La politica come professione

di Max Weber

Mario Mancini
93 min readSep 15, 2019

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [settembre 2019]

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La politica come professione è una conferenza che Max Weber ha tenuto a Monaco nel gennaio 1919, nell’ambito di un ciclo di conferenze sul «lavoro intellettuale come professione» organizzate dall’«associazione dei liberi studenti», e pubblicate nello stesso 1919.

La conferenza che per vostro desiderio dovrò tenere vi lascerà per molti aspetti inevitabilmente delusi. Da un discorso sulla politica come professione vi attenderete senz’altro che io prenda posizione sui problemi attuali. Ciò accadrà tuttavia soltanto nelle conclusioni, in modo puramente formale, in relazione a determinate questioni che riguardano il significato dell’agire politico nel quadro complessivo della condotta di vita. Dovranno invece essere rigorosamente evitate nella conferenza odierna tutte le questioni che si riferiscono al problema di quale politica si debba perseguire, vale a dire di quali contenuti si debbano dare al proprio agire politico. Ciò non ha nulla infatti a che fare con la questione generale di che cosa sia e di che cosa possa significare la politica come professione. Veniamo dunque al nostro tema.

Che cosa intendiamo per politica? Il concetto è estremamente ampio e comprende ogni genere di attività direttiva autonoma. Si parla della politica valutaria delle banche, della politica di sconto della Reichsbank, della politica di un sindacato in uno sciopero, si può parlare della politica scolastica di un comune cittadino o rurale, della politica della presidenza di un’associazione per ciò che riguarda la sua direzione, e infine della politica di una donna intelligente che si sforza di guidare il proprio marito. Naturalmente non ci occuperemo di un concetto così ampio nelle nostre riflessioni di questa sera. Con il termine «politica» intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire — oggi — di uno stato.

Ma che cos’è, dal punto di vista sociologico, un gruppo «politico»? Che cos’è uno «stato»? In termini sociologici non è possibile definire lo stato in base al contenuto del suo agire. Non vi è pressoché nessun compito che un gruppo politico non abbia una volta o l’altra intrapreso. Né si può dire che ve ne siano alcuni che esso abbia sempre intrapreso o, meglio, che appartengano da sempre e in modo esclusivo a quei gruppi che si definiscono come politici — e oggi come stati — o a quelli che hanno storicamente preceduto lo stato moderno. In ultima analisi si può piuttosto definire sociologicamente lo stato moderno soltanto in base a uno specifico mezzo che appartiene a esso così come a ogni altro gruppo politico: l’uso della forza fisica. «Ogni stato è fondato sulla forza», disse a suo tempo Trockij a Brest-Litowsk1. E in effetti è proprio così. Se vi fossero soltanto formazioni sociali in cui l’uso della forza come mezzo fosse ignoto, allora il concetto di «stato» sarebbe scomparso e a esso sarebbe subentrato ciò che, in questo senso specifico della parola, si potrebbe definire come «anarchia». Naturalmente l’uso della forza non costituisce il mezzo normale e nemmeno l’unico di cui disponga lo stato — su questo non vi sono dubbi. Esso rappresenta piuttosto il suo mezzo specifico. Soprattutto ai giorni nostri la relazione tra lo stato e l’uso della forza è particolarmente stretta. Nel passato i più diversi gruppi sociali — a cominciare dal gruppo parentale — hanno conosciuto l’uso della forza fisica come un mezzo del tutto normale. Oggi, al contrario, dovremmo dire che lo stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio — un elemento, questo del territorio, che è tra le sue componenti caratteristiche –, pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. Questo, infatti, è il dato specifico dell’epoca presente: che a tutti gli altri gruppi sociali o alle singole persone si attribuisce il diritto all’uso della forza fisica soltanto nella misura in cui sia lo stato stesso a concederlo per parte sua: esso rappresenta la fonte esclusiva del «diritto» all’uso della forza. Dunque «politica» per noi significherà aspirazione a partecipare al potere o a esercitare una qualche influenza sulla distribuzione del potere, sia tra gli stati sia, all’interno di uno stato, tra i gruppi di uomini che esso comprende entro i suoi confini.

Ciò corrisponde nella sostanza anche all’uso linguistico. Quando di una questione si dice che è «politica», che un ministro o un funzionario sono «politici», che una decisione è condizionata «politicamente», s’intende sempre dire che gli interessi relativi alla distribuzione del potere, al mantenimento del potere o al trasferimento del potere sono decisivi per la risposta a quella questione, condizionano questa decisione o determinano la sfera di azione di quel tale funzionario. Chi fa politica aspira al potere, o come mezzo al servizio di altri fini — ideali o egoistici –, o «per il potere in se stesso», per godere del senso di prestigio che esso procura.

Al pari dei gruppi politici che lo hanno storicamente preceduto, lo stato consiste in una relazione di potere di alcuni uomini su altri uomini fondata sul mezzo dell’uso legittimo (vale a dire: considerato come legittimo) della forza. Affinché esso sussista, i dominati devono dunque sottomettersi all’autorità cui pretendono coloro che di volta in volta detengono il potere. Quando e perché essi fanno ciò? Su quali fondamenti di giustificazione interna e su quali mezzi esteriori poggia questo potere?

In via di principio vi sono, per cominciare da qui, tre giustificazioni interne, vale a dire tre fondamenti di legittimità di un potere. In primo luogo, l’autorità dell’«eterno ieri», vale dire del costume consacrato da una validità risalente a tempi immemorabili e da una disposizione consuetudinaria alla sua osservanza: è il caso del potere «tradizionale», così come lo esercitano il patriarca e il principe patrimoniale di stampo antico. In secondo luogo, l’autorità del dono di grazia straordinario e personale (carisma), la dedizione assolutamente personale e la fiducia personale nelle rivelazioni, nell’eroismo o in altre qualità di capo di un singolo individuo: è il caso del potere «carismatico», così come lo esercitano il profeta oppure — sul terreno della politica — il condottiero eletto in guerra o il detentore di un potere plebiscitario, il grande demagogo e il capo di un partito politico. Infine, il potere in forza della «legalità», in forza della fede nella validità di una norma legale e della «competenza» oggettiva fondata su regole razionalmente statuite, vale a dire in forza della disposizione all’obbedienza nell’adempimento di doveri conformi a una regola: un potere così come lo esercitano il moderno «servitore dello stato» e tutti quei detentori di potere che sotto questo aspetto gli somigliano. Come vedremo tra breve, è del tutto evidente che nella realtà sono motivi assai concreti di timore e di speranza — timore della vendetta di potenze magiche o del detentore del potere, speranza in una ricompensa in questo o nell’altro mondo — e inoltre interessi della più diversa natura a condizionare questa obbedienza. Quando tuttavia ci si interroga sui fondamenti di «legittimità» di una tale obbedienza, allora ci si imbatte sempre in quei tre tipi «puri». E queste rappresentazioni della legittimità, con il loro fondamento interno, sono di estrema importanza per la struttura del potere. Naturalmente, i tipi puri si trovano di rado nella realtà. Non è tuttavia possibile soffermarsi adesso sull’intreccio estremamente complesso di variazioni, trapassi e combinazioni di questi tipi puri: ciò appartiene al problema della «dottrina generale dello stato». In questa sede ci interessa soprattutto il secondo di quei tipi: il potere in forza della dedizione dei seguaci al «carisma» puramente personale del «capo». È qui, infatti, che affonda le sue radici il concetto della professione nella sua forma più elevata. La dedizione al carisma del profeta o del condottiero in guerra o del grande demagogo nella ecclesia o nel parlamento significa che egli è ritenuto personalmente da altri uomini un capo per intima «vocazione» e che questi gli obbediscono non in virtù del costume o di una norma, bensì perché credono in lui. Egli stesso, a sua volta, vive per la sua causa, «mira alla sua opera»2, se è qualcosa di più di un meschino e vanitoso arrivista del momento. Ma è alla sua persona e alle sue qualità che si rivolge la dedizione di coloro che lo sostengono: i suoi discepoli, il suo seguito, i suoi seguaci personali all’interno del partito. In entrambe le due più importanti fattispecie del passato — quella del mago e del profeta da un lato, e quella del capo eletto in guerra, del capobanda e del condottiero dall’altro — la figura del capo si è manifestata in tutti i paesi e in tutte le epoche storiche. È invece peculiare dell’Occidente ciò che in questa sede ci riguarda più da vicino: il capo politico, dapprima nella forma del libero «demagogo» quale è sorto sul terreno della città-stato propria soltanto dell’Occidente e in special modo della civiltà mediterranea, quindi nella forma del «capopartito» parlamentare quale è sorto sul terreno dello stato costituzionale, anch’esso sviluppatosi soltanto in Occidente.

Questi politici di «professione», nel significato più proprio della parola, non costituiscono mai, naturalmente, le uniche figure decisive nella dinamica della lotta politica per il potere. È piuttosto determinante in sommo grado il tipo di mezzi di cui essi possono disporre. In quale modo le forze politicamente dominanti cominciano a consolidare il proprio potere? L’interrogativo si pone per ogni tipo di potere, e dunque anche per il potere politico in tutte le sue forme: per il potere tradizionale così come per quello legale e quello carismatico.

L’esercizio di qualsiasi potere che richieda un’amministrazione di tipo continuativo ha bisogno per un verso di poter contare sull’agire di uno specifico gruppo di persone disposte a obbedire a coloro che pretendono di essere investiti del potere legittimo, e per un altro verso di poter disporre, per mezzo di tale obbedienza, di quei beni oggettivi che sono all’occorrenza necessari per porre in essere l’esercizio della forza fisica: l’apparato amministrativo personale e i mezzi oggettivi dell’amministrazione.

L’apparato amministrativo, che rappresenta l’elemento esteriore dell’organizzazione del potere politico così come di ogni altra organizzazione, non è naturalmente vincolato all’obbedienza nei confronti del detentore del potere soltanto da quell’idea di legittimità di cui abbiamo prima parlato. Di regola intervengono ancora due mezzi che fanno appello all’interesse personale: la ricompensa materiale e l’onore sociale. Il feudo dei vassalli, i benefici dei funzionari patrimoniali, lo stipendio del moderno servitore dello stato — e nello stesso tempo l’onore cavalleresco, i privilegi di ceto, l’onore dei funzionari — costituiscono la ricompensa, e la paura di perderli rappresenta il fondamento in ultima analisi decisivo per la solidarietà dell’apparato amministrativo con il detentore del potere. La stessa cosa vale anche per il potere del capo carismatico: onori di guerra e bottino per chi combatte, spoils — vale a dire sfruttamento dei dominati attraverso il monopolio delle cariche pubbliche, profitti condizionati politicamente e premi alla vanità personale — per il seguito del demagogo.

Per il mantenimento di qualsiasi potere fondato sull’uso della forza sono indispensabili determinati beni materiali esteriori, esattamente come accade nel caso di un’impresa economica. Da questo punto di vista tutti gli ordinamenti statali possono essere suddivisi in due grandi categorie. E ciò a seconda che si fondino sul principio che quell’apparato di uomini — funzionari o altri che siano — sulla cui obbedienza il detentore del potere deve poter fare affidamento si trovi direttamente in possesso dei mezzi dell’amministrazione, siano questi denaro, edifici, strumenti di guerra, mezzi di trasporto, cavalli o quant’altro; oppure che l’apparato amministrativo sia «separato» dai mezzi dell’amministrazione, nello stesso senso in cui oggi l’impiegato e il proletario all’interno dell’impresa capitalistica sono «separati» dai mezzi materiali di produzione3. E dunque, a seconda che il detentore del potere impieghi l’amministrazione sotto la propria regia personale e la faccia gestire da servitori personali o da funzionari al suo servizio o da favoriti e fiduciari personali i quali non sono proprietari, vale a dire possessori a titolo personale, dei mezzi materiali d’impresa, ma vi sono preposti dal signore; oppure che accada il contrario. Questa differenza attraversa tutte le organizzazioni amministrative del passato.

Un gruppo politico nel quale i mezzi oggettivi dell’amministrazione si trovino in tutto o in parte in possesso dell’apparato amministrativo dipendente lo chiameremo un gruppo articolato «per ceti». In un gruppo di tipo feudale, per esempio, il vassallo sosteneva di tasca propria le spese dell’amministrazione e della giustizia nel territorio a lui assegnato in feudo, provvedeva autonomamente al proprio equipaggiamento e al proprio approvvigionamento per la guerra; e i vassalli a lui subordinati facevano lo stesso. Ciò aveva naturalmente conseguenze rilevanti sulla potenza effettiva del signore, la quale si fondava soltanto su un legame di fedeltà personale e sul fatto che il possesso feudale e l’onore sociale del vassallo traevano la propria «legittimità» dal signore stesso.

E tuttavia, risalendo indietro fino alle più remote formazioni politiche, noi troviamo dappertutto anche la regia personale del signore: attraverso uomini che dipendono direttamente dalla sua persona — schiavi, funzionari domestici, servitori, «favoriti» personali e beneficiari remunerati in natura o in denaro dalle sue casse private — egli cerca di mantenere l’amministrazione nelle proprie mani, di procurare i mezzi di tasca propria, dai proventi del suo patrimonio, di creare un esercito che dipenda rigorosamente dalla sua persona, perché equipaggiato e approvvigionato dai suoi granai, magazzini, arsenali. Mentre in un gruppo sociale articolato «per ceti» il signore domina con il sostegno di un’«aristocrazia» indipendente, con la quale condivide quindi il potere, in questo caso egli si appoggia su schiavi domestici o plebei, vale a dire su strati di nullatenenti privi di un proprio onore sociale, i quali sono interamente dipendenti da lui dal punto di vista materiale e non dispongono in alcun modo di un proprio potere che possa concorrere con quello del signore medesimo. Tutte le forme di potere patriarcale e patrimoniale, di dispotismo sultanistico e di ordinamento statale burocratico rientrano in questo tipo: in particolare, l’ordinamento statale burocratico che è caratteristico, nel suo sviluppo più razionale, anche e soprattutto dello stato moderno.

Lo sviluppo dello stato moderno ha ovunque inizio nel momento in cui il principe mette in moto il processo di espropriazione di quei «privati» che accanto a lui esercitano un potere amministrativo indipendente: di coloro cioè che possiedono in proprio i mezzi dell’amministrazione, della guerra, delle finanze e beni di ogni genere che siano utilizzabili in senso politico. L’intero processo rappresenta un perfetto parallelo con lo sviluppo dell’impresa capitalistica attraverso la progressiva espropriazione dei produttori indipendenti. Alla fine vediamo che nello stato moderno il controllo di tutti i mezzi dell’impresa politica viene di fatto a concentrarsi in un unico vertice e che nessun funzionario singolo è più proprietario personale del denaro che spende o degli edifici, delle scorte, degli strumenti e delle attrezzature militari di cui dispone. In tal modo si è oggi compiutamente realizzata nello «stato» — ciò che è essenziale per il suo stesso concetto — la «separazione» dell’apparato amministrativo, vale a dire dei funzionari e dei lavoratori dell’amministrazione, dai mezzi oggettivi dell’impresa. Prendono avvio proprio da qui gli sviluppi più recenti, vale a dire il tentativo, che si sta compiendo sotto i nostri occhi, di procedere all’espropriazione di questo espropriatore4 dei mezzi politici e, dunque, dello stesso potere politico. La rivoluzione ha compiuto questo passo per lo meno nella misura in cui al posto delle autorità costituite sono subentrati dei capi i quali, attraverso l’usurpazione o l’elezione, si sono attribuiti il potere di disporre del complesso dell’amministrazione e dei suoi beni materiali, facendo derivare la propria legittimità — non importa con quanto diritto — dalla volontà dei dominati. È una questione del tutto diversa se, sulla base di questo successo almeno apparente, si possa con qualche fondamento nutrire la speranza di realizzare l’espropriazione anche all’interno delle imprese economiche di tipo capitalistico, la cui direzione, nonostante le pur rilevanti analogie, si svolge secondo principî strutturalmente diversi da quelli che governano l’amministrazione politica. Su questo punto non prenderemo oggi alcuna posizione. Ai fini della nostra trattazione vorrei fissare soltanto la seguente definizione di carattere concettuale: lo stato moderno è un gruppo di potere di carattere istituzionale che, all’interno di un dato territorio, si è sforzato con successo di monopolizzare l’uso della forza fisica legittima come mezzo di potere e che, a tale scopo, ha concentrato nelle mani dei suoi capi i mezzi oggettivi dell’esercizio del potere, espropriando tutti i funzionari di ceto che in precedenza ne disponevano a titolo personale e sostituendosi a essi con la sua suprema autorità.

Nel corso di questo processo di espropriazione politica, che ha avuto luogo con vario successo in tutti i paesi del mondo, hanno fatto la loro comparsa, dapprima al servizio del principe, le prime categorie di «politici di professione» in un altro significato: vale a dire in quanto persone che non aspiravano direttamente al potere, come i capi carismatici, e che si ponevano invece al servizio di coloro che detenevano il potere politico. In questa lotta essi si mettevano a disposizione dei principi, traendo dalla conduzione dei loro affari politici per un verso un guadagno materiale e per un altro verso un contenuto ideale di vita. Ancora una volta, soltanto in Occidente troviamo questo genere di politici di professione, anche al servizio di potenze differenti da quelle dei principi. Nel passato essi furono il loro più importante strumento di potenza e di espropriazione politica.

