La perpetuità dell’Unione
Il primo discorso inaugurale di Lincoln (4 marzo 1861)
Abramo Lincoln fu eletto candidato alla Presidenza nel congresso del partito repubblicano, tenuto a Chicago il 18 maggio 1860, non tanto perché la sua personalità si fosse già nettamente imposta, quanto perché le sue umili origini e la sua diffusa popolarità facevano sperare che potesse riscuotere larghi suffragi negli strati più umili della popolazione.
Il congresso del partito democratico adunatosi a Charleston si scisse sulla questione della schiavitù: trasferito a Baltimora, la maggioranza elesse candidato il senatore Stephen A. Douglas, mentre i delegati degli stati cotonieri in un loro separato convegno avanzarono la candidatura del vicepresidente in carica John C. Breckinridge, con un programma estremistico in senso schiavista.
Infine un nuovo partito, l’Unione Nazionale Costituzionale, propose la candidatura del senatore Bell, con un vago programma di conciliazione, che si imperniava sulla dichiarazione di non professare «alcun principio politico all’infuori della Costituzione del paese, l’Unione degli Stati e l’applicazione delle leggi».
Nelle successive elezioni Lincoln ebbe 1.866.432 voti, Douglas 1.375.197, Breckinridge 845.763 e Bell 589.586. Lincoln aveva ottenuto cioè meno del 50 % dei voti: ma ciò significò la conquista di 180 dei 303 voti elettorali ai quali la Costituzione americana demandava l’elezione del Presidente.
Decisivo, per la vittoria di Lincoln, fu l’appoggio dei lavoratori del Nord, e in particolare la conquista delle vecchie roccaforti democratiche del Nord-Ovest e di New York. Egli non ebbe alcun voto elettorale negli Stati cotonieri del Sud, che andarono invece compatti a Breckinridge.
L’insediamento di Lincoln non poteva aver luogo prima del 4 marzo 1861 e nel frattempo il Presidente in carica, il democratico Buchanan, non prese nessuna misura efficace per fronteggiare il disgregamento dell’Unione seguito all’elezione di Lincoln. Appena fu noto l’esito delle elezioni, infatti, la Carolina del Sud indisse una convenzione dello Stato che il 20 dicembre 1860 dichiarò sciolto il suo legame con gli altri Stati dell’Unione.
Il suo esempio per il 1° febbraio 1861 era già stato seguito dalla Georgia, Alabama, Florida, Mississippi, Louisiana e Texas. L’8 febbraio i delegati degli Stati secessionisti formavano una nuova unione, gli Stati Confederati d’America. I motivi della secessione sono chiaramente espressi nelle dichiarazioni delle convenzioni degli Stati che vi avevano aderito: secondo quella del Mississippi, «la gente degli Stati del Nord ha assunto una posizione rivoluzionaria verso gli Stati del Sud»; «ha adescato i nostri schiavi affinché si allontanassero da noi»; ha «insultato e oltraggiato i nostri cittadini quando viaggiavano nei suoi Stati… prendendo i loro servi e liberandoli»; e, aggiungeva la convenzione della Carolina del Sud, la popolazione degli Stati del Nord «è stata unanime nell’eleggere all’alta carica di Presidente degli Stati Uniti un uomo le cui opinioni e i cui scopi sono ostili allo schiavismo».
In realtà, si può sostenere che Lincoln «non fu mai davvero abolizionista», e che non pensò mai a una piena equiparazione dei negri ai bianchi, neppure sul piano dei rapporti di lavoro. Ma egli fu tuttavia persuaso che la Costituzione americana andava intesa e sviluppata nel senso di un sempre più largo consolidamento della democrazia individuale, in un senso, cioè, sempre più largamente liberale: e questo concetto, che doveva avere enorme importanza nel consentire l’assorbimento delle grandi masse di immigrati dei decenni successivi, insieme con la difesa dell’Unione, domina il discorso pronunciato da Lincoln all’atto del suo insediamento, e di cui qui si riportano larghi stralci.
