La successione
5 film a tema sul passaggio generazionale
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SUCCESSION
Serie TV, 4 stagioni, 39 episodi; 2018–2023; ideata da Jesse Armstrong; con Brian Cox (Logan Roy), Alan Ruck (Connor Roy), Jeremy Strong (Kendall Roy), Kieran Culkin (Roman Roy), Sarah Snook (Siobhan “Shiv” Roy), Hiam Abbass (Marcia Roy), Nicholas Braun (Greg Hirsch), Peter Friedman (Frank Vernon), Natalie Gold (Rava Roy), Matthew Macfadyen (Tom Wambsgans); 56–88 min ogni episodio
NowTV
La successione capitalistica
La serie “Succession” ruota attorno alle intricate dinamiche di potere della famiglia Roy, proprietaria di Waystar Royco, un conglomerato mediatico e di intrattenimento globale. Questo impero aziendale fittizio sembra ispirarsi al colosso mediatico costruito dal magnate australiano Rupert Murdoch, con cui condivide numerose similitudini anche narrative.
Al centro della trama si pone la questione della successione al vertice dell’azienda, attualmente nelle mani dell’imponente e spietato patriarca Logan Roy. La sua età avanzata e i ricorrenti problemi di salute innescano una feroce competizione tra i suoi quattro figli: Kendall, Shiv, Roman e Connor. Ognuno di loro manifesta una visione distintiva della leadership e ambisce al controllo dell’impero familiare con differenti motivazioni e approcci.
Kendall, il secondogenito, si presenta come il candidato più preparato sulla carta, ma è afflitto da una profonda instabilità emotiva e da una dipendenza psicologica dal padre che ne mina l’autorevolezza. Shiv, l’unica figlia donna, vanta considerevoli competenze politiche ma sconta una limitata esperienza nel mondo aziendale. Roman, il più giovane, dimostra una brillante intelligenza non convenzionale, oscurata però da un’immaturità che spesso compromette la sua credibilità. Connor, il primogenito, si distingue per il suo sostanziale disinteresse verso gli affari di famiglia, preferendo perseguire ambizioni eccentriche nel mondo della politica.
Logan Roy emerge come un maestro della manipolazione psicologica, abile nel gestire e alimentare le ambizioni dei figli mantenendo sempre il controllo della situazione. La sua strategia genera un sistema di alleanze temporanee e tradimenti che mantiene i suoi eredi in perpetua competizione, impedendo coalizioni che potrebbero minacciare la sua autorità. Il patriarca non si limita a resistere al passaggio del potere, ma persegue attivamente una strategia volta a mantenere i figli in uno stato di perenne sudditanza psicologica.
Sul versante corporate, la serie esplora magistralmente la complessa rete di relazioni tra governance familiare e dinamiche del capitalismo contemporaneo. Le pressioni del consiglio di amministrazione, le esigenze degli investitori istituzionali e la gestione dell’immagine pubblica si intrecciano costantemente con le già complesse dinamiche familiari, creando un quadro di forte complessità narrativa che, forse, è il maggiore punto di forza della serie.
In ultima analisi, “Succession” propone una riflessione profonda sul delicato equilibrio tra diritti ereditari e meritocrazia. I Roy non solo competono tra loro, ma si confrontano continuamente con la percezione pubblica che li etichetta come privilegiati destinati a ereditare un potere che non hanno davvero costruito e neppure meritato.
La serie si configura così come un’analisi brutale, satirica e a tratti grottesca delle dinamiche familiari e di potere, mettendo in discussione il concetto stesso di successo e la sua effettiva raggiungibilità in un contesto dominato da ambizioni sfrenate e relazioni tossiche in una maniera che non è molto lontana dalla realtà.
RAN
tratto da Re Lear di William Shakespeare
Film; 1985; regia di Akira Kurosawa; con Tatsuya Nakadai (Lord Hidetora Ichimonji), Jinpachi Nezu (Jiro Masatora Ichimonji), Mieko Harada (Lady Kaede), Hisashi Igawa (Shuri Kurogane), Masayuki Yui (Tango Hirayama); 2h 3min
Apple TV, Prime Video
La successione dinastica
Ran di Akira Kurosawa è un’opera epica che intreccia il dramma shakespeariano con l’estetica e le tradizioni giapponesi, trattando temi universali come la successione dinastica, il potere e il caos che inevitabilmente scaturisce quando questi elementi sfuggono al controllo umano. Il film rappresenta una raffinata rilettura del Re Lear di William Shakespeare, trasposta nel contesto del Giappone feudale del XVI secolo. Il titolo stesso, “Ran”, che in giapponese significa “caos”, sintetizza l’essenza del tema che informa l’intera narrazione.
