L’arte del cinematografo

di Bruno Bettelhein

Mario Mancini
26 min readAug 8, 2021

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [agosto 2021]

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Una scena di “Kagemusha” (1980) di Akira Kurosawa, Palma d’oro a Cannes. Le ideazioni visuali del grande regista giapponese hanno influenzato moltissimi cineasti come pure le generazioni che hanno ideato gli ambienti virtuali dei videogames devono moltissimo all’immaginario di Kurosawa.

Quella dell’immagine in movimento cinema, televisione, video è la vera arte del ventesimo secolo, la nostra arte universale, che comprende tutte le altre: la letteratura e la recitazione, la scenografia e la musica, la danza e la bellezza della natura, l’uso della luce e del colore. Noi siamo circondati da immagini in movimento: qui il mezzo è veramente il messaggio, ed è il mezzo moderno per eccellenza. È un’arte comprensibile a tutti, come un tempo era comprensibile a tutti l’arte religiosa. E come un tempo la gente la domenica andava in chiesa, così oggi molti vanno al cinema. Ma mentre in chiesa si andava di solito in certi giorni particolari, oggi le immagini in movimento si guardano sempre, ogni giorno.

Persone di tutte le età in quasi tutti i paesi guardano immagini in movimento per molte più ore di quante la gente comune ne abbia mai trascorse in chiesa. Le guardano i bambini e gli adulti, separatamente o insieme; in molti casi, il cinema e la televisione sono l’unica esperienza che genitori e figli oggi condividano. Questa è l’unica arte che parli a tutte le classi sociali ed economiche, indistintamente, come faceva un tempo l’arte religiosa. È l’arte di gran lunga più diffusa del nostro tempo.

La più nuova e la più moderna delle arti è passata dai primi incerti inizi alla piena maturità nel breve spazio della vita di molti di noi. Per un fatto accidentale come la mia data di nascita, io ho avuto la ventura di assistere alla straordinaria evoluzione dell’immagine in movimento dalla lanterna magica della prima infanzia, ai grandi film muti della fanciullezza, ai film sonori dell’adolescenza, fino alle trasmissioni televisive dell’età adulta. Ricordo ancora il mio primo film sonoro: l’eccitazione di vedere e insieme sentire quello che avveniva sullo schermo. Credo che in nessun’altra arte si siano realizzati così enormi progressi in così breve tempo. Per la velocità della sua crescita, l’arte dell’immagine in movimento è un’autentica figlia del ventesimo secolo.

Il cinema è secondo me l’arte americana per eccellenza; tuttavia a me non è giunto come tale: andare al cinema era infatti una parte importante ed esaltante della mia vita di ragazzo già a Vienna, non diversamente da come lo sono il cinema e la televisione per i ragazzi di oggi.

Da adolescenti, io e i miei amici andavamo al cinema il più spesso possibile, e più o meno per le stesse ragioni degli adolescenti di oggi: avevamo un grande bisogno di immagini, a cui ispirarci nel costruire la nostra personalità, e una grande curiosità di conoscere quegli aspetti del mondo e della vita adulta che ci erano tenuti nascosti. Il cinema dà l’illusione che sia lecito spiare la vita degli altri, che è precisamente ciò che i bambini e i ragazzi più desiderano fare, per scoprire come gli adulti gestiscono i loro bisogni e desideri.

Un’altra importante motivazione per andare al cinema era il desiderio di eludere la realtà rifugiandoci in fantasticherie, alle quali i film fornivano un contenuto concreto. L’attesa che venisse proiettato il seguito delle Avventure di Pauline ci riempiva di trepidazione e ci forniva un argomento sul quale fantasticare in classe durante le lezioni. Le sale cinematografiche dove andavo da giovane erano ben diverse da quelle odierne, ispirate a criteri di fredda funzionalità: erano state pensate come templi del piacere. Come vi si metteva piede, ci si sentiva trasportati in un altro mondo.

Erano piene di nicchie e angolini e palchi chiusi da pesanti tendaggi, che suggerivano segretezza e intimità. Erano posti dove ci si poteva sottrarre allo sguardo scrutatore di genitori e altri adulti, dove si poteva restare senza fare assolutamente nulla di utile, tranne che sognare a occhi aperti.

La sala cinematografica offriva la possibilità di abbassare finalmente le difese, persino di sperimentarsi nel comportamento amoroso, sull’esempio delle scene d’amore che riempivano lo schermo. L’ambiente stesso, così irreale e sontuoso, e soprattutto l’oscurità in cui si era avvolti, accentuavano la qualità onirica di quell’esperienza.

Tutto l’insieme favoriva una risposta disinibita alle scene che si vedevano sullo schermo; favoriva, per esempio, la sperimentazione sessuale; ma non soltanto. L’allentamento delle inibizioni, infatti, non riguardava solo la sfera sessuale. Non ricordo di avere mai riso tanto di cuore e senza ritegno come nell’assistere a certe scene comiche sugli schermi dei cinema di Vienna. Anzi, era l’ilarità sfrenata, molto più che l’allentamento delle inibizioni sessuali, a farmi considerare i cinema dei templi del piacere.

Quando si guarda un film, ci si lascia trasportare al punto da sentirsi parte del suo mondo. Guardare un film è un’esperienza che ti fa uscire da te stesso e ti solleva a una sfera in cui non sei più vincolato alla normale realtà, almeno per la durata del film. Sicché hai l’impressione che quello che provi o che fai al cinema in realtà non conti.