Prima di occuparci più da vicino di queste figure, chiariamo in tutti i suoi aspetti e in modo univoco la situazione oggettiva che l’esistenza di tali «politici di professione» viene a configurare. Esattamente come accade nel campo del profitto economico, si può fare «politica» — e dunque aspirare a esercitare la propria influenza sulla distribuzione della potenza tra le diverse formazioni politiche e all’interno di ciascuna di esse — sia in modo «occasionale» sia in modo «professionale», e in questo secondo caso dedicandosi a essa come a una professione secondaria oppure principale. Tutti noi siamo politici «occasionali» quando andiamo a votare, oppure quando manifestiamo la nostra volontà applaudendo o protestando in una riunione «politica», quando teniamo un discorso «politico», e via dicendo: per molti uomini l’intero rapporto con la politica si limita ad azioni di questo genere. Fanno politica come professione secondaria, per esempio, tutti quegli uomini di fiducia e quei dirigenti di associazioni politiche di partito i quali esercitano questa attività — come accade assolutamente di regola — soltanto in caso di necessità, senza «organizzare la propria vita», sia dal punto di vista materiale che da quello ideale, in prima istanza su di essa. Lo stesso vale per quei membri di consigli di stato e di simili organi consultivi i quali entrano in funzione soltanto per specifiche esigenze. E così, ancora, per un numero abbastanza ampio dei nostri parlamentari, che fanno politica soltanto nei periodi della sessione. Nel passato troviamo gruppi di questo tipo soprattutto tra i ceti. Con l’espressione «ceti» noi intendiamo i possessori a titolo proprio di mezzi materiali di impresa militari o amministrativi, oppure i detentori di poteri personali di signoria. Una gran parte di essi era ben lungi dal porre la propria vita per intero, o anche solo prevalentemente o più che occasionalmente, al servizio della politica. Essi utilizzavano piuttosto il loro potere di signoria per riscuotere rendite o anche per conseguire profitti veri e propri, diventando politicamente attivi al servizio del gruppo politico soltanto quando il signore o i loro compagni di ceto ne facevano esplicita richiesta. La situazione non era diversa anche per una parte di quelle forze che il principe impiegava nella lotta finalizzata alla creazione di una sfera autonoma di attività politica, di cui egli solo doveva disporre. I «consigli privati» e, ancora più indietro nel tempo, una parte consistente dei consiglieri che si riunivano nella «curia» e negli altri corpi consultivi dei principi avevano questo carattere. Con l’aiuto di queste forze soltanto occasionali o semi-professionali, tuttavia, il principe non poteva naturalmente riuscire nella sua impresa. Egli doveva sforzarsi di creare un apparato di forze ausiliarie interamente ed esclusivamente dedite al suo servizio, vale a dire di carattere propriamente professionale. Non soltanto la struttura della sorgente formazione politico-dinastica, ma anche l’impronta complessiva della civiltà in questione dipendevano in misura assai significativa dalla provenienza sociale delle forze che egli riusciva a reclutare. Erano soggetti esattamente al medesimo imperativo quei gruppi politici i quali, con la totale eliminazione o con un’ampia limitazione del potere del principe, si costituivano politicamente in comunità (cosiddette) «libere» — «libere» non nel senso della libertà da un potere basato sull’uso della forza, bensì nel senso dell’assenza del potere del principe, legittimo in virtù della tradizione (e per lo più consacrato religiosamente), come fonte esclusiva di ogni autorità. Storicamente esse sono sorte soltanto in Occidente e il loro nucleo è stata la città in quanto gruppo politico, così come si è venuta affermando per la prima volta nell’ambito della civiltà mediterranea. Come apparivano, in tutti questi casi, i politici «di professione» in senso proprio?

Ci sono due modi per fare della politica la propria professione. Si vive «per» la politica oppure «di» politica. Le due alternative non si escludono affatto l’una con l’altra. Al contrario, accade di regola che si facciano — per lo meno idealmente, ma per lo più anche materialmente — entrambe le cose: chi vive «per» la politica costruisce in senso interiore «tutta la propria esistenza intorno a essa»: egli gode del puro possesso della potenza che esercita, oppure alimenta il proprio equilibrio interiore e il proprio sentimento di sé con la coscienza di dare un senso alla propria vita per il fatto di servire una «causa». In questo senso interiore ogni uomo serio che vive per una causa vive anche di questa causa. La differenza riguarda anche un aspetto assai più concreto della questione: quello economico. «Della» politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno; «per» la politica, invece, colui per il quale ciò non accade. Affinché qualcuno possa vivere «per» la politica in questo senso economico, devono darsi, nel quadro di un ordinamento fondato sulla proprietà privata, alcuni presupposti, se volete assai banali: egli dev’essere, in condizioni normali, economicamente indipendente rispetto ai proventi che la politica può procurargli. Ciò significa, assai semplicemente, che egli deve essere facoltoso o trovarsi in una condizione personale che gli procuri sufficienti entrate. Così stanno le cose per lo meno in condizioni normali. Certo, il seguito di un condottiero in guerra, così come quello di un eroe rivoluzionario della piazza, è assai poco interessato alle condizioni di una economia normale. Entrambi vivono di bottino, di rapina, di confische, di tributi, dell’imposizione di mezzi di pagamento forzosi privi di alcun valore: ciò che nella sostanza è sempre la stessa cosa. Ma questi sono necessariamente fenomeni straordinari: nell’economia ordinaria soltanto il patrimonio personale svolge questa funzione. Ciò, peraltro, non basta ancora: chi vive «per» la politica deve inoltre essere economicamente «disponibile», nel senso che le sue entrate non devono dipendere dal fatto che egli ponga continuativamente e personalmente la sua forza lavorativa e il suo pensiero, in modo totale o comunque in misura assai ampia, al servizio del proprio guadagno. In questo senso è disponibile nel modo più incondizionato chi vive di rendita, vale a dire colui che percepisce reddito senza lavorare nel modo più assoluto, sia che tragga un tale reddito, come i signori fondiari del passato, i grandi proprietari terrieri e la grande nobiltà del presente, da rendite fondiarie — nell’antichità e nel Medioevo anche da rendite derivanti da schiavi o servi — sia che lo tragga da titoli o da simili fonti moderne di rendita. Né l’operaio né — si badi bene — l’imprenditore, anche e in special modo il grande imprenditore moderno, sono disponibili in questo senso. Infatti, anche e in special modo l’imprenditore — l’imprenditore industriale assai più di quello agricolo, dato il carattere stagionale dell’attività agricola — è vincolato alla sua impresa e non è dunque disponibile. Per lui è spesso assai difficile farsi sostituire anche solo temporaneamente. È altrettanto poco disponibile, per esempio, il medico, e ciò in misura tanto maggiore quanto più egli è eminente e ricercato. È già migliore, per ragioni puramente tecniche e professionali, la situazione dell’avvocato, il quale ha perciò esercitato un ruolo di gran lunga più importante e spesso addirittura dominante anche come politico di professione. Non vogliamo procedere oltre con questa casistica. Fissiamo piuttosto alcune conseguenze.

La direzione di uno stato o di un partito a opera di persone le quali vivono (nel senso economico del termine) esclusivamente per la politica, e non della politica, implica necessariamente un reclutamento «plutocratico» dei gruppi politicamente dirigenti. Non si vuole in tal modo affermare anche il contrario, e cioè che una tale direzione plutocratica implichi al tempo stesso che lo strato politicamente dominante non cerchi anche di vivere «della» politica, e quindi non sia solito sfruttare il proprio potere politico anche per i suoi privati interessi economici. Ciò è naturalmente fuori discussione. Non vi è mai stato nessun gruppo che, in un modo o nell’altro, non l’abbia fatto. Quanto abbiamo poc’anzi affermato significa soltanto una cosa: che i politici di professione non sono immediatamente costretti a ricercare un compenso per la propria attività politica, come invece deve semplicemente pretenderlo chiunque sia privo di mezzi. E, d’altra parte, ciò non significa in alcun modo che i politici privi di un proprio patrimonio vedano nella politica esclusivamente, o anche solo prevalentemente, un mezzo per il proprio sostentamento economico privato, e non pensino del tutto o in primo luogo «alla causa». Nulla sarebbe più scorretto. Per l’uomo agiato la preoccupazione per la «sicurezza» economica della propria esistenza costituisce per esperienza — consapevolmente o no — un punto cardinale del suo intero orientamento di vita. L’idealismo politico più intransigente e incondizionato si trova invece, se non in modo esclusivo certo in modo prevalente, presso quegli strati che, essendo privi di patrimonio, sono del tutto al di fuori della cerchia di quanti sono interessati alla conservazione dell’ordinamento economico di una determinata società: questo vale principalmente in epoche straordinarie e quindi rivoluzionarie. Tutto ciò significa soltanto una cosa: che un reclutamento non plutocratico di coloro che sono interessati alla politica, del gruppo dirigente e del suo seguito, è legato all’ovvio presupposto che tali persone possano trarre dall’esercizio continuativo dell’attività politica redditi regolari e sicuri. La politica può essere esercitata o «a titolo onorifico» e quindi, come si usa dire, da persone «indipendenti», vale a dire agiate, in primo luogo da coloro che vivono di rendita. Oppure viene resa accessibile a persone prive di un patrimonio personale, nel qual caso il suo esercizio deve essere retribuito. Il politico di professione che vive «della» politica può essere un semplice «beneficiario» oppure un «funzionario» stipendiato. E dunque o percepisce dei redditi da tasse ed emolumenti per determinate prestazioni — mance e bustarelle costituiscono una variante irregolare e formalmente illegale di questo genere di proventi — oppure riceve un compenso fisso in natura o uno stipendio in denaro, o entrambe le cose. Egli può assumere il carattere di un «imprenditore», come il condottiero o l’appaltatore o il venditore di cariche pubbliche del passato, oppure come il boss americano, il quale considera le sue spese come un investimento di capitale da far fruttare avvalendosi della propria influenza. Oppure può ricevere uno stipendio fisso, come un redattore o un segretario di partito o un moderno ministro o un funzionario politico. Nel passato feudi, concessioni di terre, benefici di ogni genere e, con lo sviluppo dell’economia monetaria, soprattutto emolumenti costituivano la tipica ricompensa che principi, conquistatori vittoriosi o capipartito vincitori elargivano al proprio seguito; oggi sono cariche di ogni tipo in partiti, giornali, cooperative, casse di malattia, comuni, stati che vengono distribuite dai capipartito per i leali servizi loro prestati. Tutte le lotte tra i partiti non si svolgono soltanto per fini oggettivi, ma anche e soprattutto per il patronato delle cariche. In Germania tutti i contrasti tra le aspirazioni particolaristiche e centralistiche gravitano anche e soprattutto intorno al problema di quali poteri — di Berlino o di Monaco, di Karlsruhe, di Dresda — debbano controllare il patronato delle cariche. I ridimensionamenti nella partecipazione alla distribuzione delle cariche vengono vissuti dai partiti come uno scacco ben più grave di qualsiasi insuccesso rispetto ai loro fini oggettivi. In Francia un’infornata di prefetti a opera di un partito politico è sempre stata considerata come un sovvertimento maggiore e ha provocato più chiasso di un cambiamento del programma di governo, il quale ha un significato quasi meramente retorico. Alcuni partiti, così soprattutto in America, con il venir meno delle antiche controversie circa l’interpretazione della Costituzione, sono diventati puri partiti di cacciatori di posti, i quali modificano il loro programma oggettivo a seconda delle probabilità di catturare voti. In Spagna, fino a pochi anni or sono, i due grandi partiti si avvicendavano al potere nella forma di «elezioni» manipolate dall’alto, secondo un turno fissato per convenzione, al fine di sistemare il loro seguito nelle cariche. Nei territori coloniali spagnoli, sia nelle cosiddette «elezioni» sia nelle cosiddette «rivoluzioni» si tratta sempre della greppia dello stato, alla quale i vincitori desiderano foraggiarsi. In Svizzera i partiti si spartiscono in modo pacifico le cariche con il sistema proporzionale, e alcuni dei nostri «rivoluzionari» progetti di costituzione, come per esempio il primo proposto per il Baden, miravano a estendere questo sistema alle poltrone ministeriali, trattando così lo stato e le sue cariche come una mera istituzione di distribuzione di prebende. Soprattutto il partito del Centro si entusiasmò per questa proposta, e nel Baden giunse persino a fare della distribuzione proporzionale delle cariche secondo le confessioni — dunque senza alcun riguardo ai risultati — un elemento del proprio programma. Con il numero crescente di cariche prodotto dalla burocratizzazione universale e con la domanda crescente di esse in quanto forma di sostentamento particolarmente sicura, questa tendenza va crescendo presso tutti i partiti, i quali per i loro seguaci diventano sempre più un mezzo rispetto allo scopo di essere in tal modo sistemati.

A questi sviluppi si contrappone oggi la trasformazione della moderna burocrazia in un corpo di lavoratori intellettuali altamente qualificati, dotati di una preparazione specialistica maturata nel corso di lunghi anni di studio e provvisti di un onore di ceto particolarmente sviluppato nell’interesse della propria integrità. Senza di esso saremmo fatalmente esposti al pericolo di una terribile corruzione e di un filisteismo generalizzato e ne risulterebbe minacciato anche il funzionamento puramente tecnico dell’apparato statale, la cui importanza per l’economia — in particolare con l’intensificarsi dei processi di socializzazione — è costantemente aumentata e aumenterà ancora. L’amministrazione dilettantesca a opera di politici rapaci, che negli Stati Uniti portava, dopo ogni elezione presidenziale, al ricambio di centinaia di migliaia di funzionari, fino al portalettere, e che non conosceva la figura del funzionario di professione a vita, è stata ormai da tempo messa in crisi dalla Civil Service Reform. Sono esigenze

puramente tecniche e imprescindibili dell’amministrazione a determinare questa trasformazione. In Europa la burocrazia specializzata in base alla divisione del lavoro è sorta poco alla volta nel corso di uno sviluppo durato mezzo millennio. Esso fu avviato dalle città e dalle signorie italiane; e tra le monarchie, dagli stati conquistati dai Normanni. Il passo decisivo fu compiuto nel campo delle finanze dei principi. Dalle riforme amministrative dell’imperatore Massimiliano 5 si può vedere quanto riuscisse difficile ai funzionari, anche sotto la pressione della necessità estrema e della potenza dei Turchi, spodestare il principe in questo campo, che tollera assai poco il dilettantismo di un sovrano il quale era allora soprattutto un cavaliere. Lo sviluppo della tecnica bellica presupponeva l’ufficiale specializzato, l’affinamento della procedura giudiziaria il giurista dotato di una specifica istruzione. In questi tre campi la burocrazia specializzata riportò una vittoria definitiva, negli Stati più progrediti, nel corso del secolo XVI. In tal modo, contemporaneamente all’affermazione dell’assolutismo del principe di fronte ai ceti, ebbe inizio la progressiva abdicazione del suo potere personale in favore dei funzionari specializzati, grazie ai quali soltanto egli aveva potuto riportare quella vittoria sui ceti.

Contemporaneamente all’ascesa della burocrazia dotata di una preparazione specialistica emersero anche — sebbene attraverso passaggi assai più impercettibili — le figure dei «dirigenti politici». Sono ovviamente esistiti da sempre e in tutto il mondo tali consiglieri di fatto influenti del principe. In Oriente la necessità di sciogliere il più possibile il sultano dalla responsabilità personale per il successo dell’operato del governo ha prodotto la tipica figura del «gran visir». In Occidente la diplomazia, soprattutto per l’influenza esercitata dai rapporti delle legazioni veneziane, che venivano lette avidamente negli ambienti diplomatici specializzati, all’epoca di Carlo V — l’età di Machiavelli — divenne per la prima volta un’arte coltivata in modo consapevole, i cui adepti, dotati per lo più di una formazione umanistica, si trattavano tra loro come un gruppo di dotti iniziati, in modo simile a quanto avveniva per gli uomini di stato umanisti cinesi dell’ultimo periodo degli stati particolari. La necessità di una direzione formalmente unitaria dell’intera attività politica, compresa la politica interna, a opera di un uomo di stato posto ai vertici del potere, si affermò definitivamente e in modo cogente soltanto con lo sviluppo costituzionale. Fino ad allora queste personalità erano ovviamente sempre esistite in qualità di consiglieri o piuttosto — in sostanza — di guide dei principi. L’organizzazione dei pubblici poteri si era tuttavia dapprima sviluppata, anche negli stati più progrediti, secondo altre modalità. Erano sorte supreme autorità amministrative di tipo collegiale. In teoria, ma sempre più raramente in pratica, esse tenevano le proprie riunioni sotto la presidenza personale del principe, il quale prendeva la decisione. Attraverso questo sistema collegiale, che portava a esprimere pareri, contropareri e voti motivati della maggioranza e della minoranza, e inoltre attraverso il fatto di circondarsi, accanto alle supreme autorità ufficiali, di uomini di fiducia puramente personali — il «gabinetto» — e di prendere attraverso questi le proprie decisioni in merito alle deliberazioni del consiglio di stato — o come altrimenti si chiamava la suprema autorità dello stato — il principe, che si trovava sempre più nella posizione di un dilettante, tentava di sottrarsi al peso inevitabilmente crescente della preparazione specialistica dei funzionari e di mantenere nelle proprie mani la direzione suprema dello stato: questa lotta latente tra il funzionario specializzato e il potere personale del principe si è svolta ovunque. La situazione mutò soltanto di fronte ai parlamenti e alla brama di potere dei loro capipartito. E tuttavia condizioni affatto diverse portarono al medesimo risultato esteriore. Certo, con alcune differenze. Dove le dinastie continuavano a mantenere nelle proprie mani il potere reale — così soprattutto in Germania — gli interessi del principe erano legati in modo solidale a quelli della burocrazia contro il parlamento e le sue pretese di potere. I funzionari avevano interesse a che anche i posti direttivi, e dunque anche le poltrone ministeriali, venissero occupati da persone provenienti dalle loro file, come oggetti del loro avanzamento di carriera. Per parte sua, il monarca aveva interesse a poter nominare i ministri a sua discrezione, dalle file dei funzionari a lui fedeli. Entrambe le parti erano altresì interessate a far sì che la direzione politica si presentasse unita e compatta di fronte al parlamento e dunque che il sistema collegiale venisse sostituito da un unico capo digabinetto. Oltre a ciò, il monarca aveva bisogno, già soltanto per rimanere estraneo in modo puramente formale alla lotta e agli attacchi dei partiti, di una personalità individuale responsabile che gli fornisse una copertura, e cioè che desse conto e si opponesse al parlamento, e che trattasse con i partiti. Qui da noi tutti questi interessi agirono insieme nella medesima direzione, facendo sorgere la figura di un ministro tratto dai ranghi della burocrazia e dotato di un potere di direzione unitario. Lo sviluppo della potenza del parlamento agì con forza ancora maggiore nella direzione dell’unificazione là dove essa — come accadde in Inghilterra — ebbe il sopravvento di fronte al monarca. Qui il «gabinetto» guidato da un unico capo parlamentare, il leader, si sviluppò in quanto espressione della potenza del partito che di volta in volta si trovava in possesso della maggioranza: una potenza ignorata dalle leggi ufficiali, ma di fatto l’unica politicamente decisiva. I corpi collegiali ufficiali non erano in quanto tali organi della potenza realmente dominante — il partito — e dunque non potevano essere depositari del governo effettivo. Un partito dominante aveva piuttosto bisogno, per affermare il proprio potere all’interno e per poter promuovere all’esterno una politica in grande stile, di un organo efficace, composto esclusivamente dai suoi uomini realmente dirigenti e che agisse in modo confidenziale — il gabinetto, per l’appunto. Esso aveva inoltre bisogno di un capo responsabile di tutte le decisioni di fronte all’opinione pubblica e soprattutto di fronte a quella parlamentare: vale a dire del capo del gabinetto. Questo sistema inglese è stato poi adottato nel continente nella forma dei ministeri parlamentari. Soltanto in America e nelle democrazie da essa influenzate gli è stato contrapposto un sistema del tutto diverso, il quale attraverso un’elezione popolare diretta poneva il capo eletto del partito vittorioso alla testa dell’apparato di funzionari da lui nominato, vincolandolo all’approvazione del parlamento solo in materia di bilancio e di legislazione.