Al centro della trama si colloca la fatidica decisione di Hidetora Ichimonji, un anziano e potente signore della guerra, di dividere il proprio regno tra i tre figli: Taro, Jiro e Saburo. Questa scelta, apparentemente dettata dal desiderio di garantire stabilità e pace al regno, si rivela un tragico errore destinato a generare distruzioni di proporzioni immani. I due figli maggiori, Taro e Jiro, tradiscono rapidamente la fiducia paterna nel tentativo di accrescere il proprio potere, mentre Saburo, l’unico ad aver criticato apertamente questa decisione, viene condannato all’esilio.
La successione dinastica viene così rappresentata non come un semplice e consensuale passaggio di consegne, ma come un potente catalizzatore di conflitti che disgregano ogni ordine familiare e sociale preesistente. La frammentazione del regno, inizialmente concepita come atto di saggezza, rivela invece la fragilità intrinseca delle relazioni umane quando l’avidità e la brama di potere prevalgono sui valori dell’onore e della lealtà. Hidetora, che in passato aveva governato con spietata brutalità, precipita inesorabilmente nella follia, sopraffatto dal peso del tradimento e dalle conseguenze devastanti delle proprie scelte.
Kurosawa arricchisce il dramma con un’estetica visiva di straordinaria potenza. Le maestose inquadrature dei paesaggi giapponesi, punteggiate da fortezze imponenti e campi di battaglia, evidenziano la piccolezza della condizione umana di fronte all’implacabilità del destino e alla grandiosità della natura. I costumi, che traggono ispirazione dal teatro Noh, assumono una valenza fortemente simbolica: i colori sgargianti degli abiti dei figli di Hidetora — il rosso di Taro, il giallo di Jiro e il blu di Saburo — riflettono le loro personalità contrastanti e prefigurano l’inevitabile conflitto.
La regia di Kurosawa si distingue per un uso attento del movimento scenico: le sequenze di battaglia vengono orchestrate come tragiche coreografie dove la violenza viene spogliata di qualsiasi connotazione eroica. Emblematica è la sequenza dell’assalto al castello di Hidetora, realizzata in assenza di dialoghi e accompagnata unicamente da una colonna sonora inquietante. Una scena che rappresenta un esempio massimo di cinema puro, capace di comunicare il senso del caos e della disperazione attraverso il solo potere delle immagini e del suono.
Con Ran, Kurosawa costruisce una riflessione tragicamente amara sulla natura del potere e sull’inevitabile declino della condizione umana. La successione, lungi dall’essere un processo di continuità dinastica, si trasforma in un detonatore di tragedia, dimostrando come la discordia e il caos diventino inevitabili quando l’ambizione personale prevale sul bene comune e sulla capacità di dialogo.
IL PADRINO (The Godfather)
Tratto dall’omonimo romanzo di di Mario Puzo
Film; 1972; regia di Francis Ford Coppola; con Marlon Brando (Don Vito Corleone), Al Pacino (Michael Corleone), James Caan (Santino Corleone), Richard S. Castellano (Peter Clemenza), Robert Duvall (Tom Hagen), Sterling Hayden (Mark McCluskey), John Marley (Jack Woltz); 3h 01min
Netflix
La successione mafiosa
Nel Il Padrino di Francis Ford Coppola, il passaggio di potere all’interno della famiglia italo-americana dei Corleone rappresenta un momento cruciale che illumina il profondo conflitto tra tradizione e ambizione. La narrazione si sviluppa attorno alle vicende dei Corleone, una delle più influenti famiglie mafiose negli Stati Uniti, concentrandosi sulla complessa successione dal patriarca Vito al figlio Michael, inizialmente l’unico dei suoi eredi determinato a distanziarsi dal sistema criminale attraverso gli studi universitari e il servizio militare.
Vito Corleone, grande interpretazione di Marlon Brando, incarna l’autorità indiscussa della famiglia. Il suo dominio si fonda su un elaborato sistema di alleanze e favori reciproci, governato da un rigido codice d’onore che esige rispetto, disciplina e lealtà. Nonostante operi nell’illegalità con metodi talvolta brutali, Vito mantiene una propria integrità morale che gli garantisce rispetto e timore reverenziale non solo negli ambienti criminali. La sua successione, pertanto, trascende il mero trasferimento di potere, assumendo una valenza simbolica e morale sia all’interno della famiglia sia nell’intera comunità mafiosa.
