La revisione dei trattati e la sicurezza collettiva

Il sistema di Versailles e il suo fallimento (1919–1933)

Mario Mancini
9 min readAug 15, 2020

di Karl Polany

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La firma del trattato di Versailles nella sala degli specchi, particolare di u n dipinto di by Sir William Orpen. Johannes Bell, in rappresentanza della Germania, ripreso di spalle mentre sigla il trattato.

Gli schieramenti nazionali nei quali gli stati europei si confrontavano erano, fino a non molto tempo fa, piuttosto ben definiti: da una parte la Francia e i suoi alleati orientali, cioè la Polonia e i tre stati della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania); dall’altra parte la Germania e gli stati sconfitti minori come l’Ungheria e la Bulgaria, fiancheggiati diplomaticamente da due grandi potenze, Italia e Russia. Il primo gruppo formava il blocco antirevisionista; l’altro corrispondeva, grosso modo, alla schiera degli stati revisionisti.

Il gruppo francese era ben definito; i suoi membri erano uniti da stretti legami di alleanza nel quadro della Società delle Nazioni. Il gruppo tedesco era meno compatto; non esistevano alleanze; la sua coesione si basava più sull’interesse comune e sulla collaborazione diplomatica che su accordi formali.

Questa divisione non esiste più. Gli schieramenti nazionali del primo periodo successivo alla guerra hanno perso la loro solidità originaria. È dubbio, ad esempio, se gli stati della Piccola Intesa o la Polonia seguano ancora incondizionatamente la linea francese; dall’altra parte, la Russia sovietica è completamente uscita dal campo revisionista.

1. Il sistema di Versailles

Revisionismo e antirevisionismo hanno ovviamente origine nel trattato di Versailles, al quale, per essere precisi, occorrerebbe aggiungere i trattati di St. Germain, Trianon, Neuilly e Sèvres. Salvo per quest’ultimo, che riguardava la Turchia, le disposizioni territoriali dei trattati di pace sono rimaste inalterate; i confini di Germania, Austria, Ungheria e Bulgaria sono ancora quelli stabiliti nel 1919. E oggi sono proprio le frontiere ad essere praticamente l’unico oggetto delle rivendicazioni revisionistiche.

In quasi tutti gli altri aspetti i trattati di pace non hanno più efficacia. Di riparazioni non si parla più; le nazioni sconfitte non sono più disarmate. La Germania ha nuovamente occupato la Renania e vi sta costruendo fortificazioni; ha riacquistato il pieno controllo della Banca centrale e delle ferrovie; ha riaffermato la propria piena sovranità sui fiumi internazionalizzati e sul canale di Kiel. Il sistema di Versailles, come ordine generale delle cose, è finito.

Il primo periodo della storia del dopoguerra è stato caratterizzato dai tentativi di far funzionare quel sistema. Ma erano sforzi destinati al fallimento. Sarebbe un errore, comunque, prendere senz’altro per buono ciò che i revisionisti affermano, cioè che la debolezza di Versailles stesse principalmente in quelle che secondo loro sono le ingiustizie contenute nei trattati.

Ingiustizie sono indubbiamente state commesse in qualche misura, per esempio nel ridisegnare i confini dell’Ungheria. Ma la radice delle difficoltà è molto più profonda. L’ordine stabilito a Versailles non poteva durare. Era, in realtà, solo la parvenza di un ordine. Con il disarmo unilaterale degli stati sconfitti, l’ordine tradizionale, secondo il quale ogni nazione come potenza indipendente e sovrana poteva contare sulle proprie forze, veniva messo da parte: senza tuttavia stabilire alcun sistema di norme che ne prendesse il posto.

La Società delle Nazioni, il cui compito sarebbe stato di garantire il nuovo sistema, la nuova legalità, non aveva alcun effettivo potere esecutivo, come vedremo meglio fra poco. Quando si rivelò impossibile conseguire il disarmo generalizzato, il fallimento di Versailles divenne evidente.