Il testo inglese è da vedere nella edizione completa delle opere a cura di R. P. Basler, New Brunswick, 1953-55, voll. 9: se ne dà qui la traduzione italiana di Claudio Gorlier, nel volume II pensiero politico nell’età di Lincoln, Bologna, Il Mulino, 1962, pp. 120-128. Per l’inquadramento storico cfr. L. M. Hacker, The Shaping of the American Tradition [La formazione della tradizione americana], cit., p. 579 sgg.; e spec. Morison e Commager, Storia degli Stati Uniti, cit., vol. 1, p. 880 sgg., dal quale è in buona parte derivata questa nota. Cfr. anche l’introduzione del Gorlier al vol. Il pensiero politico nell’età di Lincoln e, ora, C. Sandburg, Abramo Lincoln, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1965.
Io presto oggi il giuramento ufficiale senza alcuna riserva mentale, senza alcun intento di interpretare la Costituzione o le leggi con norme ipercritiche. E mentre per ora non intendo specificare quali leggi del congresso debbano essere applicate, suggerisco che sarà molto più sicuro per tutti, pubbliche o private che siano le sue funzioni, conformarsi e vivere secondo tutte quelle leggi che rimangono in vigore, piuttosto che violarne qualcuna, confidando di trovare impunità per il solo fatto di averla trovata incostituzionale.
Sono passati 72 anni dal primo insediamento di un Presidente secondo la nostra Costituzione Nazionale. Durante questo periodo, quindici diversi e illustri cittadini hanno uno dopo l’altro amministrato il potere esecutivo del Governo. Lo hanno guidato attraverso innumerevoli pericoli e generalmente con grande successo. Tuttavia, con questi precedenti, io ora mi addosso lo stesso compito; per il breve termine costituzionale di quattro anni, sotto gravi e particolari difficoltà. La rottura della Unione Federale, finora soltanto minacciata, viene ora tentata con tutti i mezzi.
Io ritengo che, al cospetto della legge universale e di quella della costituzione, l’unione di questi Stati è perpetua. La durata eterna è implicita, anche se non espressa, nella legge fondamentale di tutti i governi nazionali. Si può con sicurezza asserire che nessun governo degno di tal nome ebbe mai, nel suo corpo legislativo, una legge tale da condurlo al termine.
Continuate ad eseguire le leggi contenute nella nostra Costituzione Nazionale e l’Unione durerà per sempre, essendo impossibile distruggerla a meno di qualche azione non prevista nell’ordinamento stesso.
Inoltre, se gli Stati Uniti non sono un vero e proprio organismo politico, ma semplicemente un’associazione di Stati sotto forma di un contratto, può questo contratto, essere tranquillamente disfatto se non da tutti gli Stati che lo crearono? Uno dei contraenti può violare il contratto, romperlo, per così dire; ma non si richiede l’unanimità per rescinderlo legalmente?
Procedendo da questi principi generali, noi troviamo che l’affermazione che, da un punto di vista legale, l’Unione è perpetua, viene confermata dalla storia dell’Unione stessa. L’Unione è molto più antica della Costituzione. Fu costituita infatti sugli articoli di Associazione nel 1744. Maturò e progredì con la Dichiarazione di Indipendenza del 1776. Maturò ulteriormente; e ne fan fede i 13 Stati di allora, vincolati e impegnati a che essa dovesse essere perpetua, secondo gli articoli della Confederazione nel 1778. E finalmente nel 1787, uno degli scopi dichiarati per ordinare e stabilire la Costituzione fu di «formare una Unione più perfetta».
Ma se la distruzione dell’Unione, per opera di uno o più Stati, fosse legalmente possibile, l’Unione sarebbe meno perfetta che prima della Costituzione, avendo perso l’elemento vitale della durata.
Si deduce, da questi punti di vista, che nessuno Stato può, per sua semplice decisione, uscire legalmente dall’Unione; che risoluzioni e ordinanze stabilite a tal fine sono prive di valore legale; che atti di violenza, all’interno di uno Stato o degli Stati, contro l’autorità degli Stati Uniti sono insurrezionali e rivoluzionari, a seconda delle circostanze.
