La tradizione del Risorgimento
Leone Ginzburg
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [dicembre 2019]
Nella primavera del 1943, subito dopo la liberazione dal carcere, Leone Ginzburg preparava un saggio con questo stesso titolo. Il lavoro doveva comprendere i profili di Gioberti, Mazzini, Cavour, Cattaneo e Pisacane. Il testo che riportiamo, è l’unico rimasto. Ginzburg sarebbe morto in carcere nel febbraio 1944, ucciso dalla Gestapo. Il manoscritto di 16 pagine, con la dedica alla moglie, è uscito postumo per iniziativa di Carlo Muscetta («Aretusa», II, 1945, n. 8, pp. 1–16).
Il Risorgimento è vivo
L’Italia in cui viviamo e operiamo non è pensabile senza il Risorgimento. Sorto da un impellente bisogno di adeguare il nostro Paese, che se n’era straniato nel Seicento, alla moderna cultura e vita politica europea, mentre gli Stati italiani erano tanti cadaveri dissepolti che al contatto dell’aria sarebbero andati in polvere, il Risorgimento manifestò assai presto un’originalità di tratti che lo contraddistinse tra i moti di liberazione e di unificazione dell’Ottocento e lasciò un’impronta non facilmente cancellabile nella mentalità e nel costume degli italiani.
Questa attualità di un periodo ormai concluso, che il nostro pensiero abbraccia e dovrebbe poter valutare nella sua interezza con piena serenità di giudizio, si avverte nell’accento diverso, anzi nella diversa sincerità con cui parlano del Risorgimento uomini di varia educazione e tendenza spirituale. Si confronti, ad esempio, il nuovo e ancor cauto e quasi esitante rispetto di cui alcuni ambienti cattolici, in questi anni susseguiti alla Conciliazione, imparano a circondare personaggi fino a ieri esecrati e maledetti, con la trepida e un po’ nostalgica commozione che risentono nell’accostarsi ad essi gli storici della scuola idealistica.
Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implica ancora, e forse continuerà ad implicare per parecchio tempo, una scelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica. L’indifferenza non è ammessa; e qualche tentativo, che si è venuto compiendo ultimamente, di vedere il Risorgimento anche attraverso meschine o insignificanti figure di bacchettoni e di retrivi, è stato accolto con severità e perfino con scandalo: il desiderio di giustificare storicamente l’insipienza o la miopia politica appariva infatti suggerito, piuttosto che da imparzialità, da scarso discernimento morale.
Tale intransigenza indusse qualcuno di quegli sconsiderati ad appellarsi al rispetto per le opinioni altrui, in nome del quale chiedevano che fosse loro concesso di parteggiare per gli oppressori invece che per le vittime; ma non esiste possibilità di rispetto per chi parte da presupposti morali artificiosi e usa un linguaggio in cui il significato delle parole più auguste — «patria», «libertà», «religione» — è miserevolmente svisato e pervertito.
Il Risorgimento è rigenerazione morale
Risorgimento non è dunque, per gli italiani di oggi, la semplice designazione di un periodo storico, un recipiente in cui si possa versare qualunque liquido: è, invece, una tradizione tuttora viva e gelosamente custodita, a cui ci si richiama di continuo per ricavarne norme di giudizio e incentivi all’azione. Sono diversi, di volta in volta, gli aspetti di questa tradizione che hanno più efficacia su di noi, perché la vita pone inevitabilmente l’accento ora su un problema, ora su un altro; eppure non c’è bisogno di lunghi ragionamenti o di complicate ricerche per scorgere l’origine comune di manifestazioni che solo a chi sia spiritualmente lontano dal Risorgimento possono sembrare estranee l’una all’altra: sono sempre episodi della medesima consapevole lotta contro l’infiacchimento morale degli italiani, in nome di quel rispetto della personalità umana, di quel profondo «umanismo» che è il nostro impareggiabile retaggio spirituale.
Prima ancora che si ponessero in termini concreti le questioni politiche dell’indipendenza dallo straniero o dell’unità statale, il Risorgimento s’era iniziato come processo di rigenerazione interiore: il Parini invitava a una civica solidarietà di uguali, l’Alfieri recideva di colpo tutti i legami che in qualche modo costringessero l’uomo, il Foscolo dell’Ortis celebrava la morte come affermazione suprema dell’individuo.
E gli italiani non l’hanno dimenticato, tant’è vero che studiano ancor sempre con ammirata assiduità l’Alfieri e il Parini, poeti di second’ordine ma educatori insigni, e nell’opera creativa di un artista sommo come il Foscolo continuano a leggere soprattutto le esaltate e monotone pagine del suo romanzo: sembra quasi che per certi autori o certe opere un giudizio puramente estetico sia irriverente, e certo esso non riesce a coglierne il significato più profondo.
Il Risorgimento è cambiamento
Tale interesse per gli uomini rappresentativi dell’ultimo Settecento italiano, non affievolitosi mai nel nostro paese, neppure quand’era più esclusivo il predominio e più forte l’irruenza polemica di una storiografia sempre pronta a mettere in campo le accuse di astrattezza e di antistoricismo contro il pensiero, la politica e la letteratura del secolo XVIII, si è venuto rafforzando in questi ultimi tempi, per le stesse ragioni che hanno prodotto un analogo intensificarsi dell’attrattiva esercitata dalla civiltà settecentesca sulle persone colte degli altri paesi.
La dottrina che cercava di spiegare ogni fatto storico richiamandosi ai suoi precedenti nella tradizione nazionale dei vari popoli, e mostrava l’impossibilità o perlomeno la scarsa vitalità dei tentativi di sovvertire gravemente quella tradizione o prescinderne del tutto, solo come integrazione e correttivo del razionalismo del secolo XVIII costituiva un progresso per lo spirito umano; ma quando si fosse dimenticato quel presupposto, sarebbe diventata, come infatti accadde, la giustificazione d’ogni immobilità conservatrice.