La trasformazione della politica in una «impresa» che richiedeva un addestramento alla lotta per il potere e ai suoi metodi, quali erano stati sviluppati dai partiti moderni, determinò a sua volta la separazione dei funzionari pubblici in due categorie, certo non nettamente distinte, ma comunque chiaramente identificabili: i funzionari specializzati da un lato, i «funzionari politici» dall’altro. I funzionari «politici» nel senso proprio del termine sono di regola esteriormente riconoscibili per il fatto che possono essere in ogni momento trasferiti e licenziati a piacere oppure anche «messi a disposizione», come i prefetti francesi e i funzionari di altri paesi a essi affini, nel più netto contrasto con l’«indipendenza» dei funzionari che svolgono mansioni giudiziarie. In Inghilterra appartengono a questo tipo quei funzionari che, per una convenzione fermamente stabilita, si dimettono dalle proprie cariche con il mutare della maggioranza parlamentare e quindi del gabinetto. In particolare si è soliti annoverare tra essi quei funzionari la cui competenza abbraccia il governo di tutta l’«amministrazione interna»; e in questo caso l’elemento «politico» consiste soprattutto nel compito di mantenere l’«ordine» nel paese, vale a dire i rapporti di potere esistenti. In Prussia questi funzionari, secondo il decreto Puttkamer 6, avevano il dovere, sotto pena di sanzioni disciplinari, di «rappresentare la politica del governo», e venivano utilizzati — come i prefetti in Francia — in quanto apparato ufficiale per influire sulle elezioni. Secondo il sistema tedesco — e a differenza di altri paesi — la maggior parte dei funzionari «politici» possedeva le medesime caratteristiche di tutti gli altri funzionari, in quanto anche il conseguimento di queste cariche era subordinato agli studi universitari, a esami specialistici e a un determinato periodo di apprendistato. Questo tratto specifico della moderna burocrazia specializzata manca presso di noi soltanto ai capi dell’apparato politico: i ministri. Già sotto il vecchio regime si poteva essere ministro del culto in Prussia senza aver nemmeno frequentato un istituto di istruzione superiore, mentre si poteva in linea di principio diventare consigliere relatore soltanto sulla base degli esami prescritti. Il capo sezione e il consigliere relatore formati in senso specialistico erano ovviamente — per esempio sotto Althoff nel ministero dell’Istruzione in Prussia 7 — infinitamente più informati del loro capo sulle questioni più specificamente tecniche della materia. Le cose non stavano diversamente in Inghilterra. Di conseguenza, il funzionario era dotato dei poteri più significativi, anche in relazione a tutti i bisogni della vita quotidiana. E ciò non costituiva affatto un controsenso. Il ministro era per l’appunto il rappresentante della costellazione del potere politico, doveva rappresentare questi criteri politici e informare a essi le proposte dei funzionari specializzati a lui sottoposti oppure dar loro le corrispondenti direttive di carattere politico.

Le cose funzionano in modo del tutto simile in un’impresa economica privata: il «sovrano» in senso proprio — vale a dire l’assemblea degli azionisti — rispetto alla conduzione dell’impresa è altrettanto privo di influenza quanto un «popolo» governato da funzionari specializzati. E le personalità decisive per la politica dell’impresa, il «consiglio di amministrazione» dominato dalle banche, dànno soltanto le direttive economiche e selezionano le personalità preposte all’amministrazione, senza tuttavia essere esse stesse in grado di dirigere tecnicamente l’impresa. Da questo punto di vista non rappresenta una novità sostanziale nemmeno l’odierna struttura dello stato creato dalla rivoluzione, il quale pone il potere sull’amministrazione nelle mani di dilettanti assoluti in virtù del fatto che essi hanno a disposizione le mitragliatrici, e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica soltanto come teste e mani atte a compiti esecutivi. Le difficoltà di questo attuale sistema risiedono altrove, ma non dobbiamo occuparcene oggi.

Dobbiamo piuttosto interrogarci sui caratteri tipici dei politici di professione, tanto del «capo» quanto del suo seguito. Essi sono andati mutando nel corso del tempo, e anche oggi sono assai differenti.

Come abbiamo visto, in passato i «politici di professione» sono emersi nel corso della lotta dei principi contro i ceti, ponendosi al servizio dei primi. Passiamone brevemente in rassegna i tipi principali.

Nella sua lotta contro i ceti il principe si appoggiava a strati sociali estranei ai ceti medesimi che potessero essere utilizzati nell’attività politica. In essi rientravano — in India e in Indocina, nella Cina buddhista, nel Giappone e nella Mongolia lamaista così come nei paesi cristiani durante il Medioevo — in primo luogo i chierici. Tecnicamente, perché essi erano capaci di scrivere. L’importazione di brahmani, di sacerdoti buddhisti, di lama e l’impiego di vescovi e di preti come consiglieri politici ebbe luogo ovunque, al fine di procurare forze amministrative capaci di scrivere da poter far valere nella lotta dell’imperatore, del principe o del khan contro l’aristocrazia. Il chierico, e in primo luogo il chierico celibe, era estraneo alla dinamica dei normali interessi politici ed economici e non cadeva nella tentazione di aspirare per sé e per i suoi discendenti a un potere politico autonomo di fronte al signore, come invece avveniva nel caso del vassallo feudale. Per le sue stesse caratteristiche di ceto, egli si trovava a essere «separato» dai mezzi di impresa dell’amministrazione del principe.

Un secondo strato sociale in qualche modo affine era quello dei letterati di formazione umanistica. Vi è stato un tempo in cui si imparava a fare discorsi in latino e versi in greco allo scopo di diventare consiglieri politici e, sopra ogni cosa, storiografi di corte di un principe. Fu questa l’epoca del primo fiorire delle scuole umanistiche e delle fondazioni principesche di cattedre di «poetica»: un’epoca che da noi è trascorsa rapidamente e che ha influenzato stabilmente il nostro sistema scolastico, senza peraltro avere profonde conseguenze dal punto di vista politico. Andò diversamente in Asia orientale. Il mandarino cinese è — o piuttosto era in origine — una figura grosso modo analoga a quella dell’umanista del nostro Rinascimento: un letterato di cultura umanistica formatosi sui monumenti letterari del lontano passato, con una preparazione comprovata attraverso un esame. Se leggete i diari di Li Hung-Chang, scoprirete che egli è soprattutto orgoglioso di comporre poesie e di essere un bravo calligrafo. Questo strato di persone, nutrito di convenzioni sviluppatesi nella Cina antica, ha condizionato l’intero destino del proprio paese, e forse la nostra sorte sarebbe stata simile se gli umanisti avessero avuto a loro tempo la minima probabilità di imporsi con il medesimo successo.

Il terzo strato sociale era quello della nobiltà di corte. Dopo essere riusciti a espropriare la nobiltà del potere politico che essa deteneva in quanto ceto, i principi la attirarono a corte utilizzandola a fini politici e diplomatici. La trasformazione del nostro sistema educativo nel secolo XVII fu determinata dal fatto che i politici di professione provenienti dalla nobiltà di corte entrarono al servizio dei principi, sostituendo in tal modo i letterati umanistici.

La quarta categoria fu un prodotto specificamente inglese: un patriziato che comprendeva la piccola nobiltà e i cittadini titolari di rendite, tecnicamente chiamato gentry. In origine il principe impiegò tale strato sociale contro i baroni, concedendogli le cariche del selfgovernment. Più tardi, tuttavia, egli divenne sempre più dipendente da esso. La gentry mantenne il possesso di tutte le cariche dell’amministrazione locale, assumendole a titolo gratuito nell’interesse del proprio potere sociale. Essa ha preservato l’Inghilterra dalla burocratizzazione, che costituiva invece il destino di tutti gli stati continentali.

Un quinto strato sociale è stato tipico dell’Occidente, in particolare sul continente europeo, e ha rivestito un’importanza decisiva per la sua intera struttura politica: quello dei giuristi di formazione universitaria. L’immensa influenza del diritto romano, così come fu rielaborato dallo stato burocratico tardo-romano, si manifesta nel modo più significativo nel fatto che il rivoluzionamento dell’impresa politica nel senso dello sviluppo verso lo stato di carattere razionale è stato ovunque il prodotto di giuristi dotati di una specifica istruzione. È quanto accadde nella stessa Inghilterra, dove peraltro le grandi corporazioni nazionali di giuristi impedirono la recezione del diritto romano. In nessun’altra parte del mondo si trova qualcosa di analogo. Tutti i tentativi di un pensiero giuridico razionale nella scuola indiana mīmāṃsā e tutti gli sforzi volti alla conservazione dell’antico pensiero giuridico nell’Islam non hanno potuto impedire il soffocamento del pensiero giuridico razionale a opera di concezioni teologiche. Soprattutto la procedura non fu completamente razionalizzata. Ciò si è realizzato soltanto con l’accettazione dell’antica giurisprudenza romana — vale a dire del prodotto di una formazione politica di carattere assolutamente unico, divenuta da città-stato potenza mondiale — da parte dei giuristi italiani, con l’usus modernus dei pandettisti e dei canonisti tardo-medievali e con le teorie del diritto naturale sorte dal pensiero giuridico e cristiano e in seguito secolarizzate. Questo razionalismo giuridico ha avuto i suoi grandi rappresentanti nel podestà italiano, nei giuristi francesi al servizio della corona, i quali elaborarono i mezzi formali per scalzare il potere dei seigneurs a favore della potenza del re, nei canonisti e nei teologi giusnaturalisti del conciliarismo, nei giuristi di corte e nei giudici eruditi dei principi continentali, nei teorici olandesi del giusnaturalismo e nei monarcomachi, nei giuristi inglesi della corona e del parlamento, nella noblesse de robe dei parlamenti francesi e, infine, negli avvocati dell’epoca della Rivoluzione. Senza di esso il sorgere dello stato assoluto e la Rivoluzione sarebbero altrettanto impensabili. Se leggete le rimostranze dei parlamenti francesi o i cahiers degli Stati generali francesi dal secolo XVI fino al 1789, troverete ovunque lo spirito del giurista. E se esaminate attentamente l’estrazione professionale dei membri della Convenzione francese — che pure fu eletta a suffragio paritario — troverete un solo proletario, pochissimi imprenditori borghesi e, al contrario, un gran numero di giuristi di ogni tipo, senza i quali lo specifico spirito che animava questi intellettuali radicali e i loro progetti sarebbe semplicemente inconcepibile. Da allora il moderno avvocato e la moderna democrazia sono strettamente collegati, e avvocati nel nostro senso, in quanto ceto indipendente, esistono di nuovo soltanto in Occidente, fin dal Medioevo, quando essi presero a svilupparsi, sotto l’influenza della razionalizzazione del processo, a partire dal «patrocinatore» della formalistica procedura processuale germanica.

L’importanza degli avvocati nella politica occidentale in seguito al sorgere dei partiti non è affatto casuale. L’esercizio della politica attraverso i partiti significa precisamente questo: esercizio di interessati — presto vedremo in che senso. E perorare con successo una causa in difesa degli interessati è il mestiere dell’avvocato esperto. Come ha potuto insegnarci la superiorità della propaganda nemica, in questo egli è superiore a qualsiasi «funzionario». L’avvocato, infatti, può malgrado tutto perorare con successo, e dunque «bene» in senso tecnico, una causa fondata su argomenti logicamente deboli, e in questo senso «cattiva». Ed egli soltanto è in grado di perorare con successo, vale a dire «bene», una causa fondata su argomenti logicamente forti, e in questo senso «buona». Il funzionario in quanto politico, invece, troppo spesso rende soltanto «cattiva», attraverso una conduzione tecnicamente «cattiva», una causa in quel senso «buona» — è quanto abbiamo dovuto sperimentare. E infatti oggi si fa politica in misura crescente di fronte all’opinione pubblica con i mezzi della parola, con scritti e discorsi. Ponderarne l’effetto fa parte in modo specifico dei compiti dell’avvocato, ma non del funzionario specializzato, il quale non è un demagogo e, considerato il suo scopo, non deve esserlo, e quando si adopera per diventarlo è solito divenire un pessimo demagogo.

Il vero funzionario — questo è decisivo per giudicare il nostro precedente regime — per l’essenza stessa della sua specifica professione non deve fare politica, bensì «amministrare», tenendosi soprattutto al di sopra delle parti; ciò vale anche per i cosiddetti funzionari «politici» dell’amministrazione, quanto meno ufficialmente, fino a che non è in gioco la «ragion di stato», vale a dire gli interessi vitali dell’ordine dominante. Egli deve svolgere le proprie funzioni sine ira et studio8, «senza ira né pregiudizi». Deve dunque evitare di fare ciò che il politico, il capo come il suo seguito, si trova sempre e necessariamente a dover fare: lottare. E infatti lo spirito di parte, la lotta, la passione — ira et studium — sono l’elemento dell’uomo politico. Soprattutto del capo politico. Il suo agire è governato da un principio di responsabilità del tutto diverso, e persino opposto, rispetto a quello del funzionario. Quando l’autorità a lui preposta insiste, nonostante le sue obiezioni, su un ordine che a lui sembra sbagliato, l’onore del funzionario consiste nella capacità di eseguirlo coscienziosamente e con precisione sotto la responsabilità di colui che comanda, come se esso corrispondesse a una sua personale convinzione: senza questa disciplina morale nel senso più alto della parola e senza questa abnegazione l’intero apparato andrebbe completamente in pezzi. Al contrario, l’onore del capo politico, e dunque del capo di stato, consiste proprio nell’esclusiva e personale responsabilità per le sue azioni, che egli non può e non deve rifiutare o allontanare da sé. Sono proprio le nature di funzionario di grande levatura morale a generare cattivi politici, soprattutto irresponsabili nel significato politico della parola, e in questo senso moralmente inferiori, quali purtroppo ne abbiamo ripetutamente avuti in posizioni direttive: questo è ciò che definiamo come il «potere dei funzionari»; e non si sminuisce di certo l’onore della nostra burocrazia se noi mettiamo a nudo ciò che di politicamente sbagliato, considerato dal punto di vista del risultato, vi è in un tale sistema. Ma ritorniamo ancora una volta ai tipi delle figure politiche.

Dall’epoca dello stato costituzionale e soprattutto della democrazia il «demagogo» rappresenta in Occidente il tipo del capo politico. Lo sgradevole sapore evocato da questo termine non deve farci dimenticare che non Cleone, bensì Pericle fu il primo a portare questo nome. Privo di cariche, oppure insignito dell’unica carica elettiva di supremo stratega — in contrasto con le cariche assegnate per sorteggio dell’antica democrazia — egli guidò l’ecclesia sovrana del demos di Atene. La demagogia moderna ricorre certo anche ai discorsi: in misura quantitativamente mostruosa se si pensa ai discorsi elettorali che un moderno candidato deve tenere. Essa, tuttavia, si serve ancor più efficacemente della parola stampata. Il pubblicista politico, e soprattutto il giornalista, è oggi il più importante esponente della categoria.

Tracciare anche solo un breve schizzo della sociologia del moderno giornalismo politico sarebbe semplicemente impossibile nel quadro di questa conferenza, e costituisce da ogni punto di vista un capitolo a sé. Solo poche cose sono necessarie per ciò che ci interessa. Il giornalista condivide con tutti i demagoghi e del resto — quanto meno sul continente e a differenza della situazione inglese e anche di quella della Prussia di un tempo — pure con l’avvocato (e con l’artista) il destino di essere privo di una precisa collocazione sociale. Egli appartiene a una sorta di casta di paria, che in «società» viene sempre giudicata socialmente alla stregua dei suoi rappresentanti eticamente peggiori. Non è un caso che siano diffuse le immagini più strane sui giornalisti e il loro lavoro. Non tutti hanno presente che, in condizioni certo del tutto diverse di creatività, una prestazione giornalistica veramente buona richiede per lo meno tanto «spirito» quanto una qualsiasi prestazione intellettuale, soprattutto in conseguenza della necessità di produrla subito, su ordinazione, e di dover esercitare un effetto immediato. Che la responsabilità sia assai maggiore, e che anche il senso di responsabilità di ogni giornalista serio non sia in media più basso di quello di uno studioso, bensì più alto, come la guerra ha insegnato, non viene quasi mai apprezzato, poiché accade naturalmente che proprio le prestazioni giornalistiche irresponsabili, a causa della loro tremenda efficacia, restino impresse nella memoria. Inoltre, nessuno crede che la discrezione dei giornalisti in qualche modo bravi sia mediamente più elevata di quella di altre persone. Eppure è proprio così. Le tentazioni incomparabilmente più forti connesse a questa professione e le altre condizioni che oggi caratterizzano l’attività giornalistica producono quelle conseguenze che hanno abituato il pubblico a considerare la stampa con un misto di disprezzo e di miserevole viltà. Questa sera non possiamo parlare di ciò che andrebbe fatto. Ci interessa piuttosto la questione del destino riservato ai giornalisti nel campo della politica di professione, della possibilità che essi giungano a occupare posti politicamente direttivi. Finora una tale possibilità è stata per loro favorevole soltanto nel partito socialdemocratico. Ma anche al suo interno i posti di redattore avevano per lo più il carattere di una posizione di funzionario e non costituivano il fondamento di una posizione di capo.

