La questione italiana al congresso di Parigi

8 aprile 1856

Mario Mancini
7 min readMar 9, 2020

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Edouard Dubufe, “Le Congrès de Paris”, 1857, Museo di storia della Francia, Parigi. Questo dipinto raffigura l’insieme dei delegati dei differenti paesi coinvolti nelle trattative di pace dopo la guerra di Crimea. Con il pallino rosso, a sinistra, Cavour e, a destra, Napoleone III. I due statisti saranno i protagonisti dei successivi eventi che porteranno alla costituzione del Regno d’Italia.

Dalla primavera del 1855 alla fine dell’anno la situazione europea si andò, sia pure lentamente, evolvendo in senso favorevole al ristabilimento della pace, che era stata rotta più di un anno prima dalla guerra di Crimea tra la Russia da un lato e la Turchia, la Francia, la Gran Bretagna e il regno sardo dall’altro.

La morte dello zar Nicola (2 marzo), che era stato il principale fautore del conflitto, l’incessante azione diplomatica svolta dall’Austria, il ristagno delle operazioni militari dinanzi a Sebastopoli, le diffuse tendenze pacifiste esistenti in Francia e in Gran Bretagna erano altrettanti elementi chiaramente indicanti come prossima la fine del conflitto. Il 16 gennaio 1856, infatti, la Russia accettava la mediazione austriaca e un mese dopo si concludeva l’armistizio.

Il congresso della pace si inaugurò a Parigi il 25 febbraio sotto la presidenza di Alessandro Walewsky, figlio naturale di Napoleone I e della contessa Walewska. Il Piemonte ottenne di essere invitato, ma non alla pari con le grandi potenze e, dopo un rifiuto di d’Azeglio, fu rappresentato da Cavour e da Villamarina.

Le due potenze occidentali avevano certamente intenzione di venire incontro ai desideri del Piemonte (di porre sul tappeto cioè la questione italiana), ma mentre la Francia non sarebbe stata aliena dal permettere l’annessione dei Ducati al regno sardo per limitare l’influenza austriaca nella penisola, la Gran Bretagna era assai meno ostile all’Austria che le serviva come punto d’appoggio per la sua politica antirussa.

In compenso, però, non risparmiava i suoi strali contro lo Stato pontificio e contro il regno delle Due Sicilie, con il quale non era in relazioni diplomatiche. Bisogna, però, premettere che prima preoccupazione di Napoleone III era che si giungesse alla firma del trattato di pace, senza sollevare questioni che potessero procrastinarne la conclusione, o addirittura metterla in pericolo.

Fu per questo motivo che l’imperatore acconsentì il 19 marzo che il problema italiano fosse portato al congresso, ma pose come condizione che la discussione avvenisse dopo la firma del trattato. Questa venne apposta il 30 marzo e l’8 aprile il congresso affrontò i due argomenti delle riforme da attuare nello Stato pontificio e del malgoverno napoletano.

L’intervento di Walewsky, dedicato alla situazione greca e alla stampa belga, oltre che ai due Stati della penisola, fu misurato; quello del ministro inglese, lord Clarendon, assai più violento, specie nei confronti dello Stato pontificio al quale si rimproverò l’amministrazione corrotta, la miseria dilagante, il malcostume generale.

La protesta dei rappresentanti austriaci circa l’incompetenza del congresso a entrare negli affari interni di Stati che non vi erano rappresentati sembrò acuire il dissenso tra l’Austria e le potenze occidentali. Quando ebbe la parola, Cavour svolse con decisione la sua tesi: proprio per impedire il ripetersi della tragica esperienza del ’48 occorreva che le truppe austriache evacuassero lo Stato pontificio e il ducato di Parma e cessassero di minacciare il Piemonte.

Terminata la discussione, il presidente del consiglio del regno sardo chiese che fossero inseriti nel protocollo i giudizi francesi e inglesi sui due Stati italiani, unitamente alla sua protesta formale per le condizioni della penisola. Ma il rapporto ufficiale di quella riunione (che qui di seguito si riproduce), a compilare il quale fu necessaria «quasi una settimana di dispute», riuscì (come ha scritto il Thayer, uno dei più attenti biografi di Cavour) «senza colore e snervato».