Le caratteristiche che i riformatori e i rivoluzionari del Settecento avevano scoperto in ogni uomo, e che stavano a fondamento dei diritti allora proclamati, esistevano veramente, anche se una più esatta individuazione delle varie circostanze ambientali poteva indurre a modificarne da un caso all’altro il grado d’intensità e la reciproca correlazione; invece a poco a poco non si diede importanza se non a quelle modificazioni, e le qualità comuni che onoravano l’umanità e sembravano unirne indissolubilmente i membri vennero poste in dimenticanza o addirittura derise e negate.
Il Risorgimento lo spirito dell’illuminismo in azione
Apparve allora, con involontaria e perciò tanto più significativa chiarezza, la stretta connessione, che era sembrata un espediente propagandistico dei deisti del secolo XVIII, tra gli ideali settecenteschi e la morale cristiana: bastò la convinzione che non si dovessero più considerare tutti gli uomini come ugualmente dotati di ineliminabili diritti naturali, e si ritenne sorpassata anche la credenza che tutti fossero figli allo stesso modo d’un Padre comune.
È bastato giungere a questi estremi perché la necessità di riproporsi molti scopi per i quali si era già lottato nel Settecento facesse intendere a un tratto quanta esperienza di vita, quanta calda passione per la verità accompagnasse il sorgere delle teorie di quel tempo, così spesso accusate di essere astratte e unicamente derivate dalla ragione.
Non si tratta più di ribenedire il secolo XVIII mostrando, secondo un esempio insigne, come vi fossero anticipati i tratti principali della cultura ottocentesca, e magari anche la sensibilità per la storia: abbiamo imparato ad amarlo per le sue peculiarità più spiccate, per la capacità di parlare un linguaggio che ciascuno riesce ad intendere, per la fiducia nella forza della ragione e per il battagliero ottimismo che ne consegue; sappiamo che, ritrovando le sue conquiste, sconfiggeremo l’irrazionalità da cui siamo stati così a lungo dominati, sedotti com’eravamo da una spontaneità che è capriccio, da un’energia che è crudeltà. Ma s’intende che far rivivere in noi l’insegnamento del secolo XVIII non significa adottarne senz’altro, con ridicolo anacronismo, la filosofia o le dottrine politiche, bensì ricollocare al posto che ad esso compete un anello importantissimo della tradizione culturale europea, il quale stava quasi scomparendo.
Il Risorgimento è un rinato sentimento nazionale
Nello studio delle origini settecentesche del Risorgimento, che pure, come si è già detto, non è mai stato intermesso, questo stato d’animo che si viene creando disperderà una specie di ritegno per cui si era indotti a distogliere lo sguardo, come da un argomento triviale ed inutile, dalla mentalità illuministica o rousseauiana di un uomo rappresentativo di quell’età, per concentrare tutta intera l’attenzione sopra particolari — ad esempio il frequente voluttuoso compiacimento del Parini per le squisitezze del viver signorile -, che sono gustosi ed esatti, ma solo su quel determinato sfondo assumono le loro proporzioni. E si intenderà finalmente come il disagio o l’insofferenza manifestati da un Parini e da un Alfieri di fronte ai regimi rivoluzionari instaurati dai francesi nascessero dal loro sdegno di moralisti, feriti da qualsiasi politica violenta, anzi da qualsiasi politica in atto, e non significassero affatto una rinuncia agli ideali di tutta la loro esistenza.
Piuttosto, era ancora commisto di elementi reazionari il nuovo sentimento nazionale, esclusivo e ombroso ma incerto, che era sorto a contatto e in contrasto col patriottismo giacobino, e fece le sue prime pubbliche prove parecchi anni più tardi, alla caduta di Napoleone, richiamando, assai contraddittoriamente, gli austriaci in Lombardia e subito dopo invitando a combatterli nel resto d’Italia col proclama di Rimini.
Lo stesso Foscolo, che nell’età matura meglio d’ogni altro impersonò questo sentimento non sempre ben conscio di sé, prima di decidersi bruscamente a esulare entrò in trattative per la fondazione d’una rivista con i governanti austriaci, che volevano rendere accetti col prestigio della cultura gli inizi della loro dominazione.
Qualcosa era mutato, per cui, nonostante questo ed altri tentativi ed approcci, nemmeno la monarchia absburgica poteva più favorire, come prima della Rivoluzione Francese, lo sviluppo delle energie creatrici nei diversi popoli ch’essa era tornata a signoreggiare: contro l’ideale d’una ben ordinata e razionale amministrazione, che l’Impero napoleonico aveva ereditato dalle monarchie riformatrici del secolo XVIII, portandolo a un maggior grado di perfezione, si ergeva ormai l’ideale dello Stato nazionalmente e storicamente differenziato.
Il Risorgimento è una nuova mentalità storica
Era nata una nuova mentalità storica, in cui tuttavia da principio è abbastanza difficile distinguere quanto fosse effettivo progresso sulle idee settecentesche e le presupponesse, e quanto fosse invece comodo paravento di propensioni reazionarie. Napoleone che, tornato appena dalla campagna di Russia, si sente sfuggire di mano il potere e attribuisce ogni sciagura alla filosofia rivoluzionaria; non riecheggia se non il pensiero dei più retrivi quando assevera, rivolto al suo Consiglio di Stato: «L’histoire peint le coeur humain; c’est dans l’histoire qu’il faut chercher les avantages et les inconvénients des différentes législations».