Perciò io considero che alla luce della Costituzione e delle leggi, l’Unione è sicura; e nei limiti della mia capacità prenderò cura, come la Costituzione stessa strettamente richiede da me, che le leggi dell’Unione siano fedelmente rispettate in tutti gli Stati. Fare questo, ritengo sia unicamente un dovere che mi spetta; ed io lo adempirò per quanto mi è possibile, a meno che il mio giusto padrone, il Popolo americano, rifiuti i mezzi occorrenti, o in forma autorevole, si dichiari contrario. Sono sicuro che ciò non sarà considerato come una minaccia ma soltanto come un proposito dichiarato dall’Unione, inteso a difendere e a mantenere costituzionalmente la stessa.
Nel fare questo, occorre che non ci sia alcuna violenza o spargimento di sangue, e non ve ne saranno, a meno che ciò non sia richiesto per difendere l’autorità nazionale. Il potere affidatomi sarà usato per preservare, occupare e riaffermare il possesso della proprietà e dei luoghi che appartengono al Governo, e per esigere le tasse e imposte dovute; ma oltre a ciò che può essere necessario per tali incombenze, non vi sarà alcuna invasione, alcun uso della forza contro o tra il popolo, in nessun luogo.
Dove l’ostilità agli Stati Uniti, in qualsiasi regione, sarà così grande e generale da impedire ai cittadini competenti colà residenti di conservare gli uffici federali, non ci sarà alcun tentativo di introdurre a forza tra il popolo estranei ostili, per quelle incombenze. Mentre può esistere da parte del Governo il rigido diritto legale di far rispettare l’esercizio di questi uffici il tentativo di agire così sarebbe talmente irritante, e dopo tutto pratica- mente impossibile, ch’io penso sarebbe meglio rinunziare per ora all’esercizio dei medesimi.
I corrieri, a meno che non siano respinti, continueranno a essere inviati a tutte le parti dell’Unione. Per quanto sarà possibile, la gente ovunque avrà quel senso di perfetta sicurezza che è il più favorevole alla calma riflessione del pensiero. La strada qui indicata sarà seguita, a meno che avvenimenti od esperienze successive mostrino più adatta una modifica o una svolta, e in ogni caso o esigenza eserciterò la più assoluta discrezione a seconda delle diverse circostanze, con la mira e la speranza di una pacifica soluzione dei problemi nazionali e il ristabilimento di affetti e simpatie fraterne.
Che vi siano persone da una parte o dall’altra le quali cercano di distruggere a tutti i costi l’Unione, e che sono liete di ogni pretesto per farlo, io non intendo affermarlo o negarlo; ma se ci sono, non occorre ch’io indirizzi loro alcuna parola. A coloro tuttavia che realmente amano l’Unione, come posso io non parlare?
Prima di intraprendere un così grave gesto qual è quello di voler distrutto il nostro edificio nazionale, con tutti i suoi benefici, le sue memorie e le sue speranze, non sarebbe saggio stabilire con esattezza perché farlo? Vorreste azzardarvi ad un passo così disperato quando forse taluni aspetti dei mali da cui fuggite non esistono affatto? Dal momento che certi mali verso cui correte sono più grandi di quelli da cui fuggite, rischierete di commettere un così pauroso errore?
Tutti si dichiarano sodisfatti nell’Unione se tutti i diritti costituzionali possono venir mantenuti. È vero allora che qualche diritto, chiaramente stabilito nella Costituzione è stato messo in dubbio? Non ci credo. Fortunatamente la ragione umana è così fatta che nessun individuo può giungere a tale audacia. Pensate, se potete, ad un solo caso in cui una legge manifestamente redatta nella Costituzione sia mai stata posta in dubbio. Se per la pura forza del numero una maggioranza dovesse privare una minoranza di un diritto costituzionale qualsiasi, ciò potrebbe, da un punto di vista morale, giustificare la rivoluzione, certamente la giustificherebbe se un tale diritto fosse tra i più vitali. Ma questo non è il nostro caso.
Tutti i diritti vitali delle minoranze e degli individui sono così espressamente assicurati da affermazioni e negazioni, da garanzie e divieti, nella Costituzione, che non sorgono mai controversie in proposito. Ma nessuna legge organica si può formulare con una disposizione che sia specificatamente applicabile ad ogni problema che possa sorgere nella pratica dell’amministrazione. Nessuna preveggenza può anticipare, né alcun documento di ragionevole estensione contenere, provvedimenti specifici per ogni possibile questione.