L’ascesa di Michael al potere segna una drammatica rottura con la tradizione. Inizialmente estraneo agli affari criminali e desideroso di costruirsi una vita rispettabile, si trova improvvisamente coinvolto nel mondo mafioso a seguito del tentato omicidio del padre. Questo evento catalizzatore lo costringe ad assumere un ruolo attivo nella protezione della famiglia, innescando una serie di eventi violenti che lo porteranno a diventare il nuovo capo indiscusso.
Il contrasto tra Vito e Michael si manifesta principalmente nella loro diversa concezione del potere. Vito persegue un equilibrio che salvaguardi il prestigio familiare, evitando la violenza gratuita e mantenendo un codice etico, seppur distorto. Michael, al contrario, sviluppa una visione più cinica e spietata: è disposto a ricorrere alla violenza estrema per consolidare ed espandere il proprio dominio, eliminando senza esitazione chiunque rappresenti una minaccia. Paradossalmente, proprio lui che aveva cercato di sfuggire al destino criminale diventa più implacabile del padre nel mantenere il controllo, segnando una trasformazione fondamentale nelle dinamiche mafiose.
La successione diviene così metafora di un cambiamento non solo generazionale, ma anche culturale e antropologico. Mentre Vito incarnava una visione tradizionale del potere, basata su un sistema di valori e codici comportamentali consolidati, Michael abbraccia una concezione moderna e pragmatica, dove il fine del dominio assoluto giustifica qualsiasi mezzo. Questa metamorfosi non si limita a provocare una tragedia familiare, ma segna la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova fase nella storia dei Corleone, caratterizzata dall’uso sistematico della violenza come strumento di controllo.
In conclusione, il passaggio di potere nella famiglia Corleone trascende la mera questione ereditaria, configurandosi come un complesso dramma che intreccia lealtà, tradimento e una profonda trasformazione nella natura stessa del potere criminale.
RAIN MAN — L’UOMO DELLA PIOGGIA
Sceneggiatura di Ronald Bass, Barry Morrow
Film; 1988; regia di Barry Levinson; con Dustin Hoffman (Raymond Babbitt), Tom Cruise (Charlie Babbitt), Valeria Golino (Susanna), Gerald R. Molen (dottor Bruner), Jack Murdock (John Mooney), Michael D. Roberts (Vern); 2h 13min
Apple TV
La successione che riunisce
Nel film Rain Man, diretto da Barry Levinson, il rapporto tra Raymond e Charlie Babbitt costituisce il fulcro narrativo dell’opera. Charlie (interpretato da Tom Cruise) è un giovane imprenditore egocentrico e spregiudicato, la cui esistenza viene messa a soqquadro dalla morte del padre. Durante la lettura delle ultime volontà, Charlie apprende che il consistente patrimonio paterno — ammontante a tre milioni di dollari — è stato destinato a un fratello maggiore della cui esistenza era all’oscuro: Raymond (Dustin Hoffman), un uomo affetto da autismo con sindrome del savant, ospite di una struttura specializzata.
Nelle fasi iniziali, il legame tra i due fratelli si rivela conflittuale e utilitaristico. Charlie, furioso per essere stato escluso dall’eredità, preleva Raymond dall’istituto con l’intento di utilizzarlo come strumento di pressione per ottenere il denaro. Tuttavia, il viaggio che i due intraprendono insieme attraverso gli Stati Uniti si trasforma in un momento di profonda metamorfosi interiore di Charlie. Nel corso della loro avventura condivisa, Charlie inizia gradualmente a conoscere Raymond, a comprenderne le peculiarità comportamentali, ad apprezzarne le straordinarie capacità e a imparare a gestirne le fragilità.
La questione patrimoniale, benché rappresenti inizialmente il motore della vicenda, assume progressivamente un significato più profondo con l’evolversi del rapporto fraterno. Per Charlie, l’eredità costituisce inizialmente una forma di rivalsa nei confronti di un padre con cui aveva mantenuto un rapporto distaccato e problematico. Tuttavia, man mano che impara ad apprezzare Raymond come individuo, la dimensione materiale passa in secondo piano rispetto al vincolo affettivo che si va consolidando tra i due fratelli. Charlie scopre così il valore autentico dei legami familiari, che aveva sempre respinto a causa del proprio risentimento e della sua smodata ambizione.
Raymond, per parte sua, mantiene inalterata la propria natura, ancorata a rituali ossessivi e schemi logici rigidi, ma il viaggio lo espone a esperienze inedite che lo avvicinano a Charlie in modi sottili ma significativi. Nonostante le difficoltà comunicative tra i due fratelli, emergono momenti di intensa vicinanza emotiva e reciproca comprensione, come quando Raymond rievoca un episodio dell’infanzia di Charlie, rivelando l’origine del soprannome “Rain Man” (storpiatura infantile di “Raymond”).
