delle linee guida di regole etiche che governavano le produzioni del cinema, elencando dettagliatamente quello che non era “moralmente accettabile”, partendo dai tre principi generali:

1) Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
2) Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
3) La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

I principi furono tradotti e declinati in vere e precise istruzioni molto particolareggiate, minuziose, che riguardavano ogni aspetto della rappresentazione cinematografica della vita delle persone.

Per esempio, andavano dai crimini contro la legge, che non dovevano mai essere presentati in modo tale da suscitare simpatia o desideri di emulazione, fino al matrimonio, dove l’istituto santo della famiglia doveva essere sempre sostenuto, e quindi di contrappasso, l’adulterio, anche quando necessario alla storia, andava minimizzato e non invece messo in forme e modi attraenti.

Betty Boop, il cartone, prima e dopo l‘applicazione del codice Hays.

Di conseguenza il sesso e le scene di passione, dovevano essere presentate in modo tale da non scaturire emozioni pericolose, e i baci prolungati e lussuriosi non dovevano essere mostrati.

D’altra parte siamo anche nel periodo del maccartismo[1] politico, contraddistinto, caratterizzato, volto a combattere ad ogni livello il pericolo (inesistente?) della rivolta sovversiva e comunista, con attacchi verso uomini e persone di governo e dello spettacolo che erano visti come pericolosi per lo stile di vita della società americana, tanto che fu anche definita come una moderna caccia alle streghe medievale.

Tutto questo in un incerto equilibrio, perché allo stesso tempo il cinema era la cassa di risonanza, la propaganda stessa, dell’impero americano verso il mondo: il veicolo più eclatante e appariscente.

Il codice Hays in azione

Ci sono storie emerse che riguardano anche alcuni film, entrati poi nella storia del cinema, che meritano di essere ricordate, per come dovettero fare i conti con il codice Hays.

Come Casablanca, del 1942, dove i protagonisti Rick e Ilsa (Humphrey Bogart e Ingrid Bergman) rinunciano all’amore adultero che invece era previsto nella prima sceneggiatura.

Oppure la frase, forse la più famosa del cinema, che pronuncia Clark Gable in Via col vento, che viene messa sotto processo perché conteneva la parola «damn» che era una parola vietata dal Codice Hays: “Frankly, my dear, i don’t give a damn” (“francamente, mia cara, non me ne frega un dannato niente” e tradotta in “francamente me ne infischio” (Oggi si potrebbe rendere anche in modo diverso).

Anche il cinema italiano fu sottoposto a censure e controversie per approdare al mercato americano: a Ladri di biciclette di Vittorio De Sica del 1948, fu chiesto di tagliare una scena dove il protagonista parla con delle prostitute, anche se non c’erano allusioni sessuali; oppure Roma città aperta di Roberto Rossellini, del 1945, che fu tagliato di 15 minuti per contenuti non confacenti alle regole.

Eppure, come qualcuno ha detto, il cinema racconta l’eccezione, non la regola. L’arte se fatta a regola d’arte non è più arte ma artigianato. E anche Oscar Wilde, in tempi più lontani, aveva già visto nell’arte lo specchio della società: «È assurdo immaginare una regola per cosa si dovrebbe e per cosa non si dovrebbe leggere (o creare). Più della metà della cultura moderna dipende da ciò che non si dovrebbe leggere (o creare)».

I contro codice di Al «Whitey» Schafer

Non lo farai, (thou shalt not) foto di «Whitey» Schafer

Molti autori cercarono di opporsi al moralismo e alla censura, tra cui Orson Welles, Otto Preminger, Erich von Stroheim, ma forse il più geniale di tutti fu un fotografo.

Si chiamava Al «Whitey» Schafer (1902–1951) e fu uno dei principali fotografi di scena a Hollywood negli anni ’30 e ’40. Nel 1940 pubblica questa foto dove in un solo scatto mette i dieci vizi maggiori del Codice Hays.

Richiamando i dieci comandamenti di Mosè, li elenca nell’imperativa (thou shalt not — non lo farai) Tavola della Legge, a destra sulla parete dello sfondo.