Il passo che segue è tratto da E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica. Raccolta ordinata di documenti diplomatici, politici, memorialistici, di trattati e convenzioni dal 1815 al 1940, pp. 82-85.

Sul congresso di Parigi cfr. A. Omodeo, L’opera politica del conte di Cavour, Firenze, La Nuova Italia, 1940, voll. 2; F. Valsecchi, L’alleanza di Crimea, Milano, Mondadori, 1948.

Seduta dell’8 aprile 1856. Dichiarazione del conte Walewski

Il primo plenipotenziario della Francia fa presente quanto è desiderabile, per l’equilibrio europeo, che il Governo Romano si consolidi abbastanza fortemente perché le truppe Francesi e Austriache possano evacuare, senza inconvenienti, gli Stati Pontifici, e crede che un voto espresso in questo senso non potrebbe riuscire senza utilità. Non dubita, in ogni caso, che le assicurazioni, che verrebbero date dalla Francia e dall’Austria, sulle loro vere intenzioni a questo riguardo, non esercitino una felice influenza.

Seguitando nello stesso ordine di idee, il conte Walewski si chiede se non sia augurabile che taluni Governi della Penisola italica, con atti di clemenza bene intesi e col richiamare ad essi gli animi smarriti e non pervertiti, mettano fine ad un sistema che va direttamente contro il suo scopo, e che, invece di colpire i nemici dell’ordine pubblico, ha per effetto di indebolire i Governi e di fornire dei partigiani alla demagogia.

Nella sua opinione, sarebbe rendere un servizio segnalato al Governo delle due Sicilie, come alla causa dell’ordine nella Penisola italiana, l’illuminare questo Governo sulla falsa strada che esso ha preso. Crede che degli avvertimenti concepiti in questo senso e provenienti dalle Potenze rappresentate al Congresso, sarebbero tanto meglio accolti dal Governo Napoletano per non poter quest’ultimo metter in dubbio i motivi che li avrebbero ispirati.

Dichiarazione di Lord Clarendon

Il primo plenipotenziario della Gran Bretagna non crede utile l’occuparsi delle cause che hanno condotto le armate straniere in molti punti d’Italia; ma crede che pur ammettendo che queste cause siano state legittime, non per questo è meno vero che ne risulta uno stato anormale, irregolare, che non può esser giustificato che da un’estrema necessità e che, appena questa necessità non si fa più imperiosamente sentire, deve cessare; che se, d’altra parte, non si dà opera a far cessare questa necessità, essa continuerà ad esistere; se ci contentiamo di appoggiarci sulla forza armata, in luogo di cercare di rimediare alle cause giuste di malcontento, è certo che si renderà permanente un sistema non onorevole pei Governi, e doloroso pei popoli.

Crede che l’amministrazione degli Stati Romani presenti tali inconvenienti da cui possono nascere pericoli, che il Congresso ha il diritto di procurarne l’allontanamento, e che, trascurandoli, sarebbe lo stesso che lavorare a profitto della rivoluzione, che tutti i Governi condannano e vogliono prevenire.

Il problema, la cui soluzione è urgente, consiste, a parer suo, nel combinare il ritiro delle truppe estere col mantenimento della tranquillità, e questa soluzione si basa sull’organizzazione di una amministrazione che, facendo rinascere la confidenza, renda il Governo indipendente dall’appoggio straniero; poiché questo appoggio non riuscendo mai a mantenere un Governo in urto col sentimento pubblico, ne risulterebbe, secondo la sua opinione, una parte che la Francia e l’Austria non vorrebbero accettare per le loro truppe.

Per il bene degli Stati Pontifici e nell’interesse della sovrana autorità del Papa, sarebbe dunque utile, a parer suo, il raccomandare la secolarizzazione del Governo e l’organizzazione di un sistema amministrativo in armonia con lo spirito del secolo e collo scopo della felicità del popolo. Ammette che forse questa riforma presenterebbe nella stessa Roma, in questo momento, alcune difficoltà; ma crede che facilmente si potrebbe attuare nelle Legazioni.