Lui che, presentandosi come restauratore di alcuni valori tradizionali, era riuscito a modernizzare la vita privata di tutti i popoli europei, finiva con l’aggrapparsi disperatamente a un passato che non era neppure il suo, nel vano tentativo d’impedire alle forze della ragione di conquistare anche il terreno, ch’egli si era riservato, della vita pubblica.
I popoli, d’altra parte, giustificavano con i ricordi più gloriosi del proprio passato l’incoercibile loro impulso a ribellarsi contro una spietata politica che di continuo frazionava e raggruppava i territori e ne mutava o spostava i reggitori secondo il capriccio d’un solo. E i sovrani legittimi, i quali s’erano abituati a parlare anch’essi di libertà per invogliare i popoli a una lotta che s’annunciava durissima, contrapponevano però a quella rivoluzionaria una più paesana e differenziata libertà, tratta dalle cronache medievali invece che dai volumi dei filosofi illuministi.
Solo chi seppe unire all’inclinazione per la storia e alla sensibilità nazionale l’illuministico bisogno di perseguire l’accrescimento delle conoscenze, delle capacità e dei diritti umani, mostrò di saper soddisfare le molteplici esigenze del nuovo secolo. E tali furono, da noi, gli. uomini che, dal 1818 in avanti, gravitarono intorno al «Conciliatore», agli «Annali di statistica» e all’«Antologia», e applicarono a tutti gli aspetti della vita italiana le energie suscitate dall’insegnamento morale del Parini e dell’Alfieri: per opera loro, forse più assai che attraverso i «pronunciamenti» carbonari del 1820 e del 1821, colpi di mano di scarsa ed effimera azione sulla coscienza nazionale, furono posti per la prima volta i molteplici problemi concreti, e perciò davvero politici, che il Risorgimento era chiamato a risolvere.
Il Risorgimento è ricerca collettiva del bene
Nessuno poteva ancora congetturare con sicurezza quale sarebbe stato l’aspetto dell’Italia, dopo le numerose trasformazioni che inevitabilmente avrebbero soppresso o mitigato le maggiori cause della sua inferiorità tra le nazioni europee; ma per quei gruppi la nuova Italia imminente non era più una generosa e malinconica profezia, bensì un’ampia costruzione a cui si lavorava ogni giorno, progredendo sempre, nonostante i parziali errori di calcolo, le frane più o meno vaste, i temporanei rallentamenti di attività.
Accanto ai critici, agli storici, agli economisti che scrivevano in quei periodici, e più tardi nel «Politecnico» e nella «Rivista europea», dosando con accortezza argomenti e parole, prudenti per volontà di durare, tenaci nel perseguire sempre un unico fine, fermissimi nel difendere i valori sui quali non si transige, scesero in campo, animati dalla stessa fede, coloro che davano vita a linee ferroviarie e servizi di navigazione fluviale o creavano scuole agricole e asili infantili; perfino gli uomini d’affari che, pensando essenzialmente al proprio tornaconto, cercavano d’introdurre nella vita locale qualche innovazione industriale o creditizia, capivano di giovare alla patria comune.
Memorabile, per lungimirante acutezza e solida preparazione di quanti vi parteciparono, movendo sempre dal presupposto di un’Italia spiritualmente ed economicamente omogenea, fu il dibattito sulle ferrovie, che ebbe la sua prima origine in un articolo degli «Annali di statistica», pubblicato dal Cattaneo nel 1836, e fu da lui stesso riacceso nel «Politecnico» del 1841: questa collettiva ricerca del miglior modo di procurare il benessere delle diverse parti della penisola — che si concluse nel 1845 con un accuratissimo e in molte sue proposte profetico libro riassuntivo del Petitti, dedicato dall’autore «ai suoi concittadini d’Italia» -, coronava un periodo di sforzi intesi a concepire secondo criteri sempre più sprovincializzati e moderni ogni questione da risolvere, economica o culturale che fosse, e soprattutto ogni disegno che ponesse le basi di un avvenire comune all’intera nazione.
Il Risorgimento è fioritura del pensiero
Anche il Mazzini, che prima dell’esilio aveva collaborato all’«Antologia» e s’era dimostrato attivissimo ingegnoso fautore dell’opera di educazione politica della stampa periodica, nel 1831, quando il fallimento del più importante e caratteristico moto particolarista italiano gli ebbe riconfermata la consapevolezza della propria individualità politica, ritenne indispensabile, nel dar vita al movimento della Giovine Italia, di affiancargli subito una rivista, chiamata anch’essa «La Giovine Italia», che riprendesse, con la libertà derivatale dall’essere stampata all’estero e diffusa clandestinamente nella penisola, gli argomenti ai quali le riviste pubblicate in Italia potevano solo accennare di sfuggita o per allusioni, e svolgesse per la prima volta quelli più apertamente rivoluzionari.
Superando gli indifferenziati metodi massonico-illuministici del carbonarismo, i quali, non avendo presa sugli animi, si erano ridotti a una sequela di riti senza contenuto, egli intendeva adeguarsi, su questo punto come sugli altri, alle condizioni della vita e della cultura italiana; e il terreno già preparato fece sì che questa propaganda d’indole intellettuale avesse un’efficacia rapida e profonda. L’insuccesso dei tentativi attivistici ch’egli promosse o non volle impedire poté successivamente alienare al Mazzini gli animi di molti di coloro che, giovani, avevano aspettato trepidanti e s’erano passati l’un l’altro con lieto senso di sfida i preziosi fascicoli della «raccolta di scritti sulla condizione politica, morale e letteraria dell’Italia, tendente alla sua rigenerazione»; ma la semenza non cadde ugualmente sul sasso né tra le spine, perché attraverso quella rivelazione dei principi democratici e unitari della Giovine Italia essi avevano scoperto la propria vocazione politica e si erano consacrati per sempre alla causa del Risorgimento.