Ma non appena si riaccendono le luci, l’incantesimo si rompe bruscamente e ci si ritrova nel mondo di tutti i giorni. Del tempo trascorso sotto l’incantesimo del film non ci si sente responsabili, e inoltre l’irrealtà della situazione impedisce di prendere seriamente quello che, infatti, quand’ero ragazzo, non veniva considerato arte, ma “solo” intrattenimento. Così ne parlavano, con una punta di disprezzo, i miei genitori e gran parte dei miei insegnanti: non lo rifiutavano, come forma di intrattenimento, ma non l’avrebbero mai considerato “arte”.

L’atteggiamento di noi giovani verso le arti tradizionali era molto diverso, e non solo perché godevano della venerazione dei nostri genitori e insegnanti, benché questo probabilmente vi influisse. La differenza era più profonda ed era dovuta a come venivano vissute interiormente le altre arti: leggere la grande letteratura, vedere opere teatrali serie, ascoltare buona musica, guardare un quadro o una scultura sembravano esperienze di tutt’altro genere che andare al cinema. Solo nelle opere liriche pareva di poter scorgere qualche analogia, perché anch’esse trasportavano quasi in un altro mondo.

Le altre arti, quando mi toccavano nel profondo, modificavano in modo significativo la mia immagine di me stesso, del mondo e del mio posto nel mondo. L’acme di tali esperienze era una sorta di “shock del riconoscimento”, una più viva percezione dell’opera d’arte e di me stesso simultaneamente. Era un’esperienza che rendeva più acuto il senso della mia intima individualità, mentre nello stesso tempo mi faceva sentire felice di essere partecipe della grandezza dell’uomo e della sua cultura. Era come se si spalancasse una finestra su quel che significa essere uomo.

Per quanto potesse piacermi un film, il cinema non mi provocava quasi mai esperienze del genere; eppure avevo visto film emozionanti, film che facevano conoscere strane e ignote culture e che gettavano nuova luce sul comportamento umano. Voglio dire che molti film sono tutt’altro che privi di interesse sul piano umano, anzi sono importanti a svariati livelli. Eppure, per la maggior parte, non riescono a darci quella più profonda comprensione di noi stessi e del posto dell’uomo nel mondo, che serve a farci cogliere un senso nella vita.

Non nego che certi film prendano o addirittura sconvolgano, anche violentemente, a volte. Per esempio, vedere La corazzata Potemkin di Eisenstein, quando uscì, fu per me un’esperienza molto forte, ma poi, ripensandoci, mi sembrò che mi avessero manipolato, che avessero giocato sulle mie emozioni senza lasciarmi il tempo di decidere per conto mio.

Al contrario, una tragedia greca, i cui problemi e avvenimenti erano tanto più lontani dal mio mondo e dalla mia esperienza, riusciva a toccarmi a un livello molto più profondo e più individuale.

La distinzione fondamentale è che, davanti alla grande arte, le mie personali preoccupazioni scomparivano, sostituite dal sentimento di essere in comunicazione con qualcosa di più grande di me, come se mi trovassi in presenza della grandezza, e ne fossi partecipe. L’esperienza della grande arte, cioè, evocava qualcosa di affine al sentimento oceanico descritto da Freud: la sensazione di essere in sintonia con l’universo, sollevato da tutte le preoccupazioni personali, appagato in tutti i bisogni.

Mi sentivo come se fossi in contatto, in comunicazione, con il passato dell’umanità e insieme con il suo futuro. La breve occhiata che me n’era stata concessa mi rassicurava. Inoltre, nell’esperienza della grande arte, io ero sempre presente come soggetto, mentre nell’esperienza di un film avvincente esistevo soltanto attraverso la vista e l’udito. Nelle esperienze artistiche più profonde, il mio vissuto era di trovarmi al culmine della soggettività. Con i film, non c’era coscienza di sé, non c’era soggettività, solo un esperire con i sensi gli eventi che si succedevano sullo schermo.

D’altro canto, questo tremendo e pressoché unico potere del cinema di sollevare lo spettatore fuori della sua soggettività è appunto ciò che lo rende così affascinante. Non è un caso che l’esperienza di guardare un film sia stata paragonata al sogno.

I film hanno la stessa duttilità temporale e spaziale, la stessa immediatezza, la stessa perturbante nitidezza dei sogni. Come nei sogni, gli eventi rappresentati sullo schermo si possono muovere in avanti e all’indietro nel tempo e nello spazio. La dimensione dei film, come quella dei sogni, è un eterno presente.

Quando guardiamo un film, noi regrediamo, perdendo le nostre facoltà critiche. L’oscurità della sala allude a un ritorno all’utero, ma la nostra regressione è qualcosa di più che il semplice effetto dell’essere diventati completamente passivi. Identificandoci con il punto di vista della cinepresa, noi facciamo esperienza della pura percezione.

Non abbiamo più coscienza della posizione del nostro corpo, non siamo noi a orientarci nel mondo dell’esperienza: veniamo orientati dalla cinepresa, che ci obbliga a guardare ora da questa parte ora da quella. Le esperienze ci vengono imposte e, a meno di non chiudere gli occhi o di distogliere lo sguardo dallo schermo, siamo impotenti a determinare ciò che esperiamo, esattamente come quando stavamo nel grembo materno o eravamo bambini di pochi mesi.