Nei partiti borghesi considerati complessivamente la possibilità di ascendere al potere politico per questa via sono andate alquanto restringendosi rispetto alla generazione precedente. Naturalmente ogni politico di qualche rilievo aveva bisogno dell’influenza della stampa e dunque di relazioni con essa. E tuttavia, che un capo partito provenisse dalle file della stampa costituiva — al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare — un caso del tutto eccezionale. Le ragioni di ciò stanno nella sempre maggiore «indisponibilità» del giornalista, soprattutto del giornalista privo di un proprio patrimonio e perciò stesso vincolato alla professione, la quale è a sua volta condizionata dalla straordinaria crescita dell’intensità e dell’attualità dell’attività giornalistica. La necessità di guadagnare scrivendo articoli quotidiani o settimanali lega i politici come una palla al piede, e conosco esempi di nature di capo che proprio per questa ragione si sono trovate a essere stabilmente paralizzate esteriormente e soprattutto interiormente nell’ascesa al potere. Che i rapporti della stampa con i poteri dominanti nello stato e nei partiti durante il vecchio regime siano stati il più possibile nocivi per il livello dell’attività giornalistica costituisce un capitolo a sé. Questi rapporti erano diversi nei paesi nemici. A quanto sembra, però, anche per questi paesi e per tutti gli stati moderni vale il principio che il giornalista va sempre più perdendo influenza politica, mentre il magnate capitalistico della stampa — sul tipo per esempio di «Lord» Northcliffe9 — ne acquista ogni giorno di più.

Presso di noi, tuttavia, le grandi concentrazioni capitalistiche della stampa, le quali si erano impadronite soprattutto dei giornali con «annunci economici», delle «gazzette» di carattere generale, hanno finora di regola tipicamente alimentato l’indifferenza politica. E infatti non vi era nulla da guadagnare con una politica indipendente, tanto meno la benevolenza dei poteri politicamente dominanti, assai utile sul piano degli affari. Il commercio delle inserzioni è anche il mezzo attraverso il quale si è tentato, durante la guerra, di esercitare sulla stampa un’influenza politica in grande stile, e sembra che ora si voglia proseguire nella stessa direzione. Sebbene ci si possa aspettare che la grande stampa si sottragga a questi sviluppi, di certo la situazione è assai più difficile per i piccoli giornali. A ogni modo qui da noi, almeno per il momento, la carriera giornalistica, per quanti stimoli possa produrre e per quanta influenza e possibilità di azione e soprattutto di responsabilità politica possa offrire, non costituisce — si deve forse attendere per capire se non costituisce più o non costituisce ancora — una via normale di ascesa per il capo politico. È difficile dire se la rinuncia al principio dell’anonimato — da alcuni giornalisti, ma non da tutti, ritenuta giusta — cambierebbe in qualche modo la situazione. Ciò che noi abbiamo sperimentato con la stampa tedesca durante la guerra per ciò che riguarda la «direzione» dei giornali da parte di personalità dotate di grandi qualità di scrittori e ingaggiate allo scopo, le quali intervenivano sempre esplicitamente con la propria firma, ha purtroppo mostrato in alcuni casi più noti che per questa via non viene alimentato, così infallibilmente come si poteva credere, un elevato senso di responsabilità. Furono in parte proprio i giornali scandalistici notoriamente pessimi — senza distinzione di partito — ad ambire e anche a ottenere con tali mezzi un più ampio smercio. I signori in questione — tanto gli editori quanto gli stessi giornalisti sensazionalisti — ne hanno tratto profitti, non certo onore. Con ciò non si può dir nulla contro il principio; la questione è assai intricata, e anche quel fenomeno non è universalmente valido. Non è stata questa, tuttavia, almeno finora, la strada che conduce a un’autentica posizione di capo o a un esercizio responsabile della politica. Resta da capire come la situazione si andrà configurando nel futuro. A ogni modo, la carriera giornalistica rimane una delle più importanti vie di accesso all’attività politica di carattere professionale. Una via non per tutti. Tanto meno per caratteri deboli, in particolare per uomini che possono conservare il proprio equilibrio interiore soltanto in una situazione sicura e stabile. Se già la vita del giovane studioso è esposta al rischio, questi è perlomeno circondato da salde convenzioni di ceto che lo proteggono da ogni sbandamento. La vita del giornalista è invece in ogni senso un puro azzardo, e si svolge in condizioni che mettono alla prova la propria sicurezza interiore, come assai raramente accade in altre situazioni. Le esperienze spesso amare nella vita professionale non sono forse nemmeno la cosa peggiore. È infatti proprio dai giornalisti di successo che vengono pretese prove interiori particolarmente difficili. Non è affatto una cosa da poco frequentare i saloni dei potenti della terra su un piano di apparente parità e spesso essere generalmente adulati perché temuti, sapendo al tempo stesso che, non appena si è fuori dalla porta, il padrone di casa dovrà forse giustificarsi in modo particolare con i suoi ospiti per la sua frequentazione con i «cafoni della stampa»; allo stesso modo non è certo una cosa da poco doversi esprimere in modo pronto e convincente su ogni cosa che il «mercato» richieda, su tutti i possibili problemi della vita, senza cadere non solo nell’assoluta superficialità, ma soprattutto nella perdita della propria dignità e nell’avvilimento, con tutto ciò che inesorabilmente ne consegue. Non stupisce tanto che vi siano molti giornalisti umanamente falliti o privi di valore. Stupisce piuttosto che, nonostante tutto, proprio questo strato sociale comprenda un gran numero di uomini di valore e di assoluta probità, come non si potrebbe facilmente supporre non essendo dell’ambiente.

Se il giornalista, in quanto tipo del politico di professione, ha dietro di sé un passato pur sempre considerevole, la figura del funzionario di partito appartiene soltanto allo sviluppo degli ultimi decenni e, in parte, degli ultimi anni. Per comprendere questa figura nella sua evoluzione storica dobbiamo analizzare la natura e l’organizzazione del partito.

In tutti i gruppi politici di una certa ampiezza — che superino cioè per estensione e per ambito di competenze le dimensioni di un piccolo cantone rurale — e nei quali il detentore del potere viene periodicamente eletto, l’attività politica si configura necessariamente come un’attività di interessati. Ciò significa, in altre parole, che un numero relativamente ristretto di persone interessate in modo primario alla vita politica, e dunque alla partecipazione al potere politico, si procurano un seguito attraverso un reclutamento volontario, presentano se stessi o i propri protetti come candidati alle elezioni, raccolgono i mezzi finanziari e vanno a caccia di voti. Non si riesce proprio a immaginare come in un gruppo di grandi dimensioni le elezioni potrebbero in generale svolgersi in modo adeguato senza un’attività di tal genere. In pratica ciò significa la divisione dei cittadini dotati del diritto di voto in elementi politicamente attivi e politicamente passivi. E poiché questa differenza è fondata sulla libera volontà, essa non può essere eliminata da nessun tipo di provvedimento, come il voto obbligatorio o la rappresentanza «in base ai gruppi professionali» o altre proposte simili dirette espressamente o di fatto contro una tale situazione, e quindi contro il potere dei politici di professione. Capi e seguito in quanto elementi attivi del reclutamento volontario tanto del seguito quanto, attraverso questo, dell’elettorato passivo per l’elezione del capo sono elementi necessari e vitali di ogni partito. È altresì diversa la loro struttura. I «partiti» delle città medievali, come i Guelfi e i Ghibellini, erano per esempio dei seguiti puramente personali. Se si esamina lo Statuto della parte Guelfa, la confisca dei beni dei nobili — e cioè in origine di tutte quelle famiglie che conducevano un’esistenza cavalleresca e potevano quindi essere investite di un feudo — la loro esclusione dalle cariche e dal diritto di voto, le commissioni interlocali di partito, le organizzazioni rigidamente militari e i loro premi per i delatori, viene subito in mente il bolscevismo con i suoi soviet, con le sue organizzazioni altamente selezionate di militari e — specie in Russia — di informatori, con il disarmo, la privazione dei diritti e le confische dei beni dei «borghesi», vale a dire di imprenditori, commercianti, titolari di rendite, preti, discendenti della dinastia, agenti di polizia. E questa analogia funziona in modo ancor più sorprendente se si osserva, da un lato, che l’organizzazione militare del partito era un puro esercito di cavalieri articolato in base al ceto e che i nobili occupavano quasi tutti i posti di comando, e dall’altro lato che i soviet conservano per parte loro l’imprenditore ben retribuito, il salario a cottimo, il sistema Taylor, la disciplina militare e di fabbrica, o addirittura li reintroducono e vanno in cerca di capitale straniero: in una parola, se si osserva che essi devono di nuovo accettare semplicemente tutte le cose da loro combattute come istituzioni di classe della borghesia, soprattutto per mantenere in funzione lo stato e l’economia, e che oltre a ciò essi hanno richiamato in servizio come strumenti fondamentali del loro potere statale gli agenti della vecchia Ochrana 10. In questa sede, tuttavia, non dobbiamo prendere in considerazione tali organizzazioni basate sull’uso della forza, bensì i politici di professione, i quali aspirano a conquistare il potere attraverso una misurata e pacifica propaganda di partito sul terreno del mercato elettorale.

Anche questi partiti, nel significato per noi consueto, furono in primo luogo, per esempio in Inghilterra, dei puri seguiti dell’aristocrazia. Ogni volta che un Lord, per qualsiasi motivo, cambiava partito, tutto ciò che dipendeva da lui passava al tempo stesso al partito avversario. Fino al Reform Bill le grandi famiglie della nobiltà, non da ultimo il re, disponevano di un gran numero di distretti elettorali. Accanto a questi partiti di nobili vi sono i partiti di notabili, come sono venuti ovunque a svilupparsi con il sorgere del potere della borghesia. Sotto la direzione spirituale degli strati intellettuali tipici dell’Occidente, gli ambienti «della cultura e della proprietà», in parte per interessi di classe, in parte per tradizioni di famiglia e in parte per ragioni puramente ideologiche, si divisero in partiti che essi stessi si fecero carico di dirigere. Membri del clero, insegnanti, professori, avvocati, medici, farmacisti, agricoltori facoltosi, produttori — in Inghilterra quell’intero strato che si annovera tra i gentlemen — formarono dapprima gruppi occasionali, e nella migliore delle ipotesi circoli politici locali; in tempi di agitazione faceva sentire la propria voce la piccola borghesia, e di tanto in tanto il proletariato, quando alla sua testa si ponevano dei capi che, tuttavia, di regola non provenivano dalle sue file. In questo stadio non esistono in generale sul territorio partiti interlocali organizzati come gruppi permanenti. Soltanto i parlamentari garantiscono la coesione; e i notabili locali sono decisivi per la presentazione dei candidati. I programmi vengono definiti in parte attraverso gli appelli elettorali dei candidati, in parte sulla scorta dei congressi dei notabili e delle risoluzioni prese dal partito in parlamento. La direzione dei circoli oppure, dove questi mancano (come accade nella maggior parte dei casi), l’esercizio del tutto irregolare della politica da parte di quei pochi che in tempi normali sono a essa interessati in modo stabile si svolge a titolo accessorio e onorifico, come un lavoro occasionale; soltanto il giornalista è un politico di professione stipendiato, e soltanto l’attività giornalistica costituisce in generale un’attività politica continuativa. Accanto a essa vi è soltanto la sessione parlamentare. I parlamentari e i capipartito in parlamento sanno bene a quali notabili locali rivolgersi quando un’azione politica appare gradita. Ma soltanto nelle grandi città esistono associazioni stabili di partito con modesti contributi dei membri, con riunioni periodiche e pubbliche assemblee in cui i deputati rendono conto della propria attività. C’è vita soltanto nel periodo delle elezioni.

L’interesse dei parlamentari alla possibilità di compromessi elettorali interlocali e alla forza d’urto di un programma unitario, riconosciuto da ampi settori dell’intero paese, e in generale di un’agitazione unitaria sul territorio costituisce la molla della sempre più stretta coesione del partito. E tuttavia, se pure viene stesa una rete di associazioni locali di partito anche nelle città di medie dimensioni e, accanto a essa, di «uomini di fiducia» che agiscono in tutto il paese e con i quali un membro del partito in parlamento, in quanto capo dell’ufficio centrale del partito, è costantemente in contatto, il carattere dell’apparato di partito rimane sempre in via di principio quello di un gruppo di notabili. Mancano ancora, al di fuori dell’ufficio centrale, funzionari stipendiati; sono ancora le persone «stimate» che dirigono senza eccezioni le associazioni locali in virtù della considerazione di cui per il resto godono: sono i notabili esterni al parlamento che esercitano la propria influenza accanto allo strato di notabili politici che siedono in parlamento come deputati. La corrispondenza di partito edita dal partito stesso fornisce in misura crescente l’alimento spirituale per la stampa e le assemblee locali. Diventano indispensabili i contributi regolari dei membri del partito; e una parte di essi deve servire a coprire le spese della centrale. Fino a non molto tempo fa, si trovava in questo stadio la maggior parte delle organizzazioni di partito tedesche. In Francia, peraltro, dominava ancora in parte il primo stadio: coesione del tutto labile tra i parlamentari, un numero assai ridotto di notabili locali sparsi per tutto il paese, programmi formulati di volta in volta dai candidati o, per essi, dai loro protettori in occasione delle candidature, sebbene più o meno in relazione, a seconda delle esigenze locali, alle risoluzioni e ai programmi dei parlamentari. Questo sistema fu superato solo in parte. Il numero di coloro per i quali la politica costituiva la professione principale era ristretto e si riduceva in sostanza ai deputati eletti, ai pochi impiegati della centrale, ai giornalisti e per il resto — in Francia — a quei cacciatori di posti che si trovavano in una «carica politica» o che vi aspiravano al momento. Formalmente la politica costituiva in misura assai preponderante una professione secondaria. Anche il numero dei deputati «ministeriabili» era assai limitato, ma lo era parimenti, dato il carattere proprio del notabilato, pure il numero dei candidati alle elezioni. Era viceversa assai ampio il numero di coloro che erano interessati indirettamente all’attività politica, soprattutto da un punto di vista materiale. E infatti tutti i provvedimenti di un ministero e soprattutto tutte le risoluzioni relative a questioni personali venivano emanati tenendo conto di quanto avrebbero influenzato i risultati elettorali, e si cercava di realizzare ogni genere di desideri attraverso la mediazione del deputato locale, al quale il ministro, se egli apparteneva alla sua maggioranza — e perciò ognuno vi aspirava — doveva bene o male prestare ascolto. Il singolo deputato disponeva del patronato delle cariche e in generale di ogni tipo di patronato in tutti gli affari del suo distretto elettorale e, per parte sua, manteneva i rapporti con i notabili locali al fine di essere rieletto.

A questa situazione idilliaca del potere dei circoli di notabili e soprattutto dei parlamentari si contrappongono oggi in modo assai netto le forme più moderne dell’organizzazione di partito. Esse sono figlie della democrazia, del diritto elettorale di massa, della necessità della propaganda e dell’organizzazione di massa, dello sviluppo della più alta unità della direzione e della più rigida disciplina. Il potere dei notabili e la direzione per mezzo dei parlamentari vengono a cessare. Sono i politici «di professione a tempo pieno» a prendere nelle proprie mani, al di fuori dei parlamenti, l’esercizio della politica. E ciò o in quanto «imprenditori» — come lo erano in sostanza il boss americano e anche l’election agent inglese — oppure in quanto funzionari con stipendio fisso. Formalmente ha luogo un’ampia democratizzazione. Non è più la frazione parlamentare a fissare la linea del partito, e non sono più i notabili locali ad avere il controllo delle candidature. Sono piuttosto le assemblee dei membri organizzati del partito a scegliere i candidati e a delegare i membri delle assemblee di grado più elevato, delle quali ve ne è spesso più d’una prima di arrivare al «congresso generale del partito». Di fatto, tuttavia, il potere si trova naturalmente nelle mani di coloro che, nell’ambito dell’attività politica, svolgono il lavoro in modo continuativo, oppure di coloro dai quali tale attività, nel suo svolgimento, dipende per ragioni finanziarie o personali — come per esempio i mecenati o i dirigenti di potenti circoli politici di interessati (Tammany-Hall)11. L’elemento decisivo è che tutto questo apparato di persone — la «macchina», come lo definiscono significativamente nei paesi anglosassoni — o piuttosto coloro che lo dirigono tengono in scacco i parlamentari e sono in grado di imporre loro la propria volontà in modo abbastanza continuativo. E ciò ha una particolare importanza per la selezione della direzione del partito. Diviene infatti capo soltanto colui che ha dietro di sé la macchina, anche a dispetto del parlamento. La creazione di tali macchine significa, in altre parole, l’avvento della democrazia plebiscitaria.

Il seguito del partito, soprattutto i funzionari e gli imprenditori del partito, si aspettano ovviamente dalla vittoria del proprio capo un compenso personale: cariche o altri vantaggi. E se lo aspettano da lui, e non — o non soltanto — dai singoli parlamentari: questo è l’elemento decisivo. Essi si aspettano soprattutto che l’efficacia demagogica della personalità del capo nella lotta elettorale porti al partito il più possibile voti e mandati, e quindi potere, e attraverso di esso la possibilità per i suoi seguaci di ottenere per sé lo sperato compenso. Dal punto di vista ideale, inoltre, costituisce un impulso decisivo la soddisfazione di lavorare per un uomo con una dedizione e una fede personale e non per il programma astratto di un partito composto da uomini mediocri — è questo l’elemento «carismatico» proprio di ogni leadership.