L’operosità degli ingegni migliori e l’intima energia che ne era il fondamento avevano dissipato a poco a poco, in questo periodo preparatorio del Risorgimento, l’immagine del «letterato» italiano, l’uomo che affidava a qualche singhiozzante sonetto i suoi lamenti sulla patria derelitta, pur celebrando puntualmente la clemenza d’ogni legittimo e non sempre nostrano signore che lo ringraziasse con una croce o una pensione, buon padre del resto, marito paziente, ma capace di riscaldarsi davvero solo tra le ingiurie d’una polemica con altri suoi pari.
Erano scomparsi anche gli «improvvisatori», che per un pezzo avevano corso l’Europa, disperdendo un talento spesso genuino in orecchiabili adattamenti di quella letteratura di pensieri triviali e di scarso vocabolario: l’ultimo e il più generoso di essi, Filippo Pistrucci, era diventato direttore della Scuola Italiana di Londra, dove il Mazzini sottraeva all’abiezione e all’incoscienza i giovani mendicanti che dal nostro paese capitavano lassù. Eppure la mentalità del «letterato» e dell’«improvvisatore» ebbe ancora una sua funzione, rumorosa e incidentale ma non indifferente, nel passaggio del Risorgimento a una fase dichiaratamente politica, quando si incarnò nella versatile figura del Gioberti.
Gioberti, l’abile idealista
Salutato «iniziatore del Risorgimento» perché la pubblica discussione della «questione italiana» s’era aperta nella penisola con l’apparire, nel 1843, del libro Del primato morale e civile degli italiani, il Gioberti s’era persuaso d’aver creato lui, dal nulla, il Risorgimento, con le sue libertà, e stupiva che qualcuno potesse dimenticarlo: «Voi», scrisse nell’estrema sua diatriba contro gli avversari politici, «che se io non avessi aperta la strada alle franchigie italiche, sareste forse oggi servi come in antico; e non avreste pure il modo d’insultarmi alla libera e di calunniarmi, stupidi che siete!».
Egli riteneva anzi d’essere l’effettivo autore dell’intero moto rivoluzionario europeo del 1848: se infatti la rivoluzione siciliana aveva preceduto nel tempo le parigine «giornate di febbraio» e le susseguenti rivoluzioni d’Austria, di Prussia, di Ungheria e del Lombardo-Veneto, non c’era dubbio, per il Gioberti, che ne fosse anche l’origine; e siccome la rivoluzione siciliana rientrava nel Risorgimento, era chiaro che ogni cosa andava fatta risalire alla pubblicazione del Primato.
Non c’è ragione, naturalmente, di disconoscere l’importanza propagandistica di quest’opera, che, con le untuose lodi prodigate a tutti e l’idilliaca modestia conservatrice del programma, dava perfino a reazionari assai retrivi l’illusione di non essersi lasciati superare dai tempi, e perciò diminuiva la loro capacità di resistenza; grandissimo fu il valore sintomatico del Primato per tutti gli spiriti liberi, che erano avvezzi alle letture clandestine, e vedevano a un tratto come fosse possibile scrivere apertamente intorno all’Italia e al suo avvenire infiammate parole esaltatrici: tant’è vero che alla facondia celebrativa del Gioberti fecero subito eco più ponderate e positive proposte per risolvere la questione italiana. Tuttavia solo a un letterato poteva venire in mente che un libro fosse la conditio sine qua non di un rivolgimento politico come quello che per il Gioberti era, in senso stretto, il Risorgimento, cioè il Quarantotto.
E proprio da letterato era la politica del Gioberti, pronto sempre a citar passi del Machiavelli e di Tacito, quando non ricorreva a quelli del purista Pietro Giordani. Avendo imparato nei suoi testi che l’azione politica è una serie continua di transazioni suggerite dall’opportunità dei casi, non sapeva che, per transigere con utile proprio e dell’universale, bisogna avere un programma, e abbandonarne una parte solo con la consapevolezza di porre in atto il resto.
In ogni epoca si possono trovare di queste persone, a cui pare una grande astuzia non impegnarsi mai, non dico in un disegno di rinnovamento totale della nazione e dell’umanità intera, come fu quello del Mazzini, ma neppure, come capitò al Cavour e a tutti i veri grandi statisti, nel raggiungimento di mete sempre più vaste, dedotte l’una dall’altra: vogliono essere gli eredi di Machiavelli, e rimangono vittime del primo briccone che abbia un po’ di coerenza e sappia quali mezzi sono utili per conseguire lo scopo e quali, invece, si ritorcono contro chi li adopera. Cultori della medesima ingenua furbizia furono probabilmente anche i professori che, non molti anni fa, accreditarono la fama di un Gioberti politico realista, senza volersi accorgere dell’acrobatico scambio di significati con cui lo stesso Gioberti passava dal realismo filosofico, che di solito noi chiamiamo idealismo, al realismo inteso nel senso volgare di abilità pratica. Il Gioberti, è vero, amava profondamente il suo paese ed era di un disinteresse personale che raggiungeva la schifiltosità; ma queste qualità, sufficienti per un letterato, non bastano a un uomo politico.
Perciò rimase, oltre che indignato, stupito, il giorno che gli accadde di trovarsi improvvisamente abbandonato dai colleghi e sbalzato di seggio quando, presidente d’un gabinetto democratico, si accinse con piena serenità a preparare l’intervento militare piemontese in Toscana e a Roma, per restaurarvi i sovrani fuggiaschi Leopoldo II e Pio IX, sebbene costoro non gradissero affatto quell’aiuto non richiesto: la sicurezza quasi assoluta d’andare incontro alla guerra civile non lo spaventava, preoccupato com’era unicamente di mostrarsi astuto ed energico, cioè politico vero, nell’attuare i suoi progetti; e non gli era neppure venuto in mente che il Piemonte avrebbe forse sostituito la propria a un’occupazione austriaca o francese, ma sicuramente avrebbe suscitato odi infiniti nelle popolazioni dell’Italia centrale e sarebbe stato respinto chi sa per quanto tempo nel campo della reazione.