E ci lasciamo facilmente sedurre alla regressione perché sappiamo che le esperienze che vivremo al cinema non potranno realmente farci del male, e che i personaggi dello schermo, che ci attirano dentro il loro cerchio magico, non possono realmente influire sulla nostra vita. Il tipo di regressione vissuto mentre sogniamo o mentre assistiamo a un film non porterà a un progresso significativo nello sviluppo della nostra personalità: una volta rientrati nella realtà, alla fine del film, siamo esattamente la stessa persona di prima.

Questa, dunque, è stata la differenza discriminante tra il mio modo di esperire il cinema e il mio modo di esperire le altre forme d’arte. Quanto più era significativa la mia esperienza di fronte alle altre arti, quanto più intensa era la mia risposta a un’opera d’arte, tanto più profondamente venivo trasportato dentro di me. Quanto più intensa era la mia risposta a un film, tanto più venivo trasportato fuori di me e dentro il suo mondo e tanto meno c’ero io, in quella esperienza.

Non c’è dubbio che l’immagine in movimento sia il mezzo ideale per l’evasione, per eludere ciò che ci opprime a tal punto che desideriamo dimenticarlo. Ma l’evasione, perché sia utile, non può essere solo evasione da qualcosa; deve guidarci verso qualcosa, qualcosa di meglio, di più significativo. Se vuole essere arte vera, il cinema deve aiutarci a ritrovare noi stessi, non solo a fuggire da noi stessi.

Mentre riflettevo sull’arte cinematografica, ho cercato di informarmi su ciò che altri avevano scritto in proposito.

A volte è stata una lettura istruttiva, a volte anche illuminante, ma purtroppo la letteratura specialistica tratta essenzialmente di problemi tecnici, solo in rari casi accennando a taluni aspetti marginali dell’esperienza dello spettatore, senza però mai affrontare il cuore del problema, che per me è il rapporto con il cinema come arte.

Adesso so un mucchio di cose sul cinema, per esempio come devono fare l’operatore o il regista per catturare e fermare la nostra attenzione. Quello che non ho appreso è perché si debba avvincere la nostra attenzione per farci continuare a guardare il film, e quale vantaggio ne possiamo trarre noi.

A parte qualche raro riferimento all’esperienza catartica, effetto che il cinema ha in comune con il teatro, nulla viene detto riguardo all’eventuale contributo, desiderabile sul piano umano, che questa particolare forma d’arte potrebbe offrire alla nostra vita.

E la catarsi, in quanto consiste nello scaricare certe emozioni e non già nell’elaborarle e distillarle, offre al massimo un sollievo temporaneo; non porta a una soluzione di ciò che ci opprime. Anzi, lascia immutati i problemi, che presto premeranno per trovare un nuovo sfogo.

Non è la catarsi che ci può recare un qualche aiuto significativo, bensì il confrontarci con le cause delle emozioni che premono per purificarsi. Quando le nostre emozioni ci stanno di fronte in una forma tale che ci consenta di capire qual è il loro significato, allora, possiamo liberarcene definitivamente.

Solo a partire da una tale comprensione è possibile uscire dall’impasse in cui ci gettano le emozioni. Parlando di problemi emotivi che premono in cerca di uno sfogo, non mi riferisco qui a problemi provocati da qualche malattia psichica; l’arte, infatti, non serve a curare i disturbi psichici. Altrimenti gli artisti sarebbero le persone psicologicamente più sane, il che non è.

Il problemi emotivi a cui mi riferisco sono quelli esistenziali, i più importanti problemi dell’uomo; sono essi il legittimo oggetto dell’arte. Si tratta di domande fondamentali, come: “Che cos’è l’uomo?” e “Ha uno scopo la vita?” e “Se sì, qual è il suo scopo?”

In epoche religiose, la domanda suprema riguardava il rapporto tra la divinità e l’uomo. Oggi, che la religione non è più il perno della nostra vita, la domanda è:

“In che modo possiamo far fronte alle avversità e alle contraddizioni che la vita a ogni istante ci pone dinnanzi?”

Il compito dell’arte è di fornire, nella forma adeguata, una risposta a tutti i più importanti interrogativi esistenziali. Un’opera d’arte deve toccare la coscienza e insieme l’inconscio.

Perché sia efficace, deve riguardare problemi universalmente umani, che rivestono anche, in quel momento, estrema importanza per l’individuo.

Il cinema e le arti affini, dato il predominare in essi dell’immagine visiva, non possono che esprimere le loro risposte alle domande esistenziali sotto forma di questa o quell’altra visione dell’uomo. In sé, tali immagini non ci daranno delle risposte, ma idee che suggeriscono da dove veniamo, perché siamo al mondo, come dovremmo vivere, quale potrebbe o dovrebbe essere il nostro futuro.

Dietro ai grandi interrogativi esistenziali, tuttavia, si cela sempre un dubbio sul significato della vita. Orbene, la grande arte scioglie quel dubbio, e questo è appunto ciò che la rende grande. Sono fermamente convinto che non si possa vivere un’esperienza artistica autentica e contemporaneamente mettere in dubbio il senso della vita, perché l’arte è l’incarnazione della bellezza e la bellezza è sempre ricca di senso.