Nel processo di riscoperta del legame fraterno si manifesta la maturazione emotiva di Charlie, che si trasforma da uomo egoista e materialista in fratello premuroso e consapevole. La sofferta decisione finale di consentire il rientro di Raymond nell’istituto specializzato risulta dolorosa ma inevitabile, poiché Charlie giunge a riconoscere le specifiche necessità del fratello e ad accettare il proprio ruolo di tutore affettivo, abbandonando definitivamente ogni intento opportunistico.
La pellicola riesce così a tracciare un percorso di crescita personale intenso e credibile, in cui il tema dell’eredità materiale si trasforma gradualmente in una riflessione più ampia sull’eredità emotiva e sul valore autentico dei legami familiari, anche quando questi si manifestano in forme non convenzionali.
DOWNTON ABBEY
Serie TV, 6 stagioni, 52 episodi; 2010–2015; ideata da Julian Fellowes; con Hugh Bonneville (Robert Crawley, Conte di Grantham), Elizabeth McGovern (Cora Crawley, Contessa di Grantham), Michelle Dockery (Lady Mary Crawley), Maggie Smith (Violet Crawley, Contessa Madre di Grantha), Jim Carter (Charles Carson); 47–93 min ogni episodio
NowTV, Prime Video
La successione nobiliare
Downton Abbey arra le vicende dell’aristocratica famiglia Crawley e della loro servitù, ambientate nella fittizia tenuta di Downton Abbey nello Yorkshire, in un arco temporale che si estende dal 1912 agli anni Venti del Novecento. La serie si distingue per la sua narrazione raffinata ed erudita, per la minuziosa ricostruzione storica e per la caratterizzazione approfondita dei personaggi, esplorando le trasformazioni sociali, politiche ed economiche durante il regno di Giorgio V.
La questione della successione patrimoniale emerge come tema portante sin dall’episodio iniziale. In seguito alla tragica scomparsa dell’erede maschio James Crawley e del suo primogenito nel naufragio del Titanic nel 1912, la famiglia si trova ad affrontare una profonda crisi. Poiché la legislazione dell’epoca preclude alle donne la possibilità di ereditare titoli nobiliari e proprietà vincolate da un “entail”, il patrimonio di Downton non può essere trasmesso a nessuna delle tre figlie del Conte di Grantham, Robert Crawley. Questa circostanza porta all’ingresso in scena di Matthew Crawley, un cugino di estrazione borghese, come nuovo erede designato.
La successione non si configura solamente come questione giuridica, ma assume rilevanti risvolti emotivi e sociali. Robert Crawley e la consorte Cora aspirano a preservare l’integrità della tenuta per salvaguardare il prestigio sociale proprio e dei loro discendenti. D’altro canto, Matthew, avvocato di estrazione medio-borghese, inizialmente fatica ad ambientarsi nel milieu aristocratico e a sostenere il gravoso ruolo di erede di un così vasto patrimonio. Il contrasto tra il conservatorismo dei Crawley e il pragmatismo di Matthew rispecchia le trasformazioni della società inglese del primo Novecento, quando il sistema nobiliare iniziava a vacillare sotto la spinta della modernità e dei conflitti mondiali.
Un ulteriore elemento cruciale legato alla successione è rappresentato dalla dote di Cora, facoltosa ereditiera americana. Il suo patrimonio, impiegato in passato per il risanamento finanziario di Downton, risulta indissolubilmente vincolato alla proprietà. Tale circostanza genera ulteriori tensioni quando Lady Mary, la primogenita, tenta di garantirsi un avvenire attraverso l’unione con Matthew, nonostante le iniziali divergenze caratteriali e culturali.
La tematica della successione diviene metafora del destino dell’aristocrazia britannica. Nel corso della narrazione, la rigida stratificazione sociale subisce una progressiva evoluzione: emergono nuove figure imprenditoriali di estrazione popolare, mentre i membri della famiglia Crawley sono costretti ad adattarsi a una realtà in mutamento. Ciononostante, il legame affettivo con Downton Abbey e la sua eredità mantiene una centralità indiscussa, poiché la tenuta incarna più di una mera proprietà terriera: rappresenta un baluardo di continuità e tradizione in un’epoca di rapide trasformazioni.
Con il suo intricato intreccio di dinamiche familiari, sentimenti, abnegazione e fedeltà, Downton Abbey non si limita a narrare la storia di una famiglia aristocratica, ma dipinge un affresco avvincente e sfaccettato di un’epoca ormai tramontata, riuscendo a catturare la complessità di un mondo sospeso tra tradizione e modernità.