Come è giusto per un governo sedare le rivolte con repressioni anche sanguinose — egli argomentava — così al Piemonte, braccio della nazione, doveva esser lecito imporre con la forza un ordinamento uguale al proprio, per facilitare la formazione d’un vincolo federativo tuttora inesistente: al Gioberti l’abitudine ai paragoni e ai parallelismi verbali faceva semplicemente scambiare un suo unilaterale desiderio con la maestà della legge e l’aspirazione a un’egemonia italiana del Piemonte con gli interessi degli altri sovrani.
Né l’esperienza del carattere meramente poliziesco subito assunto dai restaurati governi di Roma e di Firenze valse a persuaderlo dell’insensatezza di cui aveva dato prova presupponendo in Pio IX e in Leopoldo II la capacità di condurre ancora una politica sia pur larvatamente nazionale; ché anzi la morte di Carlo Alberto, venuto a mancare il freno dei rispetti umani, lo indusse a inveire con veemenza ancor maggiore contro il re, il quale aveva osato seguire il parere degli altri ministri e l’opinione che prevaleva in Parlamento, rifiutandogli lo scioglimento d’una Camera appena eletta e costringendolo a ritirarsi, mentre equivoche petizioni e dimostrazioni di piazza in suo favore, da lui stesso incoraggiate, mostravano quale curiosa idea si facesse il Gioberti del regime costituzionale. «Io caddi finalmente», egli esclamava più tardi, atteggiandosi a personaggio dantesco, nel libro Del Rinnovamento civile d’Italia, «e cadde meco il Risorgimento italiano da me incominciato; il che mi fa tanto onore che non muterei la mia sorte col più fortunato dei miei avversari».
Gioberti e la sinistra francese
Tuttavia, anche chi si è dimostrato giudice severo dell’azione politica del Gioberti e ha sfatato per di più la leggenda, creata ingenuamente dal Massari fin dal 1859, che nel Rinnovamento egli fosse l’anticipatore teorico e quasi il profeta del Cavour, sembra ritenere che, rimasto in volontario esilio dopo il suo definitivo distacco dai «municipali» piemontesi, egli abbia subito un processo di trasformazione abbastanza profondo, a contatto col pensiero socialista francese di quegli anni, da lui conosciuto soprattutto attraverso gli scritti del Proudhon e di Louis Blanc, e con le previsioni politiche che avevano corso allora negli ambienti democratici parigini.
Tali influssi, che nel Rinnovamento il Gioberti non intese certo dissimulare, tanta è la copia delle citazioni rivelatrici, furono subito rilevati in mezzo ai repubblicani, i quali avevano una cultura politica più europea degli altri antagonisti del Gioberti, ma intesi essenzialmente come frutto di curiosità intellettuale, senza quasi riferimento al significato politico del libro. Infatti, il Gioberti non trascorre mai dalla astratta individuazione di quelli che, con assai reticenza, considerava legittimi «diritti economici della plebe», a una loro qualsiasi concreta applicazione ai problemi nazionali italiani; neppure come ipotesi, neppure come argomento intimidatorio verso coloro ch’egli intendeva spronare all’azione, come se tutte quelle citazioni avessero il medesimo valore esornativo di quante egli aveva tratte dall’epistolario del Leopardi, pubblicato esso pure di recente.
Del resto, l’interesse per le dottrine e gli atteggiamenti futuri della sinistra francese era ovvio, in un momento in cui tutti, compreso un osservatore acuto e informatissimo come il Mazzini, ritenevano sicuro, nel 1852, allo scadere del mandato presidenziale di Luigi Napoleone Bonaparte, un brusco rivolgimento della politica interna francese, che avrebbe dato il potere ai «rossi»; e il Gioberti sentiva la propria fama troppo legata alla clamorosa profezia del Primato per non proclamare l’importanza fondamentale delle qualità divinatorie in un uomo di Stato e non valersi di un’occasione che pareva singolarmente propizia a dimostrarle ancora una volta, se non rispetto all’Italia, rispetto alla Francia e al moto generale europeo.
Incapace di ripensare davvero in termini diversi da quelli che gli erano consueti la situazione italiana, egli avvolse invece in una rete di distinzioni e riserve, che gli permettessero di essere difficilmente smentito dai fatti, le copiose anticipazioni sul carattere della futura rivoluzione italiana, e ripigliò, quanto all’essenziale, l’idea dell’egemonia militare piemontese e della supremazia ideale romana, senza rendersi conto che per il Piemonte non si trattava soltanto né in primo luogo di aver molti soldati, ma di diventare uno Stato che ispirasse fiducia agli italiani e rispetto all’Europa, mentre a Roma una repubblica (essendo inimmaginabile anche per lui il potere temporale in un’Europa dominata dalla democrazia francese) non aveva senso, ove non ripigliasse l’eroica tradizione di quella mazziniana: donde l’ostilità, pur tra le lodi all’ingegno dell’uomo, contro la politica doganale e, in genere, economica del Cavour, per ragioni un po’ simili a quelle che suscitavano il sospetto del Mazzini che gli Stati sardi si sarebbero addormentati nel benessere materiale, ma assai meno giustificate in chi credeva, o faceva mostra di credere, nella forza morale e nella risolutezza dei piemontesi; donde, anche, il monotono ripetersi delle solite ingiurie e calunnie contro il Mazzini, poco meno violente di quelle del 1849, quando, non avendo potuto distruggere la Repubblica romana, egli lo aveva designato come «il maggior nemico d’Italia, maggiore dello stesso austriaco, che senza lui sarìa vinto, e per lui vincerà».