I fuggiaschi dal lavoro devono essere consegnati all’autorità statale o nazionale? La Costituzione non si esprime espressamente. Il congresso può proibire la schiavitù nei territori? La Costituzione non lo dice espressamente. Il Congresso deve proteggere la schiavitù nei territori? La Costituzione non lo dice espressamente.
Da interrogativi di questo genere nascono tutte le nostre controversie costituzionali e noi, nei loro confronti, ci dividiamo in maggioranze e minoranze. Se la minoranza non si sottomette, lo deve la maggioranza, o il governo deve venir meno. Non v’è alternativa. Per continuare, il governo deve consentire all’una o all’altra parte.
Se una minoranza, in tal caso, si separerà, piuttosto che sottomettersi, ciò causerà un precedente che a sua volta la dividerà e manderà in rovina; perché a sua volta una minoranza si separerà nel suo interno dagli estremisti, qualora la maggioranza rifiuti di essere controllata dalla minoranza. Per esempio, perché una parte qualsiasi di una nuova federazione non può di lì a uno o due anni, arbitrariamente far parte di nuovo a sé, precisamente come oggi parti dell’Unione tendono a fare? Tutti coloro che accarezzano sentimenti anti-unitari si stanno formando un’indole che corrisponde a quest’inclinazione.
C’è una tale perfetta identità di interessi tra gli stati, da formare una nuova Unione, da produrre unicamente armonia, e da impedire il rinnovarsi di secessioni?
In altri termini il principio fondamentale della secessione è l’essenza dell’anarchia. Una maggioranza limitata da barriere e freni costituzionali e che cambia sempre con facilità a seconda dei deliberati mutamenti dell’opinione e del sentimento popolare, è l’unico vero sovrano di un popolo libero.
Chiunque non lo accetta, incorre necessariamente nell’anarchia o nel dispotismo. L’unanimità è impossibile; il governo di una minoranza come disposizione permanente è del tutto inammissibile; cosicché, rigettando il principio della maggioranza, tutto ciò che rimane, in certo modo, è anarchia o dispotismo…
Una parte del nostro Paese, pensa che sia giusta la schiavitù e la vorrebbe estesa, mentre l’altra parte la crede ingiusta ed estesa non la vorrebbe. Questa è l’unica disputa sostanziale. La clausola degli schiavi fuggitivi contenuta nella Costituzione e la legge per la soppressione del commercio estero negriero, sono ambedue tanto bene applicate forse come ogni legge potrebbe mai esserlo in una comunità dove il senso morale del popolo sostiene imperfettamente la legge stessa.
La gran massa del popolo rimane fedele al puro e semplice obbligo legale in ambedue i casi, ed una minoranza viola entrambi. Io penso che ciò non si possa del tutto curare; e lo sarebbe ancora meno in entrambi i casi, dopo la separazione delle parti. Il commercio estero dei negri, ora imperfettamente soppresso, rivivrebbe indefinitivamente, senza restrizione, da una parte, mentre gli schiavi fuggiaschi, ora soltanto in parte consegnati, non lo sarebbero più del tutto dall’altra.
Fisicamente parlando, noi non ci possiamo separare. Noi non possiamo allontanare le nostre rispettive parti l’una dall’altra, né costruire fra di loro un muro invalicabile. Marito e moglie possono divorziare, e l’uno allontanarsi dalla vista dell’altra; ma le diverse parti del nostro paese non possono farlo. Esse non possono che rimanere di fronte e comunicare sia in forma amichevole che ostile di continuo fra loro.
È possibile, allora, rendere quella comunicazione più vantaggiosa o più sodisfacente di prima, dopo la separazione? Possono degli estranei stipulare trattati più favorevoli delle leggi tra amici? Possono i trattati essere più fedelmente rispettati tra gli estranei di quanto le leggi lo possano tra amici? Supponete di ricorrere alla guerra; voi non potrete combattere sempre; e quando dopo molte perdite e nessun guadagno da ambedue le parti, voi cesserete di combattere, le antiche questioni circa i termini della comunicazione saranno di nuovo, tali e quali, sulle vostre spalle.