Questa forma si è fatta strada in misura assai diversa, e attraverso una lotta costante e latente con i notabili locali e i parlamentari decisi a difendere la propria influenza. Dapprima nei partiti borghesi negli Stati Uniti, poi nel partito socialdemocratico soprattutto in Germania. Continui insuccessi sopraggiungono non appena viene a mancare un capo universalmente riconosciuto e, anche quando egli è presente, si devono fare concessioni di ogni genere all’ambizione e agli interessi dei notabili di partito. Ma soprattutto anche la macchina può cadere in potere dei funzionari di partito, che svolgono il lavoro regolare. A giudizio di alcuni circoli socialdemocratici, il loro partito sarebbe per l’appunto rimasto prigioniero di questa «burocratizzazione» 12. E tuttavia i «funzionari» si sottomettono con relativa facilità alla personalità di un capo con forti doti demagogiche: i loro interessi materiali e ideali sono intimamente legati all’accrescimento di potere del partito che essi si attendono dalla sua opera, e il lavoro per un capo è in se stesso interiormente più soddisfacente. Assai più difficile è l’ascesa di un capo là dove — come accade per lo più nei partiti borghesi — accanto ai funzionari sono i «notabili» ad avere influenza nel partito. Costoro infatti «fanno idealmente dipendere la propria vita» dal posticino di presidente o di membro di comitato di cui sono in possesso. Il risentimento contro il demagogo in quanto homo novus, la convinzione della superiorità dell’«esperienza» politica di partito — la quale è in effetti di grande importanza — e la preoccupazione ideologica di fronte al crollo delle vecchie tradizioni di partito determinano il loro agire. E nel partito essi hanno dalla propria parte tutti gli elementi tradizionalisti. Soprattutto l’elettore rurale e quello piccolo-borghese guardano con fiducia ai nomi dei notabili a loro familiari da lunga data e diffidano dell’uomo a loro sconosciuto, salvo poi naturalmente seguirlo tanto più fedelmente una volta che questi abbia raggiunto il successo. Consideriamo alcuni esempi principali di questa lotta tra le due forme di struttura e l’avvento della forma plebiscitaria descritta in particolare da Ostrogorski13.

Consideriamo innanzitutto il caso dell’Inghilterra: in questo paese, fino al 1868 l’organizzazione di partito era un’organizzazione quasi esclusivamente di notabili. Nelle campagne i tories si appoggiavano al parroco anglicano e inoltre — per lo più — al maestro di scuola e soprattutto ai grandi proprietari terrieri della contea in questione; i whigs, invece, facevano soprattutto riferimento a figure come il pastore non conformista (dove ve n’era uno), l’ufficiale della posta, il maniscalco, il sarto, il sellaio, vale a dire a quegli artigiani con i quali si poteva chiacchierare più di frequente e dai quali dunque poteva derivare una qualche influenza politica. In città i partiti si dividevano in base a opinioni in parte economiche, in parte religiose e in parte semplicemente conformi alle tradizioni familiari. Erano tuttavia sempre i notabili i protagonisti dell’attività politica. Al di sopra di essi vi erano il parlamento e i partiti con il gabinetto e con il leader, il quale era presidente del consiglio dei ministri oppure dell’opposizione. Il leader aveva accanto a sé la più importante personalità di politico di professione dell’organizzazione di partito: la «frusta» (whip). Egli controllava il patronato delle cariche; a lui dovevano dunque rivolgersi i cacciatori di posti, ed egli si consultava al riguardo con i deputati dei singoli distretti elettorali. In questi iniziò lentamente a svilupparsi uno strato di politici di professione, poiché venivano reclutati agenti locali i quali in un primo tempo non erano remunerati e occupavano all’incirca la posizione dei nostri «fiduciari». Accanto a essi, tuttavia, si sviluppò per i distretti elettorali una figura di imprenditore capitalistico: l’election agent, la cui esistenza era inevitabile nella moderna legislazione inglese tesa a garantire la correttezza delle elezioni. Questa legislazione tentava di porre sotto controllo le spese elettorali e di contrastare la potenza del denaro, obbligando i candidati a dichiarare quanto avevano speso per le elezioni: e infatti il candidato — assai più di quanto un tempo non avvenisse anche da noi — oltre a strapazzare la sua voce, aveva anche il piacere di porre mano al portafoglio. L’election agent si faceva pagare da lui una somma forfettaria con la quale realizzava solitamente un buon affare. Nella distribuzione del potere tra il leader e i notabili di partito, in parlamento e nel paese, il primo godeva da sempre in Inghilterra di una posizione assai significativa, perché solo in tal modo era possibile fare una politica in grande stile e dotata di un saldo orientamento. E tuttavia, l’influenza esercitata anche dai parlamentari e dai notabili di partito era ancora pur sempre considerevole.

Grosso modo così appariva l’antica struttura di partito, per metà amministrazione di notabili e per metà già organizzazione di impiegati e di imprenditori. Dal 1868, tuttavia, si sviluppò il sistema del caucus, dapprima per le elezioni locali a Birmingham, poi in tutto il paese. Furono un parroco non conformista 14 e, insieme a lui, Joseph Chamberlain a dare vita a questo sistema. L’occasione fu fornita dalla democratizzazione del diritto elettorale. Per conquistare le masse divenne necessario dare vita a un gigantesco apparato di associazioni di carattere democratico, formare in ogni quartiere cittadino un’associazione elettorale, svolgere un’attività ininterrotta, sottoporre il tutto a una rigida burocratizzazione: un numero crescente di funzionari stipendiati, eletti dai comitati elettorali locali (nei quali vennero presto organizzati complessivamente circa il 10 per cento degli elettori), divennero i principali mediatori con diritto di cooptazione, in quanto rappresentanti formali della politica del partito. L’impulso decisivo proveniva dai circoli locali, e soprattutto da quelli interessati alla politica comunale — ovunque fonte delle più redditizie possibilità materiali — , i quali procuravano in prima linea anche i mezzi finanziari. Questa macchina di nuova creazione, e non più soggetta alla direzione da parte dei parlamentari, dovette assai presto entrare in conflitto con coloro che fino ad allora avevano detenuto il potere, soprattutto con il whip. Ma con l’appoggio degli interessi locali essa sostenne la lotta con tale successo che il whip dovette sottomettersi e scendere a patti con gli apparati di partito. Il risultato fu una centralizzazione di tutto il potere nelle mani di pochi e quindi dell’unica persona che stava alla testa del partito. E infatti nel partito liberale l’intero sistema era sorto in relazione all’ascesa di Gladstone al potere. Il fascino della «grande» demagogia gladstoniana, la fede incrollabile delle masse nel contenuto etico della sua politica e soprattutto nel carattere etico della sua personalità furono gli elementi che condussero in modo così rapido una tale macchina alla vittoria contro i notabili. Fece così la sua comparsa sul terreno della politica un elemento cesaristico-plebiscitario: il dittatore del campo di battaglia elettorale. Ciò si manifestò assai presto. Nel 1877 il caucus divenne per la prima volta operativo nelle elezioni nazionali. Con straordinaria efficacia: il risultato fu la caduta di Disraeli nel bel mezzo dei suoi grandi successi. Nel 1886 la macchina era già a tal punto del tutto orientata nel senso del carisma personale che, quando fu sollevata la questione del home rule, l’intero apparato, dai vertici fino alla base, non si chiese: ci troviamo oggettivamente sullo stesso terreno di Gladstone?, ma si adeguò semplicemente alla sua parola e disse: qualsiasi cosa egli faccia, noi lo seguiamo — piantando così in asso il suo creatore, Chamberlain.

Questa macchina aveva bisogno di un considerevole apparato di uomini. Vi sono grosso modo per lo meno duemila persone che in Inghilterra vivono direttamente della politica dei partiti. Di certo sono assai più numerosi coloro che prendono parte alla politica soltanto in qualità di cacciatori di posti o di interessati, soprattutto nel contesto della politica comunale. Oltre alle possibilità economiche, l’uomo politico che opera all’interno del caucus può trovare il modo di soddisfare anche la propria ambizione. Diventare «J. P.» o «M. P.»15 è naturalmente la massima aspirazione di un’ambizione normale, e ciò toccava in sorte a quelle persone che potevano vantare una buona educazione, che erano gentlemen. La massima attrazione, in particolare per i grandi mecenati — le finanze dei partiti si fondano per il 50 per cento circa sulle elargizioni di donatori che rimangono anonimi — era esercitata dal titolo di Lord.

Qual è stato dunque l’effetto dell’intero sistema? Che oggi i parlamentari inglesi, con l’eccezione di alcuni membri del gabinetto (e di alcuni indipendenti irriducibili), di regola non sono altro che un gregge di votanti ben disciplinati. Presso di noi, nel Reichstag, si usava rimarcare che si lavorava per il bene del paese perlomeno attraverso il disbrigo della corrispondenza privata al proprio tavolo di lavoro. Tali gesti non sono richiesti in Inghilterra; il membro del parlamento deve solo votare e non tradire il proprio partito; egli deve presentarsi quando i whips lo chiamano e fare ciò che di volta in volta decidono il gabinetto o il leader dell’opposizione. Quando vi è un capo forte, in tutto il paese la macchina del caucus è quasi del tutto priva di un proprio carattere e sta interamente nelle mani del leader. Al di sopra del parlamento, dunque, vi è il dittatore di fatto plebiscitario che, per mezzo della «macchina», trascina dietro di sé le masse e per il quale i parlamentari sono soltanto dei beneficiari politici che si pongono al suo seguito.

Come si svolge, dunque, la selezione di questo capo? E in primo luogo, in base a quali capacità? Accanto alle qualità della volontà, che sono ovunque fondamentali, è in questo caso soprattutto decisiva la potenza del discorso demagogico. La sua natura si è trasformata dai tempi in cui esso, come in Cobden, si rivolgeva all’intelletto, fino a Gladstone, il quale era un esperto nella tecnica apparentemente sobria del «lasciare parlare i fatti», e all’epoca presente, in cui per eccitare le masse si opera assai frequentemente con mezzi puramente emozionali, del tipo di quelli utilizzati anche dall’Esercito della Salvezza. Si può con buone ragioni definire l’attuale situazione come una «dittatura che si fonda sullo sfruttamento dell’emotività delle masse». Nel parlamento inglese, tuttavia, il sistema assai sviluppato del lavoro delle commissioni rende possibile una collaborazione in quella sede, e vi costringe anche ogni politico che aspiri a partecipare alla direzione politica. Tutti i ministri di un certo rilievo degli ultimi decenni hanno alle proprie spalle questo assai concreto ed efficace apprendistato, e la prassi del resoconto e della critica pubblica a tali discussioni ha fatto sì che una tale scuola producesse una efficace selezione, escludendo il mero demagogo.

Così in Inghilterra. Il sistema del caucus ivi sviluppatosi costituiva altresì soltanto una forma attenuata in confronto all’organizzazione di partito americana, la quale portò a compimento il principio plebiscitario in modo particolarmente precoce e particolarmente puro. Secondo Washington l’America doveva essere una comunità amministrata da gentlemen. Allora anche in America un gentleman era un proprietario terriero oppure una persona educata in un college. E in un primo tempo fu in effetti così. Quando si formarono i partiti, i membri della Camera dei Rappresentanti pretesero in un primo momento di avere la direzione della politica, come in Inghilterra all’epoca del potere dei notabili. L’organizzazione di partito era del tutto labile. Tutto ciò durò fino al 1824. Già prima degli anni Venti la macchina di partito aveva iniziato a formarsi in alcuni comuni, che anche qui costituirono i luoghi da cui prese avvio lo sviluppo moderno. E tuttavia soltanto l’elezione a presidente di Andrew Jackson, il candidato dei contadini dell’Ovest, spazzò via le antiche tradizioni. La fine formale della direzione dei partiti da parte dei parlamentari è subentrata subito dopo il 1840, quando i grandi parlamentari — Calhoun, Webster — si ritirarono dalla vita politica, poiché il parlamento aveva perso quasi ogni potere nel paese di fronte alla macchina di partito. Il fatto che la «macchina» plebiscitaria si sia sviluppata così precocemente in America dipende dalla circostanza che là, e là soltanto, il capo dell’esecutivo e — questo è il punto — il capo del patronato delle cariche era un presidente eletto in modo plebiscitario e che egli, in conseguenza della «separazione dei poteri», era quasi del tutto indipendente dal parlamento nella gestione della sua carica. Dunque, proprio le elezioni presidenziali offrivano un vero e proprio bottino di cariche e di benefici come premio della vittoria. Ne furono tratte le conseguenze con lo spoils system, elevato sistematicamente a principio da Andrew Jackson.

Quale significato ha oggi per la formazione dei partiti questo spoils system, vale a dire l’assegnazione di tutte le cariche federali al seguito del candidato vittorioso? Che si contrappongono l’un l’altro partiti del tutto privi di principî, pure organizzazioni di cacciatori di posti, le quali elaborano i propri mutevoli programmi per le singole campagne elettorali a seconda delle possibilità di raccogliere voti — trasformandosi in una misura tale che, nonostante tutte le analogie, non si riscontra da nessun’altra parte. I partiti sono in tutto e per tutto orientati alla lotta elettorale più importante dal punto di vista del patronato delle cariche: quella per la presidenza dell’Unione e per i posti di governatore dei singoli stati. Programmi e candidati vengono decisi nelle «convenzioni nazionali» dei partiti senza l’intervento dei parlamentari, e dunque da congressi di partito a cui formalmente partecipano, in modo assai democratico, assemblee di delegati le quali a loro volta devono il loro mandato alle primaries, vale a dire alle assemblee primarie degli elettori del partito. Già nelle primaries i delegati vengono scelti sulla base dei nomi dei candidati alla carica di capo dello stato; all’interno dei singoli partiti la lotta più aspra viene ingaggiata sulla questione della nomination. Nelle mani del presidente vi sono pur sempre 300000- 400000 nomine di funzionari, che vengono da lui effettuate consultando soltanto i senatori dei singoli stati. I senatori sono dunque politici dotati di un forte potere. Al contrario, dal punto di vista politico la Camera dei Rappresentanti è relativamente priva di potere, poiché a essa è sottratto il patronato dei funzionari e poiché i ministri — semplici collaboratori di un presidente che contro tutti, anche contro il parlamento, gode di una legittimazione popolare — possono attendere al loro ufficio indipendentemente dalla sua fiducia o sfiducia: una conseguenza, questa, della «separazione dei poteri».

Così congegnato, questo spoils system era tecnicamente possibile in America perché, all’epoca del suo primo sviluppo, la civiltà americana poteva ancora tollerare un’economia puramente dilettantesca. E infatti, una situazione di questo genere — 300000–400000 membri di partito i quali non avevano nulla da vantare per la propria qualificazione se non il fatto di aver prestato buoni servigi per il proprio partito — non poteva ovviamente sussistere senza enormi inconvenienti: corruzione e sprechi senza pari, che solo un paese con risorse economiche ancora illimitate poteva reggere.

La figura che ora appare sulla scena con questo sistema della macchina plebiscitaria di partito è il boss. Chi è il boss? Un imprenditore capitalistico della politica che procaccia voti a proprio rischio e pericolo. Questi può aver stretto le sue prime relazioni come avvocato o come oste o come titolare di altre simili imprese o, ancora, prestando denaro. Da qui egli tesse la sua rete sino a quando riesce a «controllare» un certo numero di voti. Giunto a questo punto, egli stringe contatti con altri boss e, con lo zelo, l’abilità e soprattutto la discrezione, suscita l’attenzione di coloro che sono più avanti nella carriera, cominciando così la sua ascesa. Il boss è indispensabile per l’organizzazione di partito. Questa è concentrata nelle sue mani. Egli procura i mezzi essenziali. Come li ottiene? In parte attraverso i contributi dei membri del partito; ma soprattutto attraverso la tassazione degli stipendi di quei funzionari che hanno ottenuto la propria carica grazie a lui e al suo partito. Infine, attraverso mazzette e mance. Chi voglia trasgredire impunemente una delle tante leggi ha bisogno della connivenza dei boss e deve pagarli. Altrimenti, sorgono per lui inevitabili seccature. Con ciò soltanto, tuttavia, non è stato ancora procurato il necessario capitale d’impresa. Il boss è indispensabile in quanto riceve direttamente il denaro dei grandi magnati della finanza. Questi non affiderebbero mai il loro denaro per scopi elettorali a un funzionario stipendiato dal partito o a chiunque debba renderne conto pubblicamente. Con la sua saggia discrezione nelle questioni di denaro, il boss è ovviamente l’uomo di quei circoli capitalistici che finanziano le elezioni. Il tipico boss è un uomo assolutamente modesto. Non aspira all’onore sociale; il professional è disprezzato all’interno della «buona società». Egli ricerca esclusivamente il potere, il potere come fonte di denaro, ma anche per il potere in se stesso. Egli lavora nell’ombra, al contrario del leader inglese. Non lo si sentirà parlare in pubblico; egli suggerisce agli oratori ciò che essi devono dire per raggiungere lo scopo, senza mai parlare egli stesso. Di regola non accetta alcuna carica, tranne quella di senatore nel senato federale. Poiché infatti i senatori partecipano, secondo la Costituzione, al patronato delle cariche, spesso i boss più influenti siedono di persona in tale assemblea. L’assegnazione delle cariche dipende in prima linea dalle attività svolte per il partito. Ma di frequente si ha l’assegnazione in cambio di denaro, ed esistono per singole cariche determinate tasse: un sistema di vendita delle cariche ben noto anche alle monarchie del XVII-XVIII secolo, compreso lo Stato della Chiesa.

Il boss non ha principî politici definiti, è completamente privo di principî e si chiede soltanto: che cosa attira voti? Non di rado egli è un uomo di educazione abbastanza scadente. E tuttavia, nella sua vita privata, egli è solito comportarsi in maniera ineccepibile e corretta. Solo nella sua etica politica egli si adatta naturalmente all’etica media dell’agire politico, come moltissimi di noi hanno probabilmente fatto, anche sul terreno dell’etica economica, all’epoca dell’accaparramento. Il fatto di essere socialmente disprezzato in quanto professional, in quanto politico di professione, non lo turba affatto. E che egli stesso non giunga né voglia giungere alla grandi cariche dell’Unione ha inoltre il vantaggio che non di rado intelligenze estranee al partito — dunque persone insigni, e non sempre e soltanto i vecchi notabili di partito come da noi — ottengono una candidatura qualora i boss se ne ripromettano una forza di attrazione alle elezioni. Proprio la struttura di questi partiti privi di principî, dominati da uomini socialmente disprezzati, ha pertanto portato alla presidenza uomini capaci, che da noi non avrebbero mai fatto molta strada. Certo, i boss si oppongono a un outsider che possa mettere in pericolo le loro fonti di denaro e di potere. Ma, nella competizione per ottenere il favore degli elettori, non di rado essi hanno dovuto convincersi ad accettare proprio quei candidati che erano ritenuti avversari della corruzione.