Gioberti e i moti del 1848
Inconsistente e superficiale letterato sia come scrittore politico che come uomo di governo, e perciò in stridente contrasto con la fondamentale serietà del Risorgimento, il Gioberti ebbe però un incontestabile influsso sullo svolgersi dei casi del 1848. Dapprima quasi involontariamente, ma più tardi di proposito, egli riuscì a falsare il carattere di quel rivolgimento, perpetuando l’equivoco del riformismo degli anni antecedenti, nato dal curioso incontro di un papa impressionabile e d’un pubblico un po’ astuto e un po’ facilone, pronto a interpretare ogni atto di lui come un’applicazione delle idee del Primato: il 1848 sarebbe certo finito dappertutto, e non solo — effimeramente — in Sicilia e a Milano, in un’azione risoluta e violenta, senza i libri del Gioberti e la sofistica predicazione addormentatrice del suo viaggio attraverso la penisola.
L’infatuazione fu così generale che ne fu contagiato perfino il Cattaneo, sempre così propenso a ripensare per conto proprio le idee correnti e pronto a combatterle a viso aperto ogni volta che fosse necessario, e venti giorni dopo la liberazione di Milano, mentre cominciavano gli intrighi albertisti, seguitava ad esser convinto che Pio IX, «presidente nato» della prossima confederazione, avrebbe dato modo agli italiani di compiere il loro primo tirocinio politico.
Qualsiasi programma di questo genere presupponeva, per essere attuato, che il potere temporale dei papi si trasformasse in principato civile e fosse stabilmente contenuta e controbilanciata la politica piemontese d’espansione; ma da troppi secoli la Chiesa ricercava l’alleanza dei sovrani e dei governi piuttosto che quella dei popoli per poter improvvisamente abbandonare tale suo orientamento politico, cominciando addirittura dai propri Stati; quanto al Piemonte, che Carlo Alberto aveva voluto per tanti anni campione d’ogni iniziativa reazionaria e che fino alle riforme del decennio cavourriano doveva conservare una struttura sociale e amministrativa particolarmente arretrata, suscitando perciò incoercibili ripugnanze in coloro che avevano delle idee un po’ moderne, nessun’altra forza, e tanto meno il lontano anchilosa- to Regno napoletano, sarebbe riuscito a impedirgli di insediarsi nel Lombardo-Veneto, se in qualche modo ne fossero stati scacciati, com’era nei desideri di tutti, gli austriaci.
Eppure il Gioberti non ebbe nemmeno il sospetto che una politica come quella da lui propugnata come presidente dei ministri fosse contraddittoria col disegno, ch’egli riprendeva dal Primato, di una confederazione di principi: non intendeva che chiedere per Carlo Alberto il regno dell’Alta Italia e per le armi piemontesi l’ingrato compito di restaurare i sovrani fuggiaschi significava suscitare inevitabilmente non eliminabili gelosie e rancori negli altri governi della penisola. Insieme con la pertinace diffidenza di Carlo Alberto verso qualsiasi iniziativa popolare, nella guerra più ancora che nel campo politico, l’equivoco giobertiano è da considerare tra le ragioni determinanti del fallimento del moto italiano del 1848.
Sembra quasi che si voglia fare un merito al Gioberti di un sì clamoroso insuccesso, perché il disegno d’una confederazione di principi non ricomparve più se non patrocinato da Napoleone III, nel 1859, come puro espediente diplomatico che l’opinione pubblica italiana travolse, portata da un impeto incoercibile verso l’unità; ma se gli errori possono essere fecondi d’insegnamento per i popoli o per qualche raro intelletto che sa valersi utilmente anche dell’esperienza altrui, non per questo sarà da celebrare chi s’è dilettato di pericolosi sofismi e ha cercato d’imporre al Risorgimento il meschino machiavellismo di quei predicatori che hanno una morale diversa per ogni diverso uditorio.
Mazzini
Chiaroveggente fermissimo avversario dell’opportunismo giobertiano, la cui inconsistenza morale ed insipienza politica comprometteva ai suoi occhi in modo irrimediabile il significato del Risorgimento, il Mazzini ebbe una singolare attitudine ad isolare e mettere a fuoco, di volta in volta, il problema più importante e più urgente, e per la soluzione di quello stabilire momentanee alleanze che lo avviassero a soluzione, pur conservando una piena libertà d’atteggiamento rispetto ai problemi tenuti in serbo per l’avvenire.
Egli non esitò a inibirsi deliberatamente, a varie riprese, l’apostolato repubblicano, perché lo stato dell’opinione pubblica del nostro paese e la situazione diplomatica rendevano prossimamente attuabile l’unità italiana sotto la bandiera monarchica della casa di Savoia; e la forma costituzionale gli pareva non già irrilevante, ma transitoria, dinanzi al fatto di primordiale importanza che un grande popolo avrebbe finalmente preso coscienza di sé, della sua forza morale e politica, diventando capace d’una vera rigenerazione interiore e, nello stesso tempo, assumendosi l’«iniziativa» nella resurrezione e nel libero aggruppamento delle nazionalità europee ancora oppresse e divise.