1. law defeated / la polizia sconfitta
2. inside of thigh / interno della coscia
3. lace lingerie / lingerie di pizzo
4. dead man / un uomo morto
5. narcotics / narcotici (lo spinello)
6. drinking / il bere alcol
7. esposed bosom / il seno esposto
8. gambling / il gioco d’azzardo
9. pointing gun / puntare la pistola
10. tommy gun / un mitra, arma da fuoco

Con ironia iscrisse poi la foto a una mostra, che naturalmente fu respinta e accompagnata dalla minaccia di multa, ma che non proseguì perché i giurati si erano portati a casa tutte le copie, e quindi non esisteva più “quel” corpo del reato.

Questa storia è interessante per ricordarci il filo sempre sottile tra l’espressione e la censura, tra il controllato e il controllore, che si dipana, ora più linearmente, ora più contortamente, da sempre nella storia umana, con la bilancia che si sposta dal lato di chi riesce ad accumularvi più peso.

Il furore della cultura della cancellazione

Peso che negli ultimi anni sta facendo impazzire l’ago che lo misura, nella nostra Hollywood di oggi e nell’ndustria culturale, e non si capisce quale ne sia l’esito ultimo.

Come interpretare la contestazione sempre crescente ad artisti (Balthus, Philip Roth, Mozart, Gauguin, Egon Schiele, solo per ricordarne qualcuno) secondo i canoni odierni del politicamente corretto, o del sospetto? C’è, in fondo, una differenza con la distruzione iconoclasta dei talebani al patrimonio dei siti archeologici più importanti del mondo? Cos’è veramente quello che viene chiamato cancel culture?

L’arte, allora, diventa il mezzo per purificare e risarcire le varie identità, riconosciute e meritevoli, offese perché vittime discriminate qui e ora o dalla storia.

Ormai c’è una censura preventiva prima dell’esposizione d’arte, non dopo, per paure di grane legali e contestazioni virali sui social, che finirebbero per accusare l’organizzatore (il museo, la libreria, l’ente…) di guadagnare sul voyeurismo di ogni genere. Un mondo noioso.

Si potrebbe immaginare allora, non si vede altra opzione, che i veri cultori, i vari cantori dell’arte, in realtà, siano sorprendentemente proprio i censori, proprio come aveva già intuito, con lungimiranza, Italo Calvino[2]:

«Nessuno tiene oggi in così alto valore la parola scritta quanto i regimi polizieschi, — dice Arkadian Porphyritch, — quale dato permette di distinguere le nazioni in cui la letteratura gode d’una vera considerazione, meglio delle somme stanziate per controllarla e reprimerla?
Là dov’è oggetto di tali attenzioni, la letteratura acquista un’autorità straordinaria, inimmaginabile nei paesi dove essa viene lasciata vegetare come un passatempo innocuo e senza rischi. Certo, anche la repressione deve lasciare momenti di respiro, chiudere un occhio ogni tanto, alternare abusi e indulgenze, con una certa imprevedibilità nei suoi arbitri, altrimenti, se non esiste più niente da reprimere, tutto il sistema s’arrugginisce e si logora.
Diciamolo francamente: ogni regime, anche il più autoritario, sopravvive in una situazione d’equilibrio instabile, per cui ha bisogno di giustificare continuamente l’esistenza del proprio apparato repressivo, dunque di qualcosa da reprimere».

Joseph-Noël Sylvestre, “Sacco di Roma da parte dei Visigoti”, 1890 (dettaglio), Musée Paul Valéry, Sète.

Note

[1] Dal nome del senatore Joseph McCarthy (1908–1957) che guidò la commissione per la repressione delle attività antiamericane.

[2] Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, capitolo X.

Paolo Marcucci ha svolto tutta la sua esperienza lavorativa nel mondo bancario. È stato relatore a convegni/incontri a carattere economico, docenze a master universitari sul risk management. È stato assessore alla cultura e all’industria del Comune di Montelupo Fiorentino. Da sempre interessato alla storia e all’economia locale, la sua ultima pubblicazione è Storia della Banca Cooperativa di Capraia, Montelupo e Vitolini. Una banca territoriale toscana e l’economia locale al tempo della globalizzazione.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.