Il collasso della Conferenza per il disarmo, infatti, fu seguito dalla liquidazione della piattaforma di Versailles e dal ritorno alla vecchia politica di potenza nella sua forma più perversa.

Il sistema diVersailles era in realtà il risultato di una peculiare serie di circostanze. Dopo aver sconfitto la Germania sul campo, la Francia desiderava in primo luogo premunirsi contro qualsiasi velleità della Germania di pareggiare i conti mediante una nuova guerra di revancbe.

Gli statisti francesi insistettero sia sullo smembramento della Germania mediante la creazione di uno stato tedesco cattolico a sud del fiume Meno, sia sulla necessità che essa non fosse comunque in grado di aggredire la Francia. Il presidente Wilson e Lloyd George, per indurre la Francia ad accettare le condizioni meno drastiche contenute nei trattati, dovettero impegnarsi a offrirle un trattato di alleanza.

Alla fine gli Stati Uniti, rifiutando di ratificare il trattato di Versailles, disconobbero la firma del loro presidente; le promesse americane alla Francia si vanificarono. Sicché anche la Gran Bretagna si considerò sollevata dagli obblighi presi nell’accordo tripartito con Francia e Stati Uniti. Accadde così che non sussistesse alcuna alleanza militare di tipo tradizionale in grado di salvaguardare la permanenza del nuovo assetto.

2. La parità di status e la Società delle Nazioni

La sola alternativa ad alleanze militari vecchio stile era l’instaurazione di una Società delle Nazioni che garantisse il rispetto delle norme mediante la forza di un esecutivo internazionale. A Versailles era stato creato, su proposta del presidente Wilson, qualcosa che si approssimava a questo tipo di Società; gli stati sconfitti, uno alla volta, ne divennero membri.’

Ma il disarmo unilaterale delle potenze sconfitte dimostrò di essere un ostacolo fatale. Solo una Società nella quale tutte le nazioni avessero un eguale status poteva fugare il sospetto di essere nient’altro che la riunione delle potenze vittoriose, organizzate, al riparo di nobili principi, allo scopo di tenere sottomesse le potenze sconfitte. E meno di accattivarsi la fiducia a la lealtà spontanea dei propri membri, la Società delle Nazioni non poteva sperare di esercitare un’autorità internazionale efficace, capace di dissuadere, con la preponderanza della sua forza, qualsiasi aggressore. L’eguaglianza dei diritti di tutti gli stati membri era essenziale per l’esistenza e il funzionamento della Società.

Germania, Ungheria, Austria e Bulgaria, invece, non solo erano state disarmate, ma i trattati avevano anche ristretto i loro armamenti futuri a un minimo a mala pena sufficiente per il mantenimento dell’ordine interno. Non era stato stabilito alcun limite di tempo ai provvedimenti di disarmo; si supponeva, in effetti, che quest’ordinamento durasse sempre.

Qualunque cosa si possa pensare del rango morale di un popolo che l’autorità della legge internazionale mantiene disarmato, il suo rango politico e il suo rango giuridico sono necessariamente inferiori rispetto a quelli delle nazioni che hanno il diritto di armarsi. Come membri di un’associazione internazionale di popoli gli stati sconfitti erano svantaggiati in tutti i loro rapporti, poiché i loro minori diritti li ponevano in una posizione di generale inferiorità.

Una vera Società delle Nazioni non avrebbe dovuto essere costruita sulla discriminazione. Il fatto che alcuni paesi si trovassero disarmati, mentre altri rimanevano armati, non poteva non indebolirla.

È vero che una discriminazione appariva, in qualche misura, inevitabile. Le grandi potenze, a cui fu aggiunto per compiacenza il Belgio, furono dichiarate membri permanenti del Consiglio, mentre gli altri stati dovevano attendere il loro turno per esservi ammessi. Questa discriminazione non era tuttavia necessariamente in contrasto con il funzionamento di una genuina Società delle Nazioni.