Questo paese, con le sue istituzioni, appartiene al popolo che lo abita. Qualora esso si stanchi del governo esistente, potrà esercitare il suo diritto costituzionale di emendarlo, il suo diritto rivoluzionario di smembrarlo e distruggerlo. Non posso ignorare il fatto che molti cittadini degni e patriottici desiderano che la Costituzione Nazionale venga emendata. Pur non facendo alcuna promessa di revisione, riconosco pienamente che l’autorità sovrana del popolo riguardo all’intero problema può essere esercitata in uno o l’altro dei modi prescritti nel documento stesso; ed io dovrei nelle presenti circostanze, favorire piuttosto che ostacolare il fatto che il popolo abbia a sua disposizione una così bella opportunità di intervenire su quel documento.
Oso aggiungere che a me la forma della convenzione sembra preferibile, in quanto permette che gli emendamenti promanino dal popolo stesso, anziché permettergli soltanto di accettare o di respingere proposizioni derivate da altre non propriamente scelte per lo scopo, e che potrebbero essere non precisamente tali da provocare, da parte del popolo, accettazione o rifiuto. Capisco, che una deliberata correzione della Costituzione — quale, comunque, io non la vedo — ha avuto l’approvazione del Congresso al punto che il governo federale non si ingerirà mai nelle istituzioni nazionali degli Stati, compresa quella delle persone tenute a servizio.
Per evitare un’interpretazione erronea di quanto ho detto, mi allontano per un attimo dal proposito che avevo formulato di non parlare di riforme particolari, unicamente per dire che, tenendo per certo che una tale disposizione sia per ora implicitamente legge costituzionale, io non ho alcuna obiezione che sia resa esplicita ed irrevocabile.
Il primo magistrato deriva tutta la sua autorità dal popolo e il popolo non gliene ha affidata alcuna in termini fissi per la separazione degli Stati. Il popolo stesso può fare anche questo se così crede; ma il potere esecutivo, come tale, con ciò non ha nulla a che fare. Il suo dovere è di amministrare la presente norma di governo così come è pervenuta nelle sue mani e di trasmetterla inalterata al suo successore.
Concittadini, ciascuno di voi pensi con calma e rifletta sull’intera faccenda. Nulla di prezioso può andar perso, se prendiamo tempo. Se ci fosse un motivo tale da spingere in tutta fretta qualcuno di voi a un passo che, deliberatamente non prendereste mai, quel motivo verrà annullato prendendo tempo; ma nessuna buona ragione può essere annullata da ciò. Alcuni di voi, scontenti come ora sono, considerano ancora inalterata la vecchia Costituzione; e a proposito del punto dolente, nel suo seno stanno le leggi che voi avete formulato; mentre la nuova amministrazione non avrà alcun potere immediato, anche se lo volesse, di cambiare l’una o l’altra cosa.
Se voi dichiaraste che non siete sodisfatti, che nella disputa occupate il posto giusto, non sarebbe questa ancora una buona ragione per precipitare l’azione. L’intelligenza, il patriottismo il cristianesimo ed una ferma sicurezza in Colui che non ha mai abbandonato questa terra benedetta, sono ragioni tuttora sufficienti al comporre nel migliore dei modi tutte le nostre presenti difficoltà.
Fratelli miei insodisfatti, nelle vostre mani, e non nelle mie, sta il grave problema della guerra civile. Il governo non vi attaccherà. Voi non avrete alcuna battaglia, se non quella in cui voi stessi sarete gli aggressori. Voi non avete fatto alcun giuramento, registrato nei Cieli, di distruggere il governo, io invece dovrò mantenere il mio più solenne di «preservarlo, proteggerlo e difenderlo».
Devo concludere. Noi non siamo nemici, ma fratelli. Noi non dobbiamo essere nemici. Se la passione può essersi acuita, ciò non deve spezzare i nostri vincoli di affetto. I mistici accordi della memoria, spiegandosi da tutti i campi di battaglia, da tutte le tombe dei patrioti verso ogni cuore vivo, verso ogni focolare in tutta questa nostra vasta terra, animeranno ancora il coro dell’Unione, quando di nuovo esso sarà intonato, come sicuramente lo sarà, dai più nobili angeli della nostra natura.
Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.