L’altro talento di Mr. Jobs

Ancora un’ultima cosa…

Mario Mancini
5 min readJun 12, 2021

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2011–2021

Per il decennale della scomparsa di Jobs mi sarebbe piaciuto portare a termine uno studio, al quale ho lavorato un paio di anni fa, e farne un libro. Si tratta della storia dell’esperienza di NeXT, prima NeXT Computers (1986–1992) e poi NeXT Software (1992–1996). Dieci anni veramente speciali (the wild years li definisce il biografo di Jobs) nella vita e nell’azione del co-fondatore di Apple. Per dirne una: la tecnologia di NeXT è diventata la tecnologia dell’iPhone.

Non riesco però ad andare avanti in questo lavoro. Mi sono incagliato in un documento, venuto alla luce di recente al Computer History Museum di Mountain View (Silicon Valley).

Si tratta del prospetto di quotazione di NeXT al Nasdaq, che precedette di pochi mesi il richiamo di Jobs in Apple, nel 1996.

Un documento spaventoso e indispensabile. Un documento da analizzare accuratamente in ogni sua parte. Sono più 120 cartelle A4 dense di testo e zeppe di dati di ogni tipo. Di fatto, il suo esame analitico va ben oltre le mie forze. Certo, l’ho letto… Ma non ci ho capito molto. Mi pare, però di aver colto un “piccolo grande dettaglio”. Proprio un’ultima cosa…

Amen

C’è un paragrafetto che contiene un indizio delle intenzioni di Jobs in quel frangente decisivo della sua storia di persona e di innovatore. Un indizio, direi, inaspettato alla luce degli sviluppi successivi.

Ora, non è che in un documento di questo tipo (cioè destinato alla SEC) si possano raccontare favole o confondere le acque. Pertanto, ciò che vi è scritto va ritenuto certamente fondato e riflette senz’altro uno stato di cose reale.

E quello che sta scritto in questo documento è che Jobs avrebbe potuto ridurre il suo impegno in NeXT, dopo la quotazione di quest’ultima o, addirittura, lasciare a qualcun’altro gli incarichi esecutivi.

Si tratta di un messaggio chiaro agli investitori che suona in questo modo “Jobs potrebbe non esserci più”. Vista la reputazione di cui godeva Jobs a quel tempo, di poco superiore a quella di Al Capone, è possibile che questa dichiarazione sia stata sollecitata dalle banche incaricate del collocamento del titolo, tra le quali spicca Goldman Sachs. Dopo Ross Perot non erano in molti, a Wall Street, disposti a buttare i risparmi di famiglia nelle “pazze idee” di Jobs.

Ma, e io sono propenso a crederlo, poteva invece trattarsi di un proposito concreto che rispecchiava lo stato d’animo effettivo e i progetti di vita di Jobs.

I dieci anni trascorsi a NeXT lo avevano estremamente provato sul piano sia fisico che emotivo. Chi lo ha frequentato in quel periodo ricorda che era stremato. Nel 1995 aveva avuto la seconda figlia (Erin Siena Jobs, attenzione al secondo nome! — il primogenito, Reed (1988), portava il nome del College dove Jobs aveva studiato calligrafia) e forse voleva diventare un padre migliore.

Verso Hollywood

Ma soprattutto Jobs aveva un nuovo amore, la Pixar, che aveva acquistato dalla Lucasfilm nel 1986, l’anno successivo all’avvio di NeXT, per ragioni completamente diverse da quelle di produrre film. Succede: salpi per l’India e ti ritrovi in America.

Nel 1995, la Pixar aveva presentato il suo primo lungometraggio di animazione, Toy story che era valso al regista, John Lasseter, un premio Oscar. Da rabdomante qual era, Jobs aveva intuito che la tecnologia della Pixar avrebbe potuto cambiare l’intera popolare industria allora dominata dalla Disney. È un fatto che la Disney finirà per comprare la Pixar e trasformare la vedova di Jobs (Laurene Powell) nella maggiore azionista della casa di Topolino.