La mia tesi è che l’arte dell’immagine in movimento debba, al pari di tutta la grande arte, porre al suo centro il problema di cosa significa essere uomini. Deve affermare, celebrare persino, la condizione umana, esplorare tutti i livelli dell’esistenza, tutti i generi di esperienza e di rapporto umano, sempre nei modi consoni al mezzo che le è proprio.

Deve farci percepire in modo più profondo il significato dell’eroismo e anche del delitto; della sessualità e anche della morte; deve farci capire che cosa significa crescere e scoprire chi siamo, che cosa significa mettersi alla prova attraverso il coraggio e la sofferenza.

Deve dirci, nel modo che le è proprio, da dove veniamo, dove siamo arrivati e dove dovremmo arrivare. Noi abbiamo bisogno di sentirci collegati con il nostro passato, come individui e come membri della società, come membri della specie umana. Abbiamo bisogno di avere delle convinzioni sul futuro, il nostro e quello del pianeta. Per fare questo, per comprendere il passato e per prefigurarci il futuro, abbiamo bisogno di miti.

Poiché i dati di cui disponiamo sul passato sono lacunosi, poiché il futuro è imperscrutabile e il presente troppo confuso, l’uomo ha bisogno del tipo di rassicurazione che un tempo gli offrivano il mito e principalmente la religione: la certezza che la società sopravviverà a lui e alle sue opere, così che egli possa trascendere i limiti angusti della sua esistenza individuale ed estenderla oltre i brevi anni a lui concessi, sapendo di non essere vissuto invano. Forti di tale certezza, non dovremo più tremare dinnanzi alla morte, perché la morte non è la fine di tutto.

Il mito e la religione, e l’arte che ne è l’incarnazione, da sempre hanno cercato e trovato le risposte ai grandi interrogativi esistenziali. Occorse molto tempo prima che l’arte incominciasse ad avere un’esistenza autonoma, distinta dalla religione, e anche in seguito le arti visive, come la pittura e la scultura, hanno continuato per lungo tempo a dare espressione concreta all’esperienza religiosa e mitologica.

Ma l’arte non è solo questo. La scultura greca, per esempio, ponendo al suo centro il corpo umano e la sua bellezza, celebrava l’uomo in quanto tale. E la tragedia, col raccontare la storia delle origini della civiltà greca, al tempo stesso la distillava e la affinava. I suoi temi erano il rapporto tra la divinità e l’uomo e la possibilità dell’uomo di attingere alla grandezza, pur non potendo opporsi a ciò che il fato aveva stabilito per lui.

L’Iliade, il poema con il quale ha inizio la storia della cultura occidentale, offriva una visione di ciò che significava essere greci e di ciò che dovrebbe essere l’uomo. La visione di Omero instillò nelle varie tribù greche e nei piccoli regni isolati e ancora barbarici l’idea di una cultura comune fondata sulle virtù eroiche e capace di conferire senso alla vita individuale. La sua luce ha continuato a illuminare la vita dell’Occidente per migliaia di anni.

La storia mitica della cattività degli ebrei in Egitto e di come Dio li restituì alla libertà è un’altra grande fonte della civiltà occidentale. Questo mito respinge l’idea che il funzionamento della società debba basarsi sulla schiavitù: è una visione della dignità dell’uomo comune, che ha ispirato generazioni di uomini a lottare per la libertà.

Più importante ancora del problema delle nostre origini è quello di come infondere ordine a un’esistenza testardamente caotica, priva di scopo e dunque di senso. Il problema di fondo dell’arte è appunto come portare ordine in questo caos, che altrimenti ci inghiottirà come in un gorgo, spazzandoci via senza che rimanga traccia della nostra esistenza.

Shakespeare disse ai suoi contemporanei che cosa significava essere inglesi, così come Omero aveva fatto per i greci, ed entrambi ci parlano di cosa significa essere uomini. Tutta l’opera di Shakespeare, i drammi storici, le tragedie e anche le commedie, è una celebrazione dell’uomo e della sua grandezza nonostante le sue fragilità, i suoi errori e i suoi fallimenti.

L’Amleto affronta il problema di come stabilire e mantenere l’ordine sociale, nella fattispecie garantendo la legittima successione al trono. Altro suo punto centrale è il concetto di dignità regale: che cosa significa, come si acquista, qual è la sua funzione nel combattere il caos in cui gli uomini tendono a ricadere. Ma il vero tema dell’Amleto è la celebrazione dell’uomo attraverso la celebrazione dei re, è mostrare come si possa conquistare e salvaguardare la dignità umana nonostante le sventure che di continuo si abbattono sull’uomo.

Laerte, Claudio, Polonio, Rosencrantz e Guildenstem hanno tutti peccato nelle opere, mentre la colpa di Amleto è un peccato di omissione: perché non ha ubbidito all’obbligo filiale di vendicare l’assassinio del padre, perché non ha adempiuto all’obbligo di principe ereditario di salire al trono e di punire l’usurpatore. Poiché non è capace di ripristinare l’ordine né nel suo mondo interiore pieno di confusione e di paure né nel suo regno, Amleto finisce per distruggere Ofelia e se stesso.