Ci troviamo dunque in presenza di un’impresa di partito fortemente capitalistica, rigidamente organizzata dai vertici fino alla base, sostenuta anche da circoli estremamente saldi e organizzati del tipo di Tammany-Hall, i quali puntano in modo esclusivo a realizzare profitti mediante il controllo politico soprattutto delle amministrazioni comunali, che anche qui costituiscono le più importanti fonti di lucro. Questa struttura della vita di partito è stata resa possibile dall’elevato grado di democrazia di cui godevano gli Stati Uniti in quanto «paese nuovo». Ma tale nesso fa sì che un simile sistema sia destinato a una lenta agonia. L’America non può più essere governata soltanto da dilettanti. Se ancora quindici anni or sono si fosse domandato ai lavoratori americani perché accettavano di essere governati da uomini politici che essi stessi dichiaravano di disprezzare, si sarebbe ottenuta una risposta di questo tenore: «Preferiamo avere per funzionari persone sulle quali sputare piuttosto che, come da voi, una casta di funzionari che sputa su di noi». Questo era l’antico punto di vista della «democrazia» americana: i socialisti pensavano già allora in modo del tutto diverso. La situazione non è più tollerata. L’amministrazione a opera di dilettanti non è più sufficiente, e la Civil Service Reform crea in numero sempre più ampio impieghi vitalizi e con diritto di pensione, e fa in modo che ottengano le cariche funzionari con diploma universitario, incorruttibili e capaci come i nostri. Già adesso, circa 100000 cariche sono state sottratte al bottino delle tornate elettorali, danno diritto a una pensione e sono legate a un titolo di qualificazione. Tutto ciò farà lentamente retrocedere lo spoils system, e si trasformerà allora parimenti la natura stessa della direzione dei partiti, solo che non sappiamo ancora in che modo.

In Germania le condizioni decisive dell’attività politica sono state sino a oggi essenzialmente le seguenti. Innanzitutto l’impotenza dei parlamenti. La conseguenza è stata che nessun uomo che avesse le doti del capo è entrato a farne parte stabilmente. Del resto, posto anche che volesse entrarvi, che cosa avrebbe potuto farvi? Se si fosse liberato un posto di cancelleria, egli poteva dire al capo dell’amministrazione in questione: nel mio distretto elettorale vi è un uomo assai capace, che sarebbe adatto, dunque prendetelo. E ciò accadeva di frequente. Ma questo era pressoché tutto quello che un parlamentare tedesco poteva ottenere per soddisfare i suoi eventuali istinti di potere. A ciò si aggiungeva — e questo secondo elemento condizionava il primo — la straordinaria importanza in Germania di una burocrazia dotata di una preparazione specialistica. In ciò eravamo i primi al mondo. Questa importanza implicava che tale burocrazia specializzata pretendesse per sé non soltanto i posti di funzionario, ma anche quelli di ministro. È significativo, in questo senso, che l’anno scorso nel Landtag bavarese, in occasione della discussione sulla parlamentarizzazione circolasse l’opinione che le persone dotate di talento non avrebbero più intrapreso la carriera di funzionari se si fossero introdotti i parlamentari nei ministeri. Oltre a ciò, l’amministrazione dei funzionari si sottrasse sistematicamente a quel tipo di controllo che è rappresentato dalle commissioni di inchiesta inglesi e pose in tal modo i parlamenti nell’impossibilità — a prescindere da poche eccezioni — di formare nel proprio seno dei capi dell’amministrazione realmente capaci.

Il terzo elemento era che noi in Germania, al contrario dell’America, avevamo partiti fondati su principî politici, i quali affermavano, per lo meno soggettivamente in buona fede, che i loro membri rappresentavano «concezioni del mondo». Entrambi i più importanti di questi partiti — il Centro da un lato e la socialdemocrazia dall’altro — erano tuttavia sorti intenzionalmente come partiti di minoranza. I circoli dirigenti del Centro nel Reich non hanno mai fatto mistero di essere contrari al parlamentarismo poiché temevano di essere messi in minoranza e perché ciò avrebbe dunque reso assai più difficile per loro sistemare i cacciatori di posti, com’era accaduto sino ad allora, attraverso le pressioni sul governo. La socialdemocrazia era per principio un partito di minoranza e un ostacolo alla parlamentarizzazione, poiché essa non voleva compromettersi con l’ordinamento politico-borghese esistente. Il fatto che entrambi i partiti si escludessero dal sistema parlamentare rese quest’ultimo impossibile.

Che cosa poteva dunque venire in Germania dai politici di professione? Essi non avevano né potere né responsabilità, potevano soltanto svolgere un ruolo alquanto subalterno di notabili, ed erano di conseguenza nuovamente animati dagli istinti corporativi che sono tipici dappertutto. Nella cerchia di questi notabili, che facevano del loro piccolo posticino la loro principale ragione di vita, per un uomo di diversa natura era impossibile emergere. Per ogni partito, non esclusa ovviamente la socialdemocrazia, potrei citare molti casi di persone la cui carriera politica si è risolta in una vera e propria tragedia, di persone cioè che erano dotate delle qualità del capo e che proprio per questo non erano tollerate dai notabili. Tutti i nostri partiti hanno finito per trasformarsi in una corporazione di notabili. Bebel, per esempio, era ancora un capo per temperamento e per schiettezza di carattere, per quanto modesta fosse la sua intelligenza. Il fatto che egli fosse un martire 16 e che non avesse mai tradito la fiducia delle masse (così almeno ai loro occhi) fece sì che queste lo seguissero sempre e incondizionatamente e che non vi fosse alcun potere all’interno del partito in grado di opporsi alla sua persona. Dopo la sua morte tutto ciò ebbe fine, e iniziò il potere dei funzionari. Emersero funzionari sindacali, segretari di partito, giornalisti, gli istinti burocratici iniziarono a dominare il partito: certo, una burocrazia assai onorevole — così come la si trova di rado, si deve dire, in altri paesi, specie se si guarda ai funzionari sindacali americani, così facilmente corruttibili. Ciò non toglie che anche nel partito cominciarono a mostrarsi le conseguenze sopra discusse del potere dei funzionari.

A partire dagli anni Ottanta i partiti borghesi divennero in tutto e per tutto delle corporazioni di notabili. Talvolta, in verità, i partiti dovevano chiamare a sé, a scopi di propaganda, intelligenze estranee al partito stesso, per poter dire: «Noi abbiamo questo e quest’altro nome». Per quanto possibile, tuttavia, essi evitavano di inserirli nelle liste elettorali, e ciò avveniva soltanto quando la cosa era inevitabile, in quanto la persona in questione non accettava soluzioni diverse.

Nel parlamento dominava il medesimo spirito. I nostri partiti parlamentari erano e sono tuttora delle corporazioni. Ogni discorso tenuto di fronte all’assemblea plenaria del Reichstag viene preventivamente vagliato dal partito. Lo si nota dall’incredibile tedio che tali discorsi producono. Solo chi è iscritto come oratore può prendere la parola. Non si potrebbe concepire un contrasto più netto rispetto all’uso inglese e — per motivi del tutto opposti — anche rispetto all’uso francese.

Adesso, in conseguenza del violento crollo che si usa chiamare rivoluzione, è possibile che sia in atto una trasformazione. È possibile, ma non è affatto certo. Innanzitutto, hanno fatto la loro comparsa nuovi tipi di apparato di partito. In primo luogo, apparati di dilettanti. Assai spesso essi sono rappresentati da studenti delle varie scuole superiori, i quali attribuiscono a un individuo le qualità di un capo e gli dicono: vogliamo svolgere per te il lavoro necessario, pensa tu a dirigerlo. In secondo luogo, apparati di uomini d’affari. Accadeva che delle persone si recassero da individui cui attribuivano le qualità di un capo e si offrissero, dietro un compenso fisso per ogni voto, di assumere su di sé il compito del reclutamento. Se mi si chiedesse francamente quale di questi due apparati io ritenga più fidato da un punto di vista puramente tecnico-politico, credo che risponderei il secondo. Ma entrambi erano bolle gonfiate in fretta e presto di nuovo svanite. Gli apparati esistenti si sono riorganizzati, ma hanno ancora continuato a funzionare. Quei fenomeni costituivano soltanto un sintomo del fatto che i nuovi apparati si sarebbero forse già affermati se soltanto vi fossero dei capi. Ma già le peculiarità tecniche del sistema elettorale proporzionale escludevano la loro affermazione. Sono apparsi, e presto scomparsi, soltanto un paio di dittatori di piazza 17. E solo il seguito delle dittature di piazza è organizzato in una solida disciplina: da qui la potenza di queste minoranze evanescenti.

Ammettiamo pure che questa situazione possa mutare. Dobbiamo allora renderci conto, in base a ciò che si è detto, che la direzione dei partiti a opera di capi plebiscitari determina la «rinuncia alla propria anima» da parte del seguito ovvero, per così dire, la sua proletarizzazione spirituale. Per essere utilizzabile dal capo in quanto apparato, esso deve ubbidire ciecamente, essere macchina nel senso americano della parola, senza essere disturbato dalla vanità dei notabili e dalle pretese di opinioni personali. L’elezione di Lincoln fu possibile soltanto grazie a questo carattere dell’organizzazione di partito e, come si è accennato, lo stesso accadde per Gladstone con il caucus. È per l’appunto questo il prezzo con cui si paga la direzione da parte di un capo. Ma vi è soltanto questa scelta: o una democrazia subordinata a un capo e organizzata mediante la «macchina», oppure una democrazia senza capi, vale a dire il potere dei «politici di professione» senza vocazione, senza le intime qualità carismatiche che per l’appunto fanno un capo. Significa proprio questo ciò che di volta in volta la fronda di partito indica abitualmente come il potere della «cricca». Per il momento in Germania noi abbiamo soltanto quest’ultimo. E in futuro, almeno nel Reich, il suo permanere sarà favorito dal fatto che risorgerà il Bundesrat e che quindi verrà necessariamente limitato il potere del Reichstag, e con esso la sua importanza in quanto luogo di selezione dei capi. Il suo permanere sarà inoltre favorito dal sistema proporzionale, così come oggi è strutturato: una tipica manifestazione della democrazia senza capi, non soltanto perché favorisce il mercato delle vacche dei notabili per la distribuzione delle cariche, ma anche perché in futuro offrirà ai gruppi di interesse la possibilità di costringere a includere nelle liste i propri funzionari e di creare in tal modo un parlamento impolitico, nel quale non troveranno alcuno spazio le autentiche nature di capo. L’unica valvola di sfogo per il bisogno di capi potrebbe diventare il presidente del Reich, qualora egli fosse eletto per plebiscito e non dal parlamento. Una figura di capo legittimata sul terreno concreto del lavoro compiuto potrebbe altresì sorgere ed essere adeguatamente selezionata soprattutto se nei grandi comuni — come negli Stati Uniti quando si voleva seriamente contrastare la corruzione — facesse la sua comparsa il dittatore cittadino plebiscitario, dotato del diritto di costituire i suoi uffici in modo del tutto indipendente. Ciò determinerebbe il sorgere di un’organizzazione di partito orientata a tali elezioni. Ma l’ostilità assolutamente piccolo-borghese che tutti i partiti — compresa soprattutto la socialdemocrazia — nutrono verso il capo lascia ancora del tutto all’oscuro il futuro carattere della forma dei partiti e, con esso, di tutte queste possibilità.

Oggi, dunque, non si può ancora in alcun modo intravvedere come verrà a configurarsi esteriormente l’esercizio della politica come «professione», e di conseguenza ancor meno per quale via si apriranno, per chi ha doti politiche, le possibilità di essere posti di fronte a un compito politico soddisfacente. Per colui che è costretto dalla sua situazione economica a vivere «della» politica si presenterà sempre, come via di accesso più diretta, l’alternativa del giornalismo o di un posto da funzionario di partito, oppure una delle rappresentanze di interessi presso un sindacato, una camera di commercio, una camera dell’agricoltura, una camera dell’artigianato, una camera del lavoro, un’associazione di datori di lavoro e così via, oppure ancora un posto adeguato a livello comunale. Dal punto di vista esteriore non si può dire altro che questo: che il funzionario di partito condivide con il giornalista l’odiosità del «declassato». «Scrittore a pagamento» in un caso, «oratore a pagamento» nell’altro: sono purtroppo le parole che sempre risuoneranno alle orecchie dell’uno e dell’altro, anche se non pronunciate in modo esplicito; chi è interiormente debole e non è in grado di dare a se stesso la giusta risposta si tenga lontano da questa carriera, la quale in ogni caso è una strada che, accanto a pericolose tentazioni, può condurre a continue delusioni. Quali gioie interiori essa è dunque in grado di offrire e quali attitudini personali presuppone in chi vi si dedica?

Ecco, essa procura in primo luogo il sentimento del potere. Anche quando occupa posizioni formalmente modeste, la coscienza di esercitare una influenza sugli uomini, di partecipare al potere su di essi, ma soprattutto il sentimento di tenere tra le mani il filo conduttore di eventi storicamente importanti, permette al politico di professione di elevarsi al di sopra della quotidianità. Il problema per lui è piuttosto il seguente: per quali qualità può egli sperare di essere degno di questo potere (per quanto esso possa essere limitato nel singolo caso) e dunque della responsabilità che ne deriva? In tal modo ci addentriamo nel campo delle questioni etiche; e infatti proprio a tale campo appartiene la domanda: che tipo di uomo deve essere colui al quale è consentito di mettere le proprie mani negli ingranaggi della storia?

Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una «causa», al dio o al demone che la dirige. Non nel senso di quell’atteggiamento interiore che il mio compianto amico Georg Simmel era solito chiamare «agitazione sterile» 18, propria di un certo tipo di intellettuale soprattutto russo (ma non certo di tutti) e che ora, in questo carnevale che si adorna del nome maestoso di «rivoluzione», ha un ruolo così grande anche presso i nostri intellettuali: un «romanticismo di ciò che è intellettualmente interessante», costruito nel vuoto, privo di qualsiasi senso oggettivo di responsabilità. E infatti la semplice passione, per quanto autenticamente vissuta, non è ancora sufficiente. Essa non crea l’uomo politico se, in quanto servizio per una «causa», non fa anche della responsabilità nei confronti per l’appunto di questa causa la stella polare decisiva dell’agire. Da ciò deriva la necessità — e questa è la qualità psicologica fondamentale dell’uomo politico — della lungimiranza, vale a dire della capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: dunque, la distanza tra le cose e gli uomini. La «mancanza di distanza», semplicemente in quanto tale, costituisce uno dei peccati mortali di ogni uomo politico ed è una di quelle qualità che, coltivate presso la nuova generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all’inettitudine politica. Il problema è infatti proprio questo: come si possono far convivere nella stessa anima un’ardente passione e una fredda lungimiranza? La politica si fa con la testa, non con altre parti del corpo o dell’anima. E tuttavia la dedizione a essa, se non deve essere un frivolo gioco intellettuale ma un agire umanamente autentico, può sorgere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel saldo controllo dell’anima che caratterizza l’uomo politico appassionato e lo distingue dal mero dilettante politico che «si agita in modo sterile» è possibile soltanto attraverso l’abitudine alla distanza, in tutti i sensi della parola. La «forza» di una «personalità» politica significa in primissimo luogo il possesso di tali qualità.

L’uomo politico deve dominare in se stesso, ogni giorno e ogni ora, un nemico del tutto banale e fin troppo umano: la vanità comune a tutti, la nemica mortale di ogni dedizione a una causa e di ogni distanza e, in questo caso, della distanza rispetto a se stessi.

La vanità è una caratteristica assai diffusa, e forse nessuno ne è del tutto privo. Nei circoli accademici e intellettuali essa costituisce una sorta di malattia professionale. Ma proprio nel caso degli studiosi, per quanto possa risultare antipatica, essa è relativamente innocua, nel senso che di regola non nuoce all’attività scientifica. Assai diversa è la situazione per l’uomo politico. L’aspirazione al potere è lo strumento con cui egli inevitabilmente si trova a operare. L’«istinto di potenza» — come si usa dire — fa perciò in effetti parte delle sue normali qualità. E tuttavia il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio là dove questa aspirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamente al servizio della «causa». Vi sono infatti in ultima analisi soltanto due tipi di peccato mortale sul terreno della politica: l’assenza di una causa e — spesso, ma non sempre, si tratta della stessa cosa — la mancanza di responsabilità. La vanità, vale a dire il bisogno di porre se stessi in primo piano nel modo più visibile possibile, induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di questi due peccati, se non tutti e due insieme. E ciò tanto più in quanto il demagogo è costretto a contare sull’«effetto»; egli si trova perciò continuamente in pericolo tanto di diventare un mero attore quanto di prendere con leggerezza la responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi solamente dell’«impressione» che suscita. L’assenza di una causa lo porta ad aspirare alla luccicante apparenza del potere invece che al potere effettivo; la mancanza di responsabilità a godere del potere soltanto per il potere stesso, senza uno scopo concreto. E infatti sebbene, o piuttosto proprio perché il potere costituisce il mezzo inevitabile di ogni politica e l’aspirazione al potere una delle sue forze propulsive, non vi è deformazione più pericolosa della forza politica che il vantarsi del potere come un parvenu, del vanitoso compiacimento nel sentimento del potere e soprattutto di ogni culto del potere in se stesso. Il mero «politico della potenza», come cerca di celebrarlo un culto praticato con zelo anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma in effetti opera nel vuoto e nell’assurdo. In ciò i critici della «politica di potenza» hanno pienamente ragione. Dall’improvviso crollo interiore di alcuni tipici rappresentanti di questo principio abbiamo potuto constatare quale intima debolezza e impotenza si nasconda dietro questi gesti boriosi, ma del tutto vuoti. Esso è il prodotto di una indifferenza assai misera e superficiale di fronte al senso dell’agire umano, la quale non ha alcun tipo di rapporto con la coscienza del tragico a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l’agire politico.