È naturale che gli stati piccoli abbiano meno peso di quelli grandi e potenti, e che anche le loro responsabilità siano proporzionalmente minori. Ciò non implica che lo spadroneggiare delle grandi potenze sui piccoli stati sia un modo di procedere corretto, atto a favorire una vera pace.

I paesi piccoli hanno diritto all’autodeterminazione tanto quanto i più grandi: dato che la discriminazione a favore delle grandi potenze trasgrediva questo principio, la Società delle Nazioni non poteva non perdere unità e coerenza. Resta inteso che non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato nell’attribuire la qualità di membri permanenti del Consiglio alle grandi potenze, poiché la loro più larga influenza è effettivamente controbilanciata dalle loro più pesanti responsabilità.

I loro interessi sono toccati ovunque compaia una perturbazione, e tocca a loro il compito di mantenere la pace e l’ordine ovunque siano a repentaglio. E ciò resta vero a prescindere dal fatto che il loro darsi da fare sia finalizzato comunque al loro particolare vantaggio. La discriminazione tra potenze grandi e piccole è dovuta alla storia e alla geografia, non agli estensori del patto.

Ho sottolineato questo punto per evitare un modo comune di rendere oscura la questione. Molto spesso l’insistente richiesta della parità di status da parte della Germania ha suscitato l’obiezione che anche altri membri della Società erano nella sua stessa condizione e che non era quindi esatto denunciare una discriminazione contro la Germania.

Ma questo argomento, spesso addotto con le migliori intenzioni, era improprio. A prescindere dalla prerogativa riservata alle grandi potenze di far permanentemente parte del Consiglio, resta il fatto che la qualità di membro della Società delle Nazioni era basata sull’eguaglianza. Invece ai paesi sconfitti, proprio e solo per questa loro condizione, fu rifiutata la parità di status.

3. Il circolo vizioso

La medesima difficoltà si fece valere anche in un’altra forma. Benché l’anomalia principale riguardo ai paesi sconfitti fosse, come è retrospettivamente chiaro, il loro disarmo in un mondo armato, i loro reclami si riferivano anzitutto ai sacrifici che i trattati avevano loro addossato, a cominciare da quelli territoriali. Essi chiedevano in primo luogo non la possibilità di armarsi, ma la revisione dei trattati, dei quali veniva denunciata l’ingiustizia, l’irragionevolezza, l’assurdità.

Torneremo più avanti sul diritto e sul torto di questa posizione. Per ora basta dire che senza dubbio qualche misura di revisione era possibile senza caricare su altri nuove ingiustizie, e che una modifica in questo senso dei trattati avrebbe reso notevolmente più facile la situazione generale.

Ma la revisione avrebbe accresciuto le risorse, specialmente economiche, dei paesi sconfitti, aumentando così anche la possibilità che essi si preparassero, seppure in segreto, per potere un giorno sfidare ancora una volta sul campo di battaglia gli attuali vincitori. In assenza di una salvaguardia militare del nuovo ordine, i vincitori rifiutarono di accedere a un passo di questo genere, a meno che fosse garantita la loro sicurezza.

Essi proposero di rafforzare il sistema della sicurezza collettiva abbozzato nel patto della Società delle Nazioni e di istituire un esecutivo internazionale con sede a Ginevra, capace di comminare sanzioni efficaci contro eventuali aggressori. Insomma, alla revisione reclamata dagli sconfitti i paesi vincitori del continente contrapponevano con altrettanta concitazione l’esigenza della sicurezza collettiva.

Essi richiesero la garanzia che tutti i membri della Società si impegnassero preventivamente a correre in soccorso di chi venisse aggredito. Né i paesi sconfitti, però, né i più lungimiranti fra i vincitori erano inclini a sobbarcarsi a un tale impegno nelle circostanze date.