La tragedia si chiude quando il caos è stato sradicato e l’ordine ristabilito in Danimarca da Fortebraccio, che assume la dignità regale. Prima, però, bisogna che siano restituite ad Amleto dignità e grandezza, e Fortebraccio ordina per lui esequie degne di un re. Se pure non gli fu concessa, in vita, la dignità regale, Amleto la ottiene da morto. Quando cala il sipario, nella vita dell’individuo e in quella della società regna di nuovo l’ordine: è stata restituita all’uomo la possibilità di avere stima di se stesso e di vivere una vita degna.

Solo a questo punto, dopo che il legittimo ordine di successione ha garantito la continuità della società, dopo che l’umana capacità di conservare la dignità anche nelle più tragiche circostanze è stata celebrata, l’uomo può rilassarsi e decidere che è arrivato il momento della commedia.

Una volta convinti della potenziale grandezza dell’uomo, possiamo permetterci di ridere dei suoi difetti e delle sue debolezze, di cui anche noi siamo partecipi, perché a questo punto difetti e debolezze danno spessore alla sua umanità, anziché sminuirla.

È questo il fine eterno dell’arte: dare espressione ai miti ai quali abbiamo bisogno di ispirarci, e riaffermare la vita, nella tragedia come nella commedia. Compito dell’arte è la celebrazione dell’uomo e del suo destino, è aiutarci ad accettare la nostra condizione di mortali, dimostrandoci come ciò che dà senso alla vita umana trascenda la nostra esistenza individuale.

L’arte conferisce dignità alla nostra vita col mostrarci quanto sia antica la nostra storia e con lo svelarcene il significato, e insieme parlandoci del nostro futuro, che è garantito dalla legge di successione, per cui il figlio prende il posto del padre in un’ininterrotta catena di esistenze che sempre si rinnovano.

Le massime realizzazioni artistiche di un’epoca storica comprendono in sé tutte le arti, che noi oggi consideriamo invece separatamente.

L’ambiente fisico della tragedia greca era un teatro che costituiva a sua volta un supremo capolavoro dell’architettura e la cui bellezza veniva messa in rilievo dalla bellezza dello scenario naturale, sicché la natura diventava parte integrante del teatro. Ciascuna rappresentazione era un evento religioso, un evento artistico, un evento sociale, ma soprattutto un evento universalmente umano, al quale davano il loro contributo una natura vissuta artisticamente e tutte quante le arti: l’architettura, la poesia, la recitazione, la danza, la musica.

Fino a non molto tempo fa, il luogo deputato alle esperienze spirituali dell’uomo era la chiesa. Nelle chiese, le varie arti si univano per creare l’ambiente fisico adatto a evocare una visione del vero significato della vita, una visione attraverso la quale l’uomo trascendesse le sue meschine preoccupazioni e venisse sollevato al di sopra della sua esistenza di ogni giorno.

Molte arti contribuivano al raggiungimento di questo scopo: l’architettura, la scultura, la pittura, l’oratoria, la musica, l’arte drammatica. Nessuna arte, da sola, avrebbe potuto raggiungere il medesimo effetto.

La storia di Cristo e l’albero della vita animati dalla luce che filtrava attraverso le vetrate istoriate della cattedrale costituivano un altro importante elemento visivo, che aiutava a elevare l’uomo dalla sua esistenza ordinaria fino a un mondo dove poteva fare esperienza del sublime. In tal modo, sotto forma di pura luce, la natura diventava nuovamente parte di un’opera d’arte totale.

Poiché per molti di noi la religione, nella sua forma istituzionale, ha perduto gran parte del suo ascendente, diventa ancor più necessario, oggi, rivolgersi all’arte per elevarci a un piano più alto. Abbiamo un disperato bisogno di una visione di ciò che siamo e di ciò che dovrebbe essere la vita, una visione abbastanza potente da sostenerci nelle avversità.

Giacché persino nelle epoche più religiose c’era bisogno di tutte le arti insieme per comunicare all’uomo una visione capace di offrirgli un sostegno, a maggior ragione oggi soltanto una forma d’arte che coinvolga tutte le altre potrà raggiungere il medesimo scopo. E dovrà essere un’arte capace di parlare a tutti noi, grazie alla sua affinità con il tempo e con il mondo in cui viviamo.

Quando dico che quella dell’immagine in movimento è l’arte del nostro tempo ed è autenticamente americana, non intendo l’arte con la A maiuscola, e neppure la “grande” arte. Il porre l’arte su un piedestallo la priva della sua vitalità. Quando furono erette le grandi cattedrali del Medio Evo e del Rinascimento e furono riempite di decorazioni all’esterno e all’interno, ognuna di quelle decorazioni era un pezzo di arte popolare, che parlava direttamente a ciascuno.

Alcune erano capolavori, altre meno, ma tutte avevano un senso ed erano guardate da tutti con orgoglio. Ci sono persone che traggono le loro esperienze spirituali dai capolavori dell’arte, ma i più le derivano da opere modeste, che esprimono la medesima visione, ma in forma più accessibile.

Questo vale per la musica sacra come per la chiesa stessa, per i dipinti e per le sculture. Questi oggetti artistici di versificati raggiungono tuttavia l’unità, e le differenze di qualità sono importanti, purché i vari oggetti rappresentino tutti, ciascuno a suo modo, la medesima visione sovra personale di un più vasto e significativo universo.