In quelle occasioni, molti dei suoi seguaci lo accusavano di debolezza, offesi ch’egli non considerasse il programma del partito d’azione come un ultimatum da accettare o respingere per intero, mentre quasi tutti i moderati lo consideravano un fanatico, perché intendeva collaborare con loro invece di scomparire graziosamente. Era come se offendesse, in un uomo che si elevava con tanta naturalezza nelle più alte regioni dell’ideale, l’esatta valutazione delle forze in contrasto e d’ogni altra circostanza materiale. Così, al costituirsi del Regno d’Italia, quando Venezia era rimasta sotto il dominio dell’Austria e il papa, protetto dalle truppe francesi, era sempre meno disposto a rinunciare all’ultimo lembo del potere temporale, egli aveva avuto — nonostante la clamorosa opposizione sempre dimostrata a qualsiasi accordo con Napoleone III, che gli pareva doversi tramutare senz’altro in assoluta dipendenza — la sensazione precisa che un tentativo d’impadronirsi di Roma avrebbe pericolosamente cimentata la Francia e accresciuta colà la personale popolarità dell’imperatore, e ne era stato indotto a scegliere come obbiettivo immediato la liberazione di Venezia; ma solo assai lentamente, e dopo la triste esperienza del Garibaldi in Aspromonte, l’idea s’era imposta al partito e a tutto il paese.
Nella storiografia italiana ancora adesso non si riconoscono troppo facilmente queste doti al Mazzini, perché si è restii ad ammettere che egli occupi un posto centrale nell’azione politica, oltre che nel pensiero, del Risorgimento. Persiste in moltissimi il giudizio dei «moderati» — al quale neppure un uomo spregiudicato e penetrante come Francesco De Sanctis poté sottrarsi -, che il Mazzini sia stato unicamente un «precursore», un «profeta», il cui influsso concreto cessò col 1848.
E difatti fu d’inapprezzabile importanza l’opera di educazione politica compiuta subito dopo i moti del 1831 dalla Giovine Italia, col suo indirizzo esplicitamente unitario e la fiducia ormai riposta solo nell’iniziativa popolare: dispersasi l’organizzazione clandestina, in seguito alle crudeli repressioni piemontesi del 1833 e al fallimento della successiva spedizione di Savoia, con la medesima rapidità con cui era sorta, come effetto duraturo del successo di quelle idee in tutta la penisola si ebbe, piuttosto che il sorgere immediato di un nuovo indirizzo politico, l’iniziazione patriottica d’una generazione che più tardi avrebbe assunto un’importanza determinante nei diversi partiti nazionali.
Ma chi esamini i principi della Giovine Italia non già rispetto agli ulteriori sviluppi del Risorgimento, bensì nel quadro degli avvenimenti contemporanei, è costretto ad ammettere che non si potevano individuare con maggiore acutezza politica le cause d’una sconfitta come quella del 1831, dovuta in massima parte a una stolta timidezza ideologica: un bieco tirannello come Francesco IV di Modena, diventato, sia pure per un momento, depositario delle speranze dei liberali e il principio del non intervento applicato dal governo provvisorio di Bologna ai modenesi che gli si profferivano per la causa comune, e venivano perciò disarmati e trattati come prigionieri, testimoniavano inoppugnabilmente in favore del programma del Mazzini.
L’esempio di Mazzini e della Giovine Italia
Per lui l’unità d’Italia derivava la propria necessità non da utilitarie ragioni di equilibrio europeo (secondo una tradizione sorta tra gli esuli napoletani del 1799), ma dalla certezza che, abolita ogni artificiosa barriera interna, ogni pastoia d’illogiche e anacronistiche istituzioni, il popolo italiano avrebbe preso coscienza, attraverso l’educazione e il sacrificio, della particolare missione affidatagli da Dio: sicché si spiega come l’azione concreta del Mazzini fosse fatalmente sottovalutata dai machiavellici suoi concorrenti e avversari, incapaci di persuadersi che nella politica, come in qualsiasi altro aspetto della vita degli uomini, le forze morali hanno un peso che nessuna astuzia o prepotenza saprà mai usurpare.
Non appena fu possibile, quando cioè il Risorgimento superò la fase delle congiure e dei moti isolati, il Mazzini, anziché apparire un superato e un solitario, come avrebbero preferito e perciò vollero credere i «moderati», passò addirittura a un’opera di «raddrizzamento» della politica italiana, iniziata intorno al 1848 senza esibizionismi né impazienze, e portata innanzi con inflessibile energia fino al compiuto raggiungimento dell’unità.
Non certo ricercatore di popolarità, ma desideroso — com’è ovvio — di non perdere il contatto con l’opinione pubblica italiana, egli non volle aver l’aria di manifestare lui solo ostilità e diffidenza al pontefice, tra l’unanimità degli entusiasmi neoguelfi. Tuttavia la pubblica lettera che il Mazzini diresse a Pio IX, l’8 settembre 1847, non offriva né un’adesione né un’alleanza: l’appassionata invocazione al pontefice, perché questi, abbandonato il principio di legittimità e i sovrani che ne erano fautori, benedicesse l’opera di quanti volevano unificare l’Italia e consentisse a rappresentare un nuovo principio in cui il potere spirituale e il temporale si sarebbero finalmente confusi, proponeva a Pio IX problemi e soluzioni di colorito così risolutamente mazziniano da equivalere a una cruda enunciazione di ciò che il papa (qualunque papa) non avrebbe potuto mai ammettere né convalidare nel corso del Risorgimento.
L’attualità del programma mazziniano
Senza proclamare per ora l’inattuabilità del nebuloso e contraddittorio programma federale neoguelfo, il Mazzini mostrava d’ignorarlo, così come non parve prestar troppa attenzione, al suo primo ritorno dall’esilio, nell’aprile 1848, ai disegni di supremazia a malapena dissimulati nell’ambiente piemontese: gli sviluppi successivi avrebbero disingannato gl’italiani meglio di qualunque propaganda, e gli avrebbero ridata libertà d’azione. Né da lui né dai suoi doveva venire il pretesto che avrebbero giustificato una defezione di Carlo Alberto e dei moderati lombardi, mentre premeva di adoperare tutte le forze perché la guerra fosse energicamente condotta fino alla vittoria: non era remissività, quella del Mazzini, e tanto meno debolezza di fronte alle seduzioni regie, come credettero per un momento, con troppo semplicistica interpretazione, il Ferrari e il Cattaneo insieme con i loro amici federalisti.