Il primo plenipotenziario della Gran Bretagna fa osservare che Bologna da otto anni a questa parte è in istato d’assedio, e le campagne infestate dal brigantaggio. Egli ritiene che, costituendo in questa parte degli Stati Romani un regime amministrativo e giudiziario laico e separato, e organizzandovi una forza armata nazionale, si possa sperare di ristabilire rapidamente la sicurezza e la confidenza, e che le truppe austriache potrebbero ritirarsi senza temere il ritorno di nuove agitazioni.

A suo credere si dovrebbe almeno tentare questo esperimento; e bisognerebbe che il Congresso sottomettesse questo rimedio alla seria considerazione del Papa.

Per ciò che concerne il Governo Napoletano, il primo plenipotenziario della Gran Bretagna desidera imitare l’esempio datogli dal signor conte Walewski, passando sotto silenzio quegli anni che hanno avuto un’eco così dolorosa. Anch’egli è d’avviso che si debba riconoscere per principio che nessun Governo ha il diritto d’intervenire negli affari interni degli altri Stati; ma crede vi siano casi in cui un’eccezione a questa regola diviene un diritto e un dovere; e il Governo di Napoli gli sembra aver conferito questo diritto e imposto questo dovere all’Europa, e siccome i Governi rappresentati al Congresso, tutti allo stesso grado, vogliono sostenere il principio monarchico e respingere la rivoluzione, si deve alzar la voce contro un sistema che mantiene nelle masse l’effervescenza rivoluzionaria, in luogo di cercare di pacificarla.

Noi non vogliamo, disse, che la pace sia compromessa, e non vi è pace senza giustizia; dobbiamo dunque far pervenire al re di Napoli il voto emesso dal Congresso pel miglioramento del suo sistema di governo, voto che non potrebbe rimanere sterile, e chiedergli di accordare un’amnistia alle persone che sono state condannate, o che sono detenute senza giudizio per delitti politici.

Dichiarazione di Cavour

Il primo plenipotenziario della Sardegna espone che l’occupazione degli Stati Romani, per parte delle truppe austriache, acquista ogni giorno più un carattere permanente che dura da sette anni, e non si vede con tutto ciò nessun indizio che possa far supporre la sua cessazione in un avvenire più o meno prossimo; giacché le cause che l’occasionarono sussistono tutt’ora, e lo stato del paese che occupano non è certo migliorato, e per convincersene basta osservare che l’Austria si crede necessitata di mantenere in tutto il suo rigore lo stato d’assedio in Bologna, abbenché dati dall’occupazione stessa.

Fa osservare che la presenza delle truppe austriache nelle Legazioni e nel Ducato di Parma distrugge l’equilibrio politico in Italia e costituisce per la Sardegna un vero pericolo. I plenipotenziari della Sardegna, dice, credono loro dovere segnalare all’attenzione dell’Europa uno stato di cose così anormale come quello che risulta dall’occupazione indefinita di una buona parte d’Italia per parte delle truppe austriache.

Dichiarazione del Plenipotenziario austriaco, conte Buoi

… Gli sarebbe impossibile intrattenersi… sulla situazione interna di Stati indipendenti che non si trovano rappresentati al Congresso. I Plenipotenziari non hanno ricevuto altra missione oltre quella di occuparsi degli affari del Levante, e non sono stati convocati per far conoscere a dei Sovrani indipendenti voti relativi all’organizzazione interna del paese: i pieni poteri depositati negli atti del Congresso ne fanno fede. Le istruzioni dei Plenipotenziari austriaci, in ogni caso, avendo definito l’oggetto della missione che è stata loro affidata, non sarebbe ad essi lecito di prender parte ad una discussione che le istruzioni non hanno prevista.

Per gli stessi motivi, il conte Buoi crede di doversi astenere dall’entrare nell’ordine di idee abbordato dal primo Plenipotenziario della Gran Bretagna, e di dare spiegazioni circa la durata dell’occupazione degli Stati Romani da parte delle truppe austriache, pur associandosi tuttavia pienamente alle parole pronunciate del primo Plenipotenziario della Francia su questo argomento.

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini
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Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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