Perciò tra i più nefasti ostacoli al sano sviluppo dell’arte dell’immagine in movimento vanno annoverati i tentativi da parte di esteti e di critici di isolare il “film d’arte” dai film commerciali e dalla televisione. Niente potrebbe essere più contrario al vero spirito dell’arte.

Dovunque l’arte è vitale, essa è ugualmente apprezzata dall’uomo della strada e dalla persona più raffinata. Se le tragedie e le commedie greche non fossero piaciute alla maggioranza, il popolo non sarebbe rimasto seduto sulla dura pietra per giornate intere a seguire come incantato le vicende rappresentate sulla scena. Le rievocazioni storiche e le sacre rappresentazioni del Medio Evo, dalle quali si sviluppò il teatro moderno, erano spettacoli popolari, come lo erano i drammi di Shakespeare.

Il David di Michelangelo era stato posto nella piazza, il luogo pubblico per eccellenza, a incarnare l’idea di tutti i fiorentini che la tirannide dovesse essere abbattuta; al tempo stesso, in quanto rappresentava il mito di Davide e Golia, esso rimandava alla visione religiosa del tempo. Tutti quanti ammiravano quella statua, che era contemporaneamente arte popolare e grande arte, solo che a nessuno veniva in mente questa distinzione.

Per vivere degnamente, abbiamo bisogno di entrambe le cose: di visioni capaci di elevarci, e di “intrattenimento”, che ci tenga ancorati a questa terra. L’intrattenimento non è un di più, è una necessità: più la nostra vita è ripetitiva, più aumenta il tempo libero, maggiore è il bisogno di qualcosa che ci diverta e ci distragga. Ma anche lo svago dovrebbe rappresentare un’affermazione della vita, essere parte della visione che rende la vita degna di essere vissuta.

In passato, le grandi occasioni per divertirsi e insieme per affermare il valore dell’uomo e della vita erano le festività religiose, come il giorno del santo patrono, oppure il genetliaco del sovrano o le feste che celebravano il passaggio delle stagioni, come Natale e Calendimaggio. Pertanto lo svago, per quanto a volte volgare, manteneva un nesso significativo con ciò che conferisce un senso più profondo all’esistenza umana, e l’arte serviva ad accrescere sia il godimento sia il senso della vita.

Arte e svago, ciascuno con la forma e i modi suoi propri, sono l’espressione concreta di un’unica e identica visione dell’uomo. Se l’arte non sa parlare a tutti noi, agli uomini comuni e agli uomini di cultura, vuol dire che non riesce a raggiungere quel nucleo di umanità autentica che è a tutti noi comune.

L’esistenza di due tipi di arte, una per pochi eletti e una per l’uomo medio, provoca una lacerazione nella società; due distinti tipi di arte intaccano proprio ciò di cui più abbiamo bisogno; una concezione che ci unisca l’un l’altro nella condivisione di esperienze che affermino il valore della vita e dell’uomo.

Ma ad affermarne il valore non sono certo le immagini fasulle di una vita piacevolmente idilliaca: la vita si celebra meglio con la rappresentazione della ribellione alle sue ingiustizie, della voglia di lottare, della dignità mantenuta anche nella sconfitta, della grandezza della scoperta di sé e dell’altro.

Non sono pochi i film che hanno saputo comunicare concezioni del genere. In Kagemusha, di Akiro Kurosawa, la straordinaria bellezza dei costumi, la vicenda di cappa e spada con la sua affascinante ambientazione nel misterioso Oriente, la solennità dei cerimoniali, lo sfarzo degli eserciti che marciano e combattono, l’uso magistrale della natura, la raffinata recitazione, tutto contribuisce a incantarci e a convincerci della correttezza della visione che il film ci trasmette: la grandezza anche del più umile degli uomini.

Il protagonista, un ladruncolo che non esita a mentire, cresce di statura morale sotto i nostri occhi, sia pure a prezzo della vita. La storia si svolge nel Giappone del sedicesimo secolo, ma il protagonista è un uomo di tutti i tempi e di tutti i paesi: un uomo che accetta il destino che il caso gli assegna e trasforma un’esistenza intessuta di falsità in un’esistenza vera.

Alla fine, per mantenersi fedele al suo nuovo io, egli sacrifica la vita, raggiungendo così il culmine della sofferenza e dell’umana grandezza. Nessuno lo obbliga a sacrificarsi; nessuno, tranne lui stesso, saprà mai del suo gesto, che non avrà la benché minima conseguenza per gli altri. Egli lo compie solo per se stesso; lo compie per intima convinzione; ed è questa la sua grandezza.

Una vita che consente al più infimo degli uomini di raggiungere una tale dignità è una vita che vale la pena di essere vissuta, anche se alla fine egli ne uscirà sconfitto; ma questa è la sorte di tutti i mortali.

Mi vengono in mente altri due film, molto diversi tra loro, il cui contenuto è una celebrazione della vita, alla quale anche noi, come spettatori, partecipiamo per interposta persona, benché la sconfitta del protagonista ci lasci un senso di tristezza.

Il primo venne distribuito negli Stati Uniti con il titolo inglese, The Last Laugh, anche se forse era più appropriato il titolo originale The Last Man. È la storia di un portiere d’albergo ridotto a pulire i gabinetti. L’altro film è Patton, generale d’acciaio.