Del resto, poche settimane dopo, più che altro per il desiderio di avere tra le mani un titolo di possesso giuridico in caso di negoziati diplomatici, il governo sardo indiceva una specie di plebiscito nelle provincie occupate dalle sue truppe: così, violando gli espliciti accordi che rinviavano a dopo la guerra ogni decisione sulle forme costituzionali da cui sarebbe stata retta l’Alta Italia, respingeva il Mazzini sul campo dei suoi nemici dichiarati. E quando l’incompetente e incerta strategia di Carlo Alberto, l’astioso sabotaggio d’ogni forma di volontarismo, e in genere delle iniziative popolari, ebbero avuta la loro inevitabile conseguenza nelle sconfitte, nell’abbandono di Milano, nell’armistizio con l’Austria ritornata al Ticino, e apparve indispensabile, per l’avvenire e il significato stesso del Risorgimento, una diversa impostazione del problema italiano, che riconducesse nei suoi veri termini municipali la sterile polemica tra giobertiani e conservatori piemontesi propugnando una politica effettivamente nazionale, il programma unitario e repubblicano del Mazzini assunse d’un tratto l’attualità e l’evidenza delle soluzioni imposte dall’esame obbiettivo dei fatti.
Per uno di quegli ibridi compromessi che sembravano normali nel 1848, si tentava allora di mettere d’accordo l’idea d’una Costituente italiana, richiesta o ammessa da più parti, col mantenimento delia sovranità dei vari Stati della penisola; e si discuteva interminabilmente, perfino in note diplomatiche, sul sistema elettorale da adottare per tale assemblea e sulla natura del mandato, più o meno imperativo e circoscritto, da conferire ai deputati: al Mazzini questi parevano — come erano in realtà — solo sotterfugi per sottrarsi alle esigenze inevitabilmente rivoluzionarie del momento, nell’atto stesso in cui si fingeva di accoglierle; mentre bisognava pensare innanzi tutto ai fratelli lombardi e veneti da poco ricaduti sotto l’oppressione austriaca e stringersi insieme, magari rovesciando i dubitosi o recalcitranti governi, per liberarli: allora sarebbe stato facile radunare in Roma, vera capitale d’Italia, un’assemblea che, invece di bizantineggiare su compromessi federativi tra le varie autorità legittime o baloccarsi con l’unificazione delle monete o delle misure, come avrebbe desiderato il Gioberti, fosse dotata dall’intero popolo italiano di poteri costituenti sovrani.
Ogni forma di governo, sia pure monarchica o federativa, che venisse scelta da un’assemblea cosiffatta, il Mazzini s’impegnava ad accoglierla; ma si rendeva naturalmente conto che la guerra popolare e il suffragio universale da lui preconizzati erano già di per se stessi il presupposto necessario e la miglior garanzia d’attuazione del suo programma. Il pubblico risentimento contro le tergiversazioni e i voltafaccia dei sovrani, tanto violento nell’Italia centrale da indurre alla fuga Pio IX e Leopoldo di Toscana, faceva risorgere intanto quell’iniziativa popolare, in cui il Mazzini scorgeva il fondamento d’ogni vigorosa azione politica.
Non ci sarebbe più stato, come a Milano dopo le Cinque Giornate, l’intervento di privilegiati e di faccendieri a snaturare la rivoluzione, dopo essersene quasi inavvertitamente impadroniti. E a Roma c’era l’inestimabile vantaggio di poter creare senza sforzo un primo nucleo di vita unitaria, perché ogni deliberazione, ogni norma di condotta che vi fosse adottata diventava un esempio e un insegnamento per tutti gli italiani. Fallirono gli sforzi del Mazzini di amalgamare la democrazia toscana con quella romana; né poi gli parve opportuno urtare inutilmente la suscettibilità dei timidi o malevoli governi della penisola facendo proclamare in Roma, quando avrebbe potuto, addirittura la Repubblica Italiana; tuttavia, nei mesi in cui egli tante del popolo, quindi capo del potere esecutivo, non perdette mai di vista quel suo fine essenziale.
Così nel 1849 Roma cessò d’essere uno scenario d’imparaticci classici o di nostalgie medievali, e fu definitivamente annessa al Risorgimento e alla nuova Italia; ma soprattutto fu superato allora, per uno spontaneo elevarsi di uomini di varia levatura e provenienza al disopra dei particolarismi in contesa, l’inutile machiavellismo municipale del 1848. E se non sorse a guidare il mondo per la terza volta la «Roma del popolo», come aveva sperato e continuò a desiderare per il resto della sua vita il Mazzini, il nostro paese cominciò a scoprire la propria vocazione unitaria attraverso i giovani accorsi a Roma da ogni parte d’Italia a sacrificarsi con tranquilla consapevole serenità per la patria comune.
Quello spettacolo fu tanto più notevole in quanto non ne fu snaturata o sacrificata, come volle far credere la reazione europea, la difesa degli interessi locali, e la Repubblica romana vide sempre ai primi posti, negli incarichi politici e militari, uomini nati nel suo territorio: gli altri — i liguri come il Mazzini e il Garibaldi, i lombardi come il Cernuschi e il Medici, i napoletani come il Pisacane e il Saliceti — erano la naturale proiezione della Repubblica sul piano nazionale.