Gli sconfitti insistettero giustamente sul fatto che la sicurezza senza la revisione significava semplicemente sicurezza dello stato di fatto, il sovvertimento del quale essi tentavano con tutte le loro forze. A loro volta, i più lungimiranti fra i vincitori, la Gran Bretagna in primo luogo, avevano buone ragioni nel far rilevare che non erano propensi a garantire tutte le frontiere stabilite dai trattati, non quelle, almeno, che essi dubitavano fossero giuste e praticabili. Anche in questo caso si giungeva dunque a un punto morto.

Un gruppo di paesi chiedeva che la revisione avesse la precedenza sulla sicurezza collettiva; gli altri insistevano sulla necessità di seguire l’ordine inverso. Solo l’effettuazione simultanea delle due transazioni, tale che ognuno prendesse con una mano mentre dava con l’altra, avrebbe potuto portare a una soluzione.

L’Europa avrebbe potuto forse evitare l’attuale vicolo cieco se la revisione e la sicurezza collettiva fossero state agguantate contemporaneamente.

Ma non fu fatto mai alcun serio tentativo in questo senso. La colpa, se di colpa si può parlare, va divisa tra Francia e Gran Bretagna. Agli inglesi sembrava appropriato pensare ai paesi sconfitti con spirito sportivo.

Essi ritenevano ovvio che il problema della revisione dovesse essere affrontato con magnanimità. «Non colpire chi è a terra» è un principio che fa presa su ogni inglese. Nell’affrontare il caso della Germania o quello dell’Ungheria gli inglesi non trovavano difficoltà serie. Tendevano invece ad avvertire una certa irritazione verso la Francia.

Perché questa mania della sicurezza? Dopo tutto era la Germania, e non la Francia, ad essere stata disarmata: nonostante ciò, i francesi sembravano così ipnotizzati dalla paura da restar sordi alla voce della giustizia e della ragione. C’era qualcosa che non andava nel loro atteggiamento, questo è poco ma sicuro.

Vorrei ora presentare le realtà in giuoco giovandomi di una semplice analogia.

I popoli vicini di Francia e Germania si erano duramente battuti. I francesi, che avevano avuto la meglio, che avevano rimesso completamente e — credevano — definitivamente i tedeschi al loro posto, fecero pagare a questi ultimo l’intero conto; inoltre, temendo che cercassero una rivalsa, vollero spazzati via anche i rimasugli del loro armamento.

Il tempo passò e i sentimenti divennero meno accesi. Gli amici della Francia, che avevano combattuto al suo fianco, premevano per la riconciliazione. Fu fatta qualche concessione ai tedeschi, i quali tuttavia avevano la sensazione di continuare ad essere alla mercé dei loro vicini armati, almeno fino a quando non rimanessero loro per difendersi che le mani nude.

A un certo punto la Francia era pronta a prendere in considerazione la revisione delle condizioni del trattato con il vicino tedesco e a consentirgli di possedere un’ascia o addirittura uno schioppo: ma solo se i suoi amici si impegnavano a soccorrerla nel caso che la Germania rivolgesse quelle armi contro di essa.

Insomma, a meno che gli altri stati europei si assumessero il compito della sicurezza collettiva, la Francia sarebbe stata irremovibile sui diritti che il trattato le garantiva. Dopo tutto, diceva, essa aveva subito troppo spesso invasioni tedesche per rischiarne ancora, se questo rischio poteva essere scongiurato.

Le istanze di revisione e di sicurezza collettiva erano legate l’una all’altra. Fino a che mezza Europa continuava a reclamare la prima, e l’altra mezza la seconda, ognuna insistendo sulla priorità della propria pretesa, nessun progresso era possibile.

La Gran Bretagna avvertiva la necessità di una revisione almeno parziale, ma era restia ad accedere a un sistema di sicurezza collettiva. I francesi elaborarono una serie di piani per la sicurezza collettiva, l’aiuto reciproco, l’istituzione di una forza di polizia internazionale o addirittura di un esercito della Società delle Nazioni, ma non fecero in pratica alcuna concessione al nemico sconfitto senza esservi costretti, guastando dunque l’effetto psicologico con la loro mala grazia.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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