È del tutto vero e costituisce uno dei dati fondamentali di tutta la storia — di cui non possiamo qui occuparci più da vicino — che il risultato finale dell’agire politico si trova spesso, o meglio, di regola, in un rapporto del tutto inadeguato e spesso del tutto paradossale con il suo significato originario. Ma proprio per questo un tale significato — il fatto di servire una causa — non deve mai mancare, se l’agire deve altrimenti avere un suo sostegno interiore. Quale debba essere la causa per i cui fini l’uomo politico aspira al potere e fa uso del potere è una questione di fede. Egli può mettersi al servizio di scopi nazionali o umanitari, sociali ed etici o culturali, intramondani o religiosi, può essere sostenuto da una solida fede nel progresso — non importa in che senso — oppure può rifiutare in modo distaccato questo genere di fede, può pretendere di stare al servizio di un’«idea» oppure respingere in via di principio una tale pretesa e voler servire i fini esteriori della vita quotidiana, ma sempre deve comunque esserci una qualche fede. Altrimenti — e questo è assolutamente esatto — la maledizione della nullità delle creature grava anche sui successi politici esteriormente più solidi.

Con quanto abbiamo detto ci siamo già addentrati nella discussione dell’ultimo problema di cui dobbiamo occuparci stasera: il problema, cioè, dell’etica della politica in quanto «causa». A quale vocazione può essa rispondere, a prescindere del tutto dai suoi fini, nell’ambito dell’organizzazione etica complessiva della condotta di vita? Qual è, per così dire, il luogo etico in cui essa dimora? Qui di certo si scontrano concezioni ultime del mondo, tra le quali si deve infine scegliere. Affrontiamo risolutamente il problema che recentemente — e a mio giudizio in modo totalmente sbagliato — è stato nuovamente sollevato.

Liberiamoci tuttavia in primo luogo da una contraffazione del tutto volgare. L’etica, infatti, può presentarsi in un ruolo assai deleterio da un punto di vista morale. Facciamo alcuni esempi. Raramente troverete che un uomo, il quale abbia smesso di amare una donna per un’altra, non senta il bisogno di giustificarsi con se stesso dicendo che la prima non era più degna del suo amore, o che lo aveva deluso, o adducendo altre «ragioni» simili. Si tratta di una mancanza di cavalleria che, al semplice dato di fatto che egli non la ama più e che la donna deve portarne le conseguenze, aggiunge ancora una parvenza di legittimità, in forza della quale egli pretende un diritto e cerca di rovesciare sulla donna, oltre all’infelicità, anche un torto. Si comporta esattamente allo stesso modo il concorrente fortunato in amore: il rivale deve valere di meno, altrimenti non sarebbe stato sconfitto. Le cose non vanno ovviamente in modo diverso quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vincitore afferma con una tracotanza priva di dignità: ho vinto perché avevo ragione. Oppure, quando qualcuno crolla interiormente di fronte agli orrori della guerra e, invece di dire semplicemente che era troppo, sente il bisogno di giustificare di fronte a se stesso la sua stanchezza della guerra con questo sentimento: «Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa moralmente cattiva». E lo stesso accade per chi è sconfitto in guerra. Dopo una guerra, invece di andare in cerca del «colpevole» con una vecchia mentalità da donnicciole — quando è stata invece la struttura della società a determinare la guerra — chiunque assuma un atteggiamento virile e sobrio dirà al nemico: «Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è ormai cosa fatta: concedeteci ora di discutere su quali conseguenze se ne debbano trarre in relazione agli interessi oggettivi che erano in gioco e — questa la cosa principale — in rapporto alla responsabilità di fronte al futuro, che grava specialmente sul vincitore». Tutto il resto è privo di dignità e ha gravi conseguenze. Una nazione perdona una ferita dei propri interessi, ma non una ferita del proprio onore, e tanto meno una ferita inflitta con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni fa sorgere nuovamente grida di sdegno, l’odio e l’ira, mentre la guerra, una volta terminata, dovrebbe essere almeno moralmente sepolta. Questo è possibile soltanto attraverso l’oggettività e la cavalleria, ma soprattutto mediante la dignità. E mai attraverso un’«etica», che in verità significa mancanza di dignità da entrambe le parti. Invece di preoccuparsi di ciò che interessa l’uomo politico — il futuro e la responsabilità di fronte a esso — l’etica si occupa della questione della colpa commessa nel passato, una questione politicamente sterile perché indecidibile. Agire in questo modo è una colpa politica, se mai ve n’è una. E inoltre, l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene occultato da interessi assai materiali: l’interesse del vincitore al guadagno — morale e materiale — più alto possibile, le speranze dello sconfitto di procurarsi qualche vantaggio attraverso il riconoscimento della propria colpa: se vi è mai qualcosa di «volgare», è proprio questo, ed è la conseguenza di un siffatto modo di utilizzare l’«etica» come pretesto per «mettersi dalla parte della ragione».

Ma qual è dunque il rapporto reale tra etica e politica? Non hanno niente a che fare l’una con l’altra, come si è talvolta affermato? O è vero, al contrario, che la «stessa» etica vale per l’agire politico come per ogni altro agire? Si è talvolta pensato che tra queste due affermazioni si ponesse un’alternativa: sarebbe giusta o l’una o l’altra. Ma è dunque vero che imperativi identici dal punto di vista del contenuto potrebbero essere formulati da qualsiasi etica al mondo per rapporti erotici e di affari, familiari e di ufficio, per le relazioni con la moglie, l’erbivendola, il figlio, il concorrente, l’amico, l’imputato? Dovrebbe essere davvero così indifferente per le esigenze etiche nei confronti della politica che questa operi con un mezzo così specifico come la potenza, dietro cui vi è la violenza? Non vediamo che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, proprio in quanto fanno uso di questo mezzo della politica, giungono esattamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore militare? In che cosa, se non nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, si differenzia il potere dei consigli degli operai e dei soldati da quello di un qualsiasi detentore del potere del vecchio regime? E in che cosa, ancora, si distingue la polemica che la maggior parte dei rappresentanti della presunta nuova etica ha scatenato contro i suoi avversari da quella di qualsiasi altro demagogo? Ci si dirà: per la nobile intenzione! Bene. Ma qui è dei mezzi che si sta parlando, e anche gli avversari con cui si combatte pretendono per sé allo stesso identico modo, in piena sincerità da un punto di vista soggettivo, la nobiltà delle proprie intenzioni ultime. «Chi di spada ferisce, di spada perisce»19, e la lotta è sempre lotta. E dunque, l’etica del sermone della montagna? Con il sermone della montagna — vale a dire con l’etica assoluta del Vangelo — si pone una questione assai più seria di quanto credono coloro che oggi citano volentieri questi precetti. Non va presa alla leggera. Per essa vale ciò che è stato detto della causalità nella scienza: non è una carrozza che si possa far fermare a piacere per salirvi o scenderne20. Al contrario: tutto oppure niente, è proprio questo il suo senso, se ne deve derivare qualcosa di diverso dalla banalità. Così, per esempio, la parabola del giovane ricco: «Egli se ne andò triste, poiché possedeva molte ricchezze»21. Il precetto evangelico è incondizionato e univoco: dai via ciò che possiedi, semplicemente tutto. L’uomo politico dirà: una pretesa insensata dal punto di vista sociale, fintantoché non viene realizzata per tutti. E dunque: tassazioni, espropriazioni, confische, in una parola: coercizione e ordine per tutti. Ma il precetto etico non chiede affatto una cosa del genere, ed è questa la sua natura. Oppure: «Porgi l’altra guancia»22. Incondizionatamente, senza chiedere come mai spetti all’altro di colpire. Un’etica della mancanza di dignità, eccetto che per un santo. Questo è il punto: si deve essere santi in tutto, quanto meno nella volontà, si deve vivere come Gesù, come gli Apostoli, come San Francesco e i suoi pari, e solamente allora quest’etica è dotata di senso ed è espressione di una dignità. Altrimenti no. Infatti, quando in conseguenza di un’etica acosmica dell’amore si dice: «Non opporti al male con la violenza», per l’uomo politico vale il principio opposto: devi resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile della sua affermazione. Chi intenda agire secondo l’etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi — poiché essi rappresentano una forma di coercizione — e si iscriva ai sindacati gialli. E soprattutto non parli di «rivoluzione». Infatti quell’etica non intende certo insegnare che proprio la guerra civile sia l’unica forma di guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo i precetti del Vangelo rifiuterà o getterà via le armi, come veniva raccomandato in Germania, in quanto ciò rappresenta un dovere morale, allo scopo di porre fine alla guerra e dunque a ogni guerra. L’uomo politico dirà: l’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un periodo in qualche modo prevedibile sarebbe stata una pace di status quo. I popoli si sarebbero chiesti allora: a che scopo la guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum, ciò che oggi non è più possibile. Infatti per i vincitori — o quanto meno per una parte di essi — essa è stata politicamente vantaggiosa. E di ciò è responsabile quella condotta che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Quando dunque l’epoca della stanchezza sarà trascorsa, non la guerra, ma la pace sarà screditata: una conseguenza dell’etica assoluta.

Infine: il dovere della verità. È un dovere incondizionato per l’etica assoluta. Se ne è dunque dedotta la conseguenza di pubblicare tutti i documenti, soprattutto quelli che accusano il proprio paese, e sul fondamento di questa pubblicazione unilaterale di riconoscere la propria colpa unilateralmente, senza condizioni, senza riguardo alle conseguenze. L’uomo politico troverà che in tal modo non si è promossa la verità, ma la si è sicuramente oscurata attraverso l’abuso e lo scatenamento delle passioni; che soltanto una verifica generale, condotta secondo un piano e attraverso giudici imparziali potrebbe dare buoni frutti, e che ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che così agisce, conseguenze che si dovranno ancora riparare tra decenni. Ma è proprio sulle «conseguenze» che l’etica assoluta non si interroga.

Sta qui il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principî» oppure di un’«etica della responsabilità». Ciò non significa che l’etica dei principî coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principî. Non si tratta ovviamente di questo. Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima dell’etica dei principî, la quale, formulata in termini religiosi, recita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agire nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. A un sindacalista convinto che agisca in base all’etica dei principî voi potrete mostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’azione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudizio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati tali. Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media degli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giustamente detto Fichte23 — di dare per scontata la loro bontà e perfezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguenze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. Colui che agisce secondo l’etica dei principî si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro principio — per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale — non si spenga. Ravvivarla continuamente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare.

Ma nemmeno così il problema è ancora esaurito. Nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fini «buoni» è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eticamente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o anche alla probabilità, che insorgano altre conseguenze cattive. E nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente pericolosi e le sue possibili conseguenze collaterali.

Per la politica il mezzo decisivo è la violenza, e quanto sia grande la portata della tensione tra il mezzo e il fine da un punto di vista etico lo potete desumere dal fatto, noto a tutti, che i socialisti rivoluzionari (corrente di Zimmerwald)24 già durante la guerra professavano un principio che si potrebbe così formulare: «Se ci trovassimo a dover scegliere tra un anno di guerra ancora e poi la rivoluzione, oppure la pace subito ma senza rivoluzione, noi sceglieremmo ancora qualche anno di guerra!» All’ulteriore domanda: «Che cosa può portare questa rivoluzione?», qualsiasi socialista dotato di una qualche preparazione scientifica avrebbe risposto che non si poteva parlare di un passaggio a un’economia che si potesse definire socialista nel senso da lui inteso, ma che sarebbe sorta una nuova economia borghese, la quale avrebbe potuto soltanto far piazza pulita degli elementi feudali e dei residui dinastici. Dunque, per questo modesto risultato: «Ancora qualche anno di guerra!» Si potrà certo affermare che in questo caso, anche con una assai salda convinzione socialista, si potrebbe respingere il fine che richiede un tale mezzo. E tuttavia nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni forma di socialismo rivoluzionario, le cose stanno esattamente allo stesso modo, ed è naturalmente assai ridicolo quando da questa parte vengono moralmente rimproverati i «politici della forza» del vecchio regime a causa dell’impiego dell’identico mezzo, per quanto possa essere del tutto giustificato il rifiuto dei loro fini.

Qui, in relazione a questo problema della giustificazione dei mezzi attraverso il fine, anche l’etica dei principî sembra in generale destinata al fallimento. Essa, infatti, ha logicamente soltanto la possibilità di respingere ogni agire che faccia uso di mezzi eticamente pericolosi. Logicamente. Nel mondo reale, tuttavia, noi sperimentiamo continuamente che colui il quale agisce in base all’etica dei principî si trasforma improvvisamente nel profeta millenaristico, e che per esempio coloro che hanno appena predicato di opporre «l’amore alla violenza», nell’istante successivo invitano alla violenza — alla violenza ultima, la quale dovrebbe portare all’annientamento di ogni violenza — così come i nostri militari dicevano ai soldati a ogni offensiva: questa sarà l’ultima, porterà la vittoria e poi la pace. Colui che agisce in base all’etica dei principî non tollera l’irrazionalità etica del mondo. Egli è un «razionalista» cosmico-etico. Chi di voi conosce Dostoevskij ricorderà senz’altro l’episodio del Grande Inquisitore, dove il problema è trattato con grande precisione25. Non è possibile mettere d’accordo l’etica dei principî e l’etica della responsabilità oppure decretare eticamente quale fine debba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta in generale una qualche concessione a questo principio.

Il mio collega F. W. Foerster, da me personalmente assai stimato per l’indubbia onestà del suo pensiero, ma da cui dissento nettamente sul piano politico, crede nel suo libro di aggirare la difficoltà con la tesi semplicistica secondo cui dal bene può derivare soltanto il bene e dal male soltanto il male26. Se così fosse, l’intera problematica di cui stiamo discutendo cesserebbe semplicemente di esistere. Ètuttavia sorprendente che 2500 anni dopo le Upaniṣad una tesi siffatta possa essere ancora in qualche modo sostenuta. Non soltanto l’intero corso della storia universale, ma anche ogni esame spregiudicato dell’esperienza quotidiana ci dice esattamente il contrario. Lo sviluppo di tutte le religioni della terra si fonda sul fatto che è vero l’opposto. L’antichissimo problema della teodicea è dato per l’appunto dalla questione di come sia possibile che una potenza che viene presentata al tempo stesso come onnipotente e buona abbia potuto creare un simile mondo irrazionale del dolore immeritato, dell’ingiustizia impunita e della stupidità incorreggibile. O tale potenza non possiede una di quelle due qualità, oppure sono principî completamente diversi di ricompensa e di pena a governare la vita, principî che noi possiamo interpretare metafisicamente oppure che sono destinati a rimanere per sempre inaccessibili alla nostra interpretazione. Questo problema dell’esperienza dell’irrazionalità del mondo ha rappresentato la forza motrice dello sviluppo di tutte le religioni. La dottrina indiana del Karman e il dualismo persiano, il peccato originale, la predestinazione e il Deus absconditus sono tutti il prodotto di questa esperienza. Anche i primi cristiani sapevano molto bene che il mondo è governato da demoni e che chi ha a che fare con la politica — vale a dire con la potenza e con la violenza — stringe un patto con potenze diaboliche e che, per ciò che riguarda il suo agire, non è vero che dal bene può derivare solo il bene e dal male solo il male, ma spesso accade il contrario. Chi non lo vede, è di fatto politicamente immaturo.

L’etica religiosa si è variamente adattata al fatto che noi siamo collocati in diversi ordini di vita, sottoposti a leggi diverse tra loro. Il politeismo greco sacrificava ad Afrodite e a Era, a Dioniso e ad Apollo, e sapeva bene che tali divinità non di rado erano in lotta fra loro. L’ordine di vita induistico faceva di ognuna delle diverse professioni l’oggetto di una legge etica particolare, di un dharma, e le separava l’una dall’altra in caste, fissandole in tal modo in una rigida gerarchia di ranghi dalla quale non vi era alcuna via d’uscita per chi vi fosse nato, se non nella rinascita in una prossima vita, e le poneva così a diverse distanze rispetto ai supremi beni religiosi di salvezza. In tal modo era possibile adattare il dharma di ogni singola casta — dagli asceti e dai brahmani fino ai delinquenti e alle prostitute — in corrispondenza dei caratteri intrinseci propri della singola professione. Tra queste vi erano anche la guerra e la politica. La collocazione della guerra nell’ordinamento complessivo della vita viene definita nella Bhagavadgītā, nel dialogo tra Ḳṛṣṇa e Arjuna. «Compi ciò che è necessario», e cioè l’«opera» che costituisce un dovere secondo il dharma della casta guerriera e le sue regole, oggettivamente necessaria ai fini della guerra: secondo questa fede, ciò non nuoce alla salvezza religiosa, bensì serve a essa. Per il guerriero indiano il paradiso di Indra era da sempre sicuro, nel caso di una morte eroica, come il Walhalla per il guerriero germanico. E tuttavia il primo avrebbe disdegnato il nirvāṇa così come il secondo il paradiso cristiano con i suoi cori angelici. Questa specializzazione dell’etica rese possibile all’etica indiana una trattazione sistematica di quest’arte regia, che fu costruita soltanto in conformità delle leggi proprie della politica, interpretate altresì nella loro forma estrema. Nella letteratura indiana il «machiavellismo» davvero radicale, nel senso popolare di questo termine, è rappresentato in modo classico nell’Arthaśāstra di Kauṭilya27 (di molto anteriore all’era cristiana, probabilmente dell’epoca di Candragupta); al confronto, il Principe di Machiavelli è un testo del tutto innocente. Nell’etica cattolica, a cui il professor Foerster è peraltro vicino, i consilia evangelica rappresentano notoriamente un’etica particolare per coloro che sono dotati del carisma della santità. In questo caso, accanto al monaco, che non può spargere sangue né ricercare il profitto, vi sono il cavaliere devoto e il borghese, ai quali è rispettivamente permesso di fare l’una e l’altra cosa. La relativizzazione dell’etica e il suo inserimento nel corpo di una dottrina della salvezza è meno coerente che in India, anche se tutto ciò poteva e doveva accadere anche secondo i presupposti della fede cristiana. La corruzione del mondo in seguito al peccato originale permetteva in modo relativamente facile di introdurre nell’etica la violenza come strumento di disciplina contro i peccati e gli eretici corruttori di anime. E tuttavia, le pretese acosmiche, e ispirate a una pura etica dei principî del Sermone della Montagna e il diritto naturale religioso su di esse fondato in quanto esigenza assoluta mantennero la loro forza rivoluzionaria e in quasi tutti i tempi di agitazione sociale fecero la loro comparsa con una violenza elementare. Essi diedero vita in particolare alle sette radical-pacifistiche, una delle quali fece in Pennsylvania l’esperimento di una organizzazione statale non- violenta verso l’esterno: un esperimento tragico nel suo sviluppo in quanto i quaccheri, quando scoppiò la guerra d’indipendenza, non poterono prendere le armi per i loro ideali, che quella guerra rappresentava. Al contrario, normalmente il protestantesimo legittimò in modo assoluto lo stato, e dunque il mezzo della violenza, in quanto istituzione divina, e in particolare lo stato autoritario legittimo. Lutero tolse al singolo la responsabilità morale della guerra addossandola all’autorità, alla quale, in materie che non siano di fede, si può ubbidire senza cadere nel peccato. Il calvinismo, a sua volta, riconobbe in via di principio la violenza come mezzo per difendere la fede e dunque la guerra di religione, che nell’Islam fu sin dal principio un elemento vitale. Come si vede, non è affatto la moderna irreligiosità sorta dal culto degli eroi del Rinascimento che ha posto il problema dell’etica politica. Tutte le religioni si sono affannosamente interrogate su questo problema con risultati assai diversi, né poteva essere altrimenti in base a ciò che si è detto. Il mezzo specifico della violenza legittima, semplicemente in quanto tale, nelle mani dei gruppi umani, è ciò che determina la peculiarità di tutti i problemi etici della politica.