Nel primo caso il protagonista si trova all’ultimo gradino della società e dell’esistenza, nell’altro si trova al livello più alto, ma in entrambi i film siamo indotti ad ammirare lo sforzo di un uomo per scoprire chi egli veramente sia, che lo innalza alla grandezza di un eroe tragico. Ecco, questi tre film, scelti a caso tra i molti, affermano il valore dell’uomo e della vita e suscitano perciò in noi delle immagini capaci di sorreggerci.

La malattia della nostra società è l’assenza di consenso riguardo a come dovrebbero essere la società stessa e la vita. Un consenso del genere non può nascere dalla società qual è oggi, e neppure da fantasie su come dovrebbe essere. Il consenso sul presente può nascere soltanto da un’interpretazione condivisa del passato, simile a quella che i poemi omerici seppero dare ai greci che vennero secoli dopo: un patrimonio di immagini e di ideali, sui quali impostare la vita degli individui e quella della società.

Nella maggior parte delle società, il consenso trae origine dalla lunga storia comune, da una lingua comune, da una comune religione e una comune ascendenza. I miti ai quali si informa la loro vita si fondano su tutti questi elementi. Ma gli Stati Uniti sono un paese di immigrati, di gente proveniente dalle più diverse nazioni.

In questi ultimi anni, per spiegare l’incapacità di realizzare una coesione che contrasti la tendenza a ritirarci ciascuno nel nostro mondo privato, è stata avanzata l’ipotesi che negli americani si sia venuto affermando un tipo di personalità asociale e narcisistica.

Nel suo studio sul narcisismo, Christopher Lasch scrive che l’uomo moderno:

“tormentato da un’esasperata consapevolezza di sé, si rivolge a nuovi culti e a nuove forme di terapia non già per liberarsi dalle proprie ossessioni, bensì per dare senso e scopo alla vita, per trovare qualcosa per cui vivere”.

Da più parti si lamenta che il morale della nazione è in declino, e che abbiamo perduto la nostra immagine di nazione con degli ideali e con una missione da svolgere.

A differenza delle società totalitarie, caratterizzate da una rigida fede religiosa o politica, la nostra è la società delle grandi differenze individuali, almeno in linea di principio e in teoria.

Ma questo porta alla disgregazione, se non al caos. Gli americani credono nel valore positivo della diversità, ma proprio per questo, perché la nostra è una società basata sulle differenze individuali, più delle società che si fondano sull’uniformità delle origini dei loro cittadini, ha bisogno di qualche idea generale attorno a cui si coaguli un certo grado di consenso.

E, in queste condizioni, tale consenso non può che essere basato su un mito: un modo di vedere un’esperienza comune, una conquista che ha fatto di noi degli americani, così come il mito della conquista di Troia fece dei greci una nazione.

Solo un mito condiviso può placare la paura che la vita non abbia senso né scopo. I miti ci consentono di valutare il nostro posto nel mondo in riferimento a un’idea sovrapersonale. I miti sono fantasie condivise, che costruiscono un legame tra l’individuo e il gruppo e servono a tenere a bada i sentimenti di angoscia, di solitudine, di colpa e di inutilità: in altre parole, combattono l’isolamento e l’anomia.

Un tempo lo avevamo, un mito che ci teneva uniti. In The American Adam, R.W.B. Lewis così sintetizza il mito che informava la vita degli americani:

“Dio decise di concedere un’altra possibilità all’uomo, aprendogli un nuovo mondo di là dall’oceano. Praticamente disabitata, quella terra immensa offriva risorse naturali pressoché inesauribili. Molta gente arrivò in questo nuovo mondo, gente dotata di eccezionale energia, di spirito d’indipendenza, di intuizione, gente dal cuore puro… La speciale missione di questa nazione sarebbe stata quella di servire da guida morale al resto del mondo.”

E il cinema si faceva interprete di quel mito. I film western, in particolare, descrivevano la grande sfida di portare la civiltà in posti dove essa era sconosciuta, e insieme richiamavano l’attenzione sui pericoli di quel caos privo di leggi: le carovane dei pionieri simboleggiavano il tipo di comunità che gli uomini devono creare per affrontare il periglioso viaggio attraverso regioni selvagge, a loro volta simbolo di tutto ciò che di selvaggio è dentro di noi. In tal modo i film western ci comunicavano l’idea della necessità della collaborazione e della civiltà, senza le quali l’uomo sarebbe perito. Un altro simbolo usato spesso dai western era la ferrovia, anello di congiunzione tra i territori selvaggi e la civiltà. La ferrovia era il simbolo del ruolo civilizzatore dell’uomo.

In The Immediate Experience, Robert Warshow mostra come il protagonista dei western, il pistolero, simboleggi la disponibilità dell’uomo a diventare o il fuorilegge o il rappresentante della legge, lo sceriffo. In quest’ultima veste, il pistolero era l’eroe del nostro passato e la conquista del West era il nostro mito, la nostra guerra di Troia. Come tutti i veri eroi, lo sceriffo conosce sia vittorie sia sconfitte, ma le une e le altre servono a farlo maturare e a fargli via via accettare le limitazioni che la civiltà impone.

Che straordinaria metafora dell’uomo, ovvero degli Stati Uniti nel Nuovo mondo! Era un mito al quale ci si poteva ispirare per vivere e per maturare, e intorno a cui si coagulava il consenso sull’identità americana. Ma, benché molti di noi continuino a trovarlo affascinante, questo mito ha ormai perduto gran parte della sua vitalità.