È abbastanza probabile, quindi, che Steve stesse pensando di buttare alle ortiche i computer, per passare allo spettacolo, e di trasferirsi in senso figurato da Cupertino a Hollywood.

E in effetti, da mago qual era, aveva intuito il matrimonio che si sarebbe celebrato tra tecnologia e industria culturale e del divertimento. E oggi Apple ha indirizzato la sua prua proprio in direzione di Hollywood. Netflix è già nel mirino.

Successivamente, pochi mesi dopo la presentazione del prospetto di quotazione di NeXT, Gill Amelio (CEO del tempo) e il CdA di Apple richiamarono Steve Jobs a Cupertino, acquisirono NeXT (tecnologia e persone) e la storia cambiò direzione. Era venerdì 20 dicembre 1996 ed io ero a Milano.

Premessa finita.

Il talento n. 1 di Jobs

Il talento di Jobs che conosciamo è quello di un leader olistico e magnetico che, con determinazione e perseveranza, era in grado di immaginare l’intero ciclo di esistenza di un prodotto, compreso il suo impatto capace di trasformare gli stili di vita delle persone e delle comunità.

Un talento, espresso da una personalità complessa, ricca di luci e di ombre. Caratterialmente, era mercuriale e sul lavoro non rispettava affatto gli aspetti manageriali e gestionali che una grande organizzazione come Apple doveva inevitabilmente affrontare e risolvere.

La sua principale preoccupazione sembrava quella di avere un team di serie A, caratterizzato da creatività, abnegazione e dedizione totale alla causa.

Invece, ora scopriamo che che Steve Jobs possedeva anche un altro talento.

Il talento n. 2 di Jobs

Di recente Tim Cook ha rilasciato una testimonianza nel processo Epic vs Apple. Nella sua deposizione è emerso un dettaglio importante dell’azione di Steve Jobs, questa volta nei panni di capitano d’azienda.

La giudice ha chiesto a Cook informazioni sulla redditività dell’App Store. Cook, con evidente imbarazzo del suo interlocutore, ha risposto che essa non era determinabile perché Apple non era organizzata con una contabilità profitti e perdite per unità di prodotto.

Questo per volontà ferrea di Steve Jobs. In effetti si valuta, attendibilmente al 70%, la redditività dell’App Store ed è quindi probabile che la giudice di Oakland dia una mazzata esemplare alla Apple.

Secondo Cook la prima decisione di Jobs dopo il suo rientro in Apple nel 1997 è stata quella di sbarazzarsi dell’organizzazione esistente. Nessuna divisione avrebbe più tenuto una contabilità industriale analitica separata da quella generale dell’azienda.

All’epoca la maggiore preoccupazione delle varie business unit dell’azienda sembrava quella di far quadrare i conti della propria divisione senza riguardo per ogni altra considerazione. Come i signori della guerra combattono per ogni metro di terra, così i manager delle business unit combattevano per scaricare ogni centesimo di costo fuori dal rispettivo territorio. Era un completo bailamme. I “bozo” avevano fatto il danno.

Ritorno alla visione olistica

In tal modo, era andata persa la visione olistica che caratterizzava la Apple delle origini. Apple, nella testa di Jobs doveva tornare ad essere una start-up, per usare un termine che neppure esisteva all’epoca.

Da quel momento Apple non fu più organizzata per unità di business, ma per funzione. Ciò aiutò a mettere al riparo i vari team dalle pressioni finanziarie, mettendoli nelle condizioni di pensare in termini di ciò che è meglio per il prodotto e, in definitiva, per il cliente.

Con questa organizzazione, le decisioni sui prodotti non risentivano di pressioni finanziarie a breve termine. Il team finanziario non era più coinvolto nei processi che mettevano a punto il percorso del prodotto e i team degli ingegneri e degli sviluppatori non erano coinvolti nelle decisioni sui prezzi.

Forse se nel lontano 1997 Jobs non si fosse liberato per sempre del conto profitti e perdite delle singole unità di business, oggi non avremmo la Apple che abbiamo. Impensabile per noi! Forse per la giudice di Oakland, Yvonne Gonzalez Rogers, non è così impensabile.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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