Chiunque scenda a patti con questo mezzo per qualsivoglia scopo — come si trova a fare ogni uomo politico — è esposto alle sue specifiche conseguenze. Ciò accade soprattutto a chi combatte per una fede, religiosa o rivoluzionaria che sia. Prendiamo serenamente a esempio l’epoca attuale. Chi vuole instaurare con la violenza la giustizia assoluta sulla terra ha bisogno per questo di un seguito, vale a dire di un «apparato» di uomini. A tale apparato egli deve prospettare i necessari premi interiori ed esteriori — una ricompensa celeste o terrena –, altrimenti esso cessa di funzionare. Interiori: nel contesto della moderna lotta di classe, il soddisfacimento dell’odio e della sete di vendetta, e soprattutto del risentimento e del bisogno della propria affermazione pseudo-etica, e dunque del bisogno di calunniare e infamare l’avversario. Esteriori: avventura, vittoria, bottino, potenza e benefici. Ai fini del proprio successo il capo dipende completamente dal funzionamento di questo suo apparato. E quindi anche dai moventi di quest’ultimo, e non soltanto dai propri. E dunque, ancora, dal fatto che al suo seguito — le guardie rosse, le spie, gli agitatori di cui egli ha bisogno — possano essere garantiti in modo durevole quei premi. Ciò che egli di fatto realizza in tali condizioni non dipende pertanto dal suo volere, ma gli è piuttosto prescritto da quei moventi dell’agire del suo seguito, per lo più eticamente meschini, i quali possono essere tenuti sotto controllo soltanto fino a che una fede sincera nella sua persona e nella sua causa animi perlomeno una parte dei suoi compagni (non si tratterà mai della maggioranza di essi). Ma non soltanto questa fede, anche quando è soggettivamente sincera, è in verità in gran parte dei casi solamente la «legittimazione» etica della sete di vendetta, di potenza, di bottino e di benefici — su questo non facciamoci ingannare, poiché anche l’interpretazione materialistica della storia non è una carrozza da utilizzare a piacere, ed essa non si ferma nemmeno di fronte ai rappresentanti delle rivoluzioni! Soprattutto, quando la realtà quotidiana tradizionale riprende il sopravvento dopo la rivoluzione emozionale, l’eroe della fede e in special modo la fede stessa spariscono oppure — ciò che ha effetti ancor più rilevanti — diventano parte costitutiva della fraseologia convenzionale dei filistei e dei tecnici della politica. Questo sviluppo si compie in modo particolarmente rapido proprio nel caso della lotta per una fede, poiché essa di solito viene guidata o ispirata da capi autentici, i profeti della rivoluzione. Infatti, come accade in ogni apparato in funzione di un capo, anche in questo caso lo svuotamento e la spersonalizzazione, la proletarizzazione spirituale nell’interesse della «disciplina» costituisce una delle condizioni del successo. Il seguito di un combattente della fede, una volta giunto al potere, è perciò solito degenerare molto facilmente in uno strato del tutto mediocre di beneficiari.

Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. I grandi virtuosi dell’amore acosmico per l’uomo e del bene — provengano essi da Nazareth, da Assisi o dai palazzi reali indiani — non hanno operato con il mezzo politico della violenza, il loro regno «non era di questo mondo»28, e tuttavia agirono e agiscono in questo mondo, e le figure di Platon Karataev29 e dei santi dostoevskiani sono pur sempre quelle che si adattano meglio a tali modelli. Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile. Ciò era ben noto agli uomini anche all’epoca del potere temporale della chiesa. Firenze veniva di continuo colpita dall’interdetto — che rappresentava allora per gli uomini e per la salvezza della loro anima una potenza assai più concreta della «fredda approvazione» (con le parole di Fichte)30 del giudizio morale kantiano — e tuttavia i cittadini combattevano contro lo Stato della Chiesa. E in rapporto a tali situazioni, Machiavelli — se non erro, in un bel passo delle Storie fiorentine 31 — fa lodare da uno dei suoi eroi quei cittadini per i quali la grandezza della propria città era più importante della salvezza della propria anima.

Se invece di città natale o «patria» — ciò che al momento può non costituire per ognuno un valore univoco — voi dite «il futuro del socialismo» o anche della «pacificazione internazionale», allora avrete formulato il problema nel modo in cui attualmente si pone. E infatti, tutto ciò a cui si aspira mediante l’agire politico, che opera con mezzi violenti e sul terreno dell’etica della responsabilità, mette in pericolo la «salvezza dell’anima». Se però si persegue tale salvezza con una pura etica dei principî in una guerra di fedi, allora essa può patire seri danni e cadere in discredito per generazioni, poiché manca la responsabilità per le conseguenze. In questo caso, infatti, a colui che agisce rimangono ignote quelle potenze diaboliche che entrano in gioco. Esse sono spietate e producono, per il suo agire e anche per lui stesso dal punto di vista interiore, conseguenze alle quali egli è abbandonato senza difese se non le percepisce con chiarezza. «Il diavolo non è nato ieri». E non fa riferimento agli anni o all’età la frase: «Bisogna diventare vecchi per capirlo»32. Anch’io non ho mai sopportato di essere sopraffatto in una discussione in virtù della data del mio certificato di nascita; ma il semplice fatto che uno abbia vent’anni e io più di cinquanta, in ultima analisi non può spingermi a pensare che questa sia una circostanza di fronte alla quale dovrei piegarmi in profonda reverenza. Non è importante l’età. Quanto piuttosto l’occhio addestrato a percepire senza pregiudizi le realtà della vita, e la capacità di sopportarle e di essere interiormente alla loro altezza.

In verità: la politica viene fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto. In ciò coloro che agiscono in base all’etica dei principî hanno pienamente ragione. Ma se si debba agire in base all’etica dei principî o all’etica della responsabilità, e quando in base all’una o all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo. Si può dire soltanto una cosa: se adesso, in questi tempi (come voi pensate) di non «sterile» agitazione — ma l’agitazione non è sempre del tutto genuina passione — se adesso improvvisamente i politici che agiscono in base all’etica dei principî si presentassero in massa con la parola d’ordine: «Non io, ma il mondo è stupido e mediocre, la responsabilità per le conseguenze non riguarda la mia persona, ma gli altri, al cui servizio io lavoro, e la cui stupidità o volgarità io sradicherò», io dico allora apertamente che in primo luogo vorrei interrogarmi sulla sostanza interiore che sta dietro questa etica dei principî. Ho la sensazione che in nove casi su dieci mi troverei di fronte a degli spacconi che non sentono realmente ciò che assumono su di sé, ma si inebriano di sensazioni romantiche. Ciò non mi interessa molto dal punto di vista umano e mi lascia del tutto indifferente. Suscita invece un’enorme impressione sentir dire da un uomo maturo — non importa se vecchio o giovane anagraficamente — il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: «Non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo»33. Questo è un atteggiamento umanamente sincero e che commuove. E infatti una tale situazione deve certamente potersi verificare una volta o l’altra per chiunque di noi non sia privo di una propria vita interiore. Pertanto l’etica dei principî e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la «vocazione per la politica».

Dunque, egregi ascoltatori, su questo punto vorrei tornare nuovamente a parlare con voi tra dieci anni. Se allora, come purtroppo devo temere per tutta una serie di motivi, sarà sopravvenuta da lungo tempo l’epoca della reazione; se di ciò che certamente molti di voi e anch’io, come dichiaro apertamente, abbiamo desiderato e sperato, si sarà realizzato poco, forse non proprio nulla, ma almeno apparentemente qualcosa — è assai probabile che ciò non mi lascerà affranto, ma saperlo costituisce certamente un peso interiore — allora mi piacerebbe davvero vedere che cosa ne è stato di quelli di voi che adesso si sentono autentici «politici che agiscono in base a principî» e partecipano all’ubriacatura che questa rivoluzione rappresenta. Vorrei davvero vedere che cosa è «divenuto» di costoro nel senso interiore della parola. Sarebbe di certo bello se si potesse allora dire con i versi del sonetto 102 di Shakespeare:

Il nostro amore era giovane, appena nella sua primavera, allor ch’io solevo salutarlo co’ miei canti, simile a Filomena che in sul cominciar dell’estate canta ma tace al sopraggiungere della stagione inoltrata.

Ma le cose non stanno così. Non abbiamo davanti a noi la fioritura dell’estate, ma in primo luogo una notte polare di gelida tenebra e di stenti, quale che sia il gruppo che ora risulterà esteriormente vittorioso. E infatti, dove vi è il nulla, non soltanto l’imperatore ma anche il proletario ha perduto i suoi diritti. Quando questa notte sarà lentamente trascorsa chi sarà ancora vivo di coloro la cui primavera ha ora avuto una fioritura apparentemente così rigogliosa? E che cosa sarà allora divenuto interiormente di tutti loro? Amarezza o filisteismo, una semplice e ottusa accettazione del mondo e della professione, oppure — terza ipotesi e non la più rara — fuga mistica dal mondo per coloro i quali ne hanno il dono oppure — spesso e peggio — per coloro che vi si dedicano per seguire la moda? In ognuno di questi casi io trarrò questa conseguenza: costoro non sono stati all’altezza del proprio agire, non sono stati all’altezza nemmeno del mondo quale è realmente né della sua quotidianità: non hanno avuto, oggettivamente e di fatto, nel senso più intimo, la vocazione per la politica che ritenevano invece di avere in se stessi. Essi avrebbero fatto meglio a prendersi cura schiettamente e semplicemente della fratellanza da uomo a uomo, e per il resto a operare in modo del tutto concreto nel proprio lavoro quotidiano.

La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche — in un senso assai poco enfatico della parola — un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica.

Note

1 Weber si riferisce qui a una dichiarazione fatta da Trockij in qualità di capo della delegazione russa alle trattative di pace di Brest- Litowsk, così come fu riportata dal «Frankfurter Zeitung» del 17 gennaio 1918 [N. d. T.].

2 La citazione è tratta da F. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra, IV, in Werk e, Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/I, W. de Gruyter, Berlin — New York 1968, p. 291 [trad. it. di M. Montinari, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI/I, Adelphi, Milano 1968, p. 287] [N. d. T.].

3 Max Weber si riferisce qui con ogni probabilità all’analisi marxiana. Cfr. K. MARX, Das Kapital. Kritik der politischen Ök onomie, Otto Meissner, Hamburg 1903, vol. I, p. 680 [trad. it. Il Capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 778] [N.d.T.].

4Il riferimento è nuovamente a Marx, al celebre passo del Libro I del Capitale in cui viene pronosticata «l’ultima ora della proprietà privata capitalistica» e «l’espropriazione degli espropriatori». Cfr. K. M ARX, Das Kapital, vol. I cit., p. 728 [trad. it. cit., vol. I, p. 826] [N. d. T.].

5 Weber si riferisce qui a Massimiliano I d’Asburgo (1459–1519), che fu imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 al 1519 [N. d. T.].

6 Robert von Puttkamer (1828–1900) fu ministro degli Interni in Prussia dal 1881 al 1888. Il decreto cui Weber fa riferimento fu emanato il 4 gennaio 1882 [N. d. T.].

7 Friedrich Theodor Althoff (1839–1908) fu uno dei massimi dirigenti del ministero della Cultura prussiano tra il 1882 e il 1907, ed esercitò un ruolo decisivo nella riforma del sistema scolastico e universitario in Prussia e in Germania [N. d. T.].

8 Il riferimento è a TACITO, Annales, 1, 1 [N. d. T.].

9 Alfred Charles William Harmsworth, barone Northcliffe (1905) e poi visconte (1917), fondò e acquistò numerosi giornali, tra cui il «Times», dando così vita a uno dei più influenti gruppi editoriali europei dell’inizio del secolo XX. Fu sostenitore e consigliere di Lloyd George, a cui fornì il proprio appoggio durante il primo conflitto mondiale [N. d. T.].

10 Polizia segreta russa, fondata nel 1881 [N. d. T.].

11 La Tammany-Hall era il quartier generale della Tammany Society, un’associazione politica che controllava il Partito democratico a New York. Weber aveva presente in proposito soprattutto le acute osservazioni di J. BRYCE, The American Commonwealth, Macmillan, London 1888 [trad. it. La repubblica americana, Utet, Torino 1913–16] [N. d. T.].

12 Weber si riferisce qui con ogni probabilità a R. M ICHELS, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demok ratie.

Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Dr. Werner Klinkhardt, Leipzig 1911 [trad. it. La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, il Mulino, Bologna 1966] [N. d. T.].

13 Cfr. M . OSTROGORSKI, Democracy and the Organization of Political Parties, Macmillan, London 1902 [trad. it. Democrazia e partiti politici, Rusconi, Milano 1991] [N. d. T.].

14 Weber si riferisce qui a Francis Schnadhorst, a lungo collaboratore di Joseph Chamberlain [N. d. T.].

15 Giudice di pace (Justice of the Peace) o membro del Parlamento (Member of Parliament) [N. d. T.].

16 Weber si riferisce qui al fatto che August Bebel (1840–1913) fu più volte messo in carcere per le sue convinzioni politiche [N. d. T.].

17 Il riferimento è a Karl Liebknecht (1871–1919) e a Rosa Luxemburg (1870–1919), i quali nel dicembre del 1918 avevano fondato il Partito comunista tedesco [N. d. T.].

18 Weber si riferisce a G. SIM M EL, Der Begriff und die Tragödie der Kultur, in ID., Philosophische Kultur. Gesammelte Essais,

Verlag von Klinkhardt und Biermann, Leipzig 1911, p. 267 [trad. it. di M. Monaldi, con il titolo Saggi di cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985, p. 211] [N. d. T.].

19 Matteo, 26, 52 [N. d. T.].

20 L’immagine è tratta da A. SCHOPENHAUER, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, in Arthur Schopenhauer’s sämmtliche Werk e, vol. I, F. A. Brockhaus, Leipzig 1891, p. 38 [trad. it. di E. Amendola Kühn, con il titolo La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Boringhieri, Torino 1959, p. 73] [N. d. T.].

21 Matteo, 19, 22 [N. d. T.].

22 Matteo, 5, 39 [N. d. T.].

23 Cfr. J. G. FICHTE, Über Machiavelli, als Schriftsteller, und Stellen aus seinen Schriften, in Johann Gottlieb Fichtes nachgelassene Werk e, vol. III, Adolpf-Markus, Bonn 1835, p. 420 [N. d. T.].

24 Weber si riferisce al gruppo dei socialisti rivoluzionari radicali che, in occasione della Conferenza internazionale di Zimmerwald (vicino Berna), del 5–8 settembre 1915, si diedero un programma comune di opposizione alla guerra [N. d. T.].

25 Il riferimento è ai Fratelli Karamazov [N. d. T.].

26 Cfr. F. W. FOERSTER, Politische Ethik und politische Pädagogik . Mit besonderer Berück sichtigung der k ommenden deutschen Aufgaben, Ernst Reinhardt, München 1918 [N. d. T.].

27 L’Arthaśāstra è un manuale dell’arte di governo che la tradizione indiana attribuisce a un ministro di nome Kauṭilya. La sua redazione finale risale al III secolo d.C. [N. d. T.].

28 Giovanni, 18, 36 [N. d. T.].

29 Personaggio del romanzo di L. TOLSTOJ, Guerra e pace [N. d. T.].

30 J. G. FICHTE, Das System der Sittenlehre nach den Principien der Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe, a cura della Bayerische Akademie der Wissenschaften, vol. I/V, Werk e 1798–1799, F. Frommann Verlag, Stuttgart — Bad Cannstatt 1977, p. 156 [trad. it di R. Cantoni, con il titolo Il sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza, a cura di C. De Pascale, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 154] [N. d. T.].

31 N. M ACHIAVELLI, Storie fiorentine, 1520–25 [N. d. T.].

32 Cfr. W. GOETHE, Faust, parte II, vv. 6817–18 [N. d. T.].

33 Il riferimento è alle parole che, secondo una tradizione peraltro contestata, Lutero pronunciò a conclusione del suo discorso alla Dieta di Worms nell’aprile del 1521 [N. d. T.].

Max Weber (Erfurt 1864 — Monaco 1920) è una figura centrale della cultura tedesca tra Ottocento e Novecento. Formatosi nell’ambiente accademico berlinese dell’età bismarckiana, insegnò Economia politica a Friburgo e poi a Heidelberg; dal 1904 e diresse, insieme a Werner Sombart e Edgard Jaffé, l’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik». Partecipò negli anni Novanta alla ricerca del Verein für Sozialpolitik sulle condizioni di vita dei contadini tedeschi, e all’inizio del secolo alla costituzione della Deutsche Gesellschaft für Soziologie. Dopo la Prima guerra mondiale prese parte alla fondazione del Partito democratico tedesco e contribuì alla redazione della costituzione della repubblica di Weimar. Negli ultimi anni tornò a insegnare, prima a Vienna e poi a Monaco. Tra le sue opere principali, tutte tradotte in italiano, ricordiamo Economia e società (1961), la Sociologia della religione (1982), La scienza come professione. La politica come professione (2001) e Storia economica (2003).

Titolo originale Politik als Beruf.
Edizione italiana a cura di © Edizioni di Comunità, Torino, 2001
Traduzione dal tedesco di Francesco Tuccari

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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