Sappiamo troppo bene che, in realtà, la conquista del West ha comportato la distruzione della natura e degli indiani d’America. Inoltre, quel mito si fondava sulla frontiera, una frontiera aperta che oggi non esiste più.

Ma il fascino nostalgico che ancora oggi posseggono i film western indica quale grande bisogno abbiamo di un mito sul passato, un mito che non possa venire invalidato dalle realtà dell’oggi. Noi abbiamo bisogno di condividere una visione che ci illumini sul senso che può avere oggi essere americani, in modo da poter andare orgogliosi non solo della nostra eredità, ma anche del mondo che insieme stiamo costruendo.

I film di fantascienza possono svolgere la funzione di miti circa il nostro futuro e dunque offrirci una qualche rassicurazione al riguardo. Film come 2001 Odissea nello spazio o come Guerre stellari narrano di un progresso che amplificherà i poteri e le esperienze dell’uomo al di là dell’immaginabile, nel medesimo tempo rassicurandoci sul fatto che tale progresso non cancellerà l’umanità e la vita quali noi le conosciamo.

Viene così alleviata una delle grandi angosce dell’uomo: la paura che nel futuro non ci sarà posto per noi quali siamo ora. In questi miti è contenuta inoltre la promessa che anche nel futuro più lontano, e nonostante tutti i cambiamenti avvenuti nel mondo materiale, il problema morale di fondo dell’umanità rimarrà il medesimo: la lotta del bene contro il male.

Passato e futuro sono le dimensioni durature dell’esistenza; il presente non è che un fuggevole attimo. Perciò le visioni del futuro contengono anche il passato; in Guerre stellari e negli altri film dello stesso filone si combatte intorno ai medesimi problemi che hanno motivato l’uomo nel passato. La comparsa di Yoda nel secondo film della serie, L’Impero colpisce ancora, non è casuale: egli è una reincarnazione dell’orsacchiotto della nostra infanzia, al quale chiedevamo di consolarci; e il cavaliere Jedi è il vecchio saggio o l’animale soccorritore delle fiabe, che riaffiora dal remoto passato a garantirci che sapremo far fronte ai compiti più difficili che la vita ci porrà dinnanzi. Ecco dunque che qualunque visione del futuro poggia in realtà su visioni del passato, perché il passato è l’unica cosa che conosciamo con certezza.

Come i miti religiosi sul futuro non si spinsero mai al di là del giorno del Giudizio, allo stesso modo i nostri miti moderni non possono spingersi oltre la ricerca del senso profondo della vita. E la ragione è che, soltanto nella misura in cui il problema morale di fondo dell’umanità rimane la scelta tra bene e male, la vita può continuare ad avere quella speciale dignità che le deriva dalla nostra facoltà di scegliere tra i due.

Un mondo nel quale questo conflitto sia stato permanentemente risolto eliminerebbe l’uomo quale noi lo conosciamo. Potrà essere un universo popolato di angeli, ma in esso l’uomo non troverebbe posto.

Ciò di cui gli americani hanno soprattutto bisogno è dunque una concezione, un’immagine unificante, che comprenda l’idea di libertà individuale e insieme l’accettazione del pluralismo etnico e religioso. E il consenso dovrà fondarsi sulla fede di ciascuno nei valori morali e nella validità di un’idea sovrapersonale.

Ebbene, un aspetto fondamentale dell’esperienza estetica è appunto la sua capacità di conferire unità ai più diversi elementi. Per i greci tale funzione unificatrice fu svolta dall’arte classica; per gli inglesi dall’arte elisabettiana; per i vari staterelli tedeschi dall’arte gotica. Oggi, per gli Stati Uniti, tale funzione non può che essere svolta dall’arte dell’immagine in movimento, l’arte centrale della nostra epoca, perché nessun altra esperienza artistica è altrettanto aperta e accessibile a tutti.

Quella del cinema è un’arte essenzialmente visiva. Parlando alla nostra immaginazione, dovrebbe suggerirci delle immagini che ci consentano di vivere una vita degna, dovrebbe farci guardare dentro di noi. Circa un secolo fa Tolstoj scriveva:

“L’arte è un’attività dell’uomo, il cui fine è la trasmissione ad altri uomini dei sentimenti più elevati e più buoni a cui è giunta l’umanità.”

In tempi a noi più vicini, Robert Frost disse che la poesia “inizia nel piacere e finisce nella saggezza”. Alla stessa stregua si potrebbe dire che lo stato dell’arte cinematografica può essere valutato in base al grado in cui essa assolve al suo compito mito-poietico, offrendoci miti adatti per vivere nel nostro tempo, immagini che ci trasmettano i sentimenti più elevati e più buoni a cui è giunta l’umanità.

Possa l’arte dell’immagine in movimento, la più autenticamente americana delle arti, vincere la sfida e diventare davvero la grande arte del nostro tempo.

Il presente saggio si basa su un articolo dal medesimo titolo pubblicato su “Harper’s” nell’ottobre 1981 e su una conferenza del ciclo Patricia Wise Lectures, tenuta per l’American Film Institute a Washington, D.C., il 3 febbraio 1981.

Da: Bruno Bettelheim, La Vienna di Freud, Milano, Feltrinelli, 1990, pp. 129–145

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.