La mutilazione sacrificale e l’orecchio reciso di Vincent Van Gogh

di Georges Bataille

Mario Mancini
20 min readSep 27, 2020

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Quando il 29 luglio del 1890 muore van Gogh in seguito ad un ennesimo tentativo di suicidio, la sua opera diventa ben presto preda degli psichiatri ancor più che della critica d’arte. La singolare personalità dell’artista, alcuni episodi sconcertanti della sua vita, sono tutti elementi che coniugati all’eccezionalità degli esiti pittorici sembrano riproporre in un caso clinico particolarmente affascinante il luogo comune romantico di “genio e follia”, fino a far coincidere il mito van Gogh con la sua “malattia”.

Saranno gli interventi di due fra gli scrittori più grandi e inquieti del Novecento, Georges Bataille (1897–1962) e Antonin Artaud (1896–1948), a sottrarre l’opera di van Gogh alla psichiatria per riconsegnarla alla fruizione culturale del proprio tempo, come uno dei risultati più alti e dirompenti della tradizione occidentale.

Bataille con il saggio intitolato La mutilation sacrificielle et l’oreille coupée de Vincent van Gogh (1930) propone il recupero degli atteggiamenti più trasgressivi dell’artista quali manifestazioni di una ritualità che ci riporta alla tradizione classica della vittima sacrificale.

Artaud, personalmente convinto d’essere una vittima della società, e dei medici in particolare, vedrà nel tragico destino di Van Gogh, le suicide de la societé (1946) il dramma stesso di ogni persona d’ingegno in una società che tende ad espungere tutte le categorie dei “diversi”, dei “marginali”, fra cui i pazzi e gli ammalati, tanto più se detentori di una lucidità ed una sensibilità come quelle di van Gogh: «Perché un pazzo è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e a cui ha voluto impedire di pronunciate delle insopportabili verità».

Alberto Castoldi

Le Annales médico-psychoìogiques[1] riportano i seguenti fatti relativi a “Gaston F…, di anni 30, disegnatore di ricami, ricoverato al manicomio Sainte-Anne il 25 gennaio 1924…”

«La mattina dell’undici dicembre passeggiava sul viale di Ménilmontant quando, giunto all’altezza del Père-Lachaise, si mise a fissare il sole e avendo ricevuto dai suoi raggi l’ordine categorico di strapparsi un dito, senza esitare, senza provare alcun dolore, prese fra i denti l’indice sinistro, sezionò successivamente la pelle, i tendini flessori ed estensori, i legamenti articolari al livello dell’articolazione falango-falangina, torse con la mano destra l’estremità dell’indice sinistro ormai lacerato e la strappò completamente. Tentò di fuggire alla vista degli agenti, che riuscirono tuttavia a impadronirsi di lui ed a condurlo all’ospedale…».

Il giovane automutilatore, oltre al proprio mestiere di disegnatore di ricami, esercitava nel suo tempo libero quello di pittore. Privi di adeguate informazioni sulle tendenze rappresentate dalla sua pittura, sappiamo tuttavia che aveva letto dei saggi di critica d’arte di Mirbeau. Le sue inquietudini d’altronde lo indirizzavano verso argomenti quali la mistica indù e la filosofia di Friedrich Nietzsche.

«Nei giorni che precedettero l’automutilazione ingurgitò molti bicchieri di rhum o di cognac. Si chiede tuttora se sia stato influenzato dalla biografia di van Gogh, in cui aveva letto che il pittore, in preda ad un attacco di follia, s’era tagliato un orecchio e l’aveva spedito ad una prostituta in una casa di tolleranza. Fu così che l’11 dicembre passeggiando sul viale di Ménilmontant, “si accorse del sole, si suggestionò, fissò il sole per ipnotizzarsi immaginando che la sua risposta fosse affermativa”. Credette così di ricevere un assenso. “Sfaticato, fa qualche cosa, esci da questo stato”, sembrava intuisse per trasmissione di pensiero. “Dopo aver avuto l’idea del suicidio, aggiunge, strapparmi un dito non m’è parsa una cosa straordinaria. Mi dicevo: “Posso sempre farlo”».

Non credo sia utile, se non a titolo informativo, insistere sul fatto che Gaston F… era a conoscenza dell’esempio di van Gogh. Quando una decisione interviene con la violenza necessaria a strappare un dito, sfugge del tutto alle suggestioni letterarie che possono averla preceduta, e l’ordine al quale i denti han dovuto così bruscamente obbedire deve sembrare quasi un bisogno cui nessuno avrebbe potuto resistere. La coincidenza dei gesti dei due pittori recupera d’altronde tutta la sua sorprendente libertà a partire dal momento in cui la stessa forza esteriore, scelta autonomamente dall’uno e dall’altro, interviene nella messa in azione dei denti o del rasoio: nessuna biografia di van Gogh avrebbe potuto indurre il mutilatore del Père-Lachaise, nel compiere un sacrificio di cui nessuno avrebbe potuto sopportare la vista senza urlare, a ricorrere assurdamente ai raggi accecanti del sole…

È relativamente facile stabilire fino a che punto la vita di van Gogh sia dominata dai rapporti sconvolgenti che intratteneva con il sole, tuttavia questo argomento non era ancora stato affrontato. I quadri con i soli dipinti dall’Uomo dall’orecchio tagliato sono abbastanza conosciuti, abbastanza insoliti per aver sconcertato: non diventano comprensibili se non a partire dal momento in cui sono visti come l’espressione stessa della personalità (o se si preferisce della malattia) del pittore[2]. Per la maggior parte sono successivi alla mutilazione (notte di Natale 1888). Tuttavia l’ossessione compare già a partire dal periodo parigino (1886–1888) con due disegni[3]. Il periodo di Arles è rappresentato dai tre Seminatori; ma non troviamo ancora in questi tre quadri che il crepuscolo della sera.

Il sole non appare “in tutta la sua gloria” che nel 1889 durante il soggiorno del pittore al manicomio di Saint-Rémy, vale a dire dopo la mutilazione. La corrispondenza di quest’epoca consente d’altronde di evidenziare che l’ossessione raggiungeva qui il suo punto culminante. È allora che in una lettera al fratello impiega l’espressione di “un sole in tutta la sua gloria”, ed è probabile che si esercitasse a fissare dalla finestra quella sfera sfolgorante (ciò che dei medici un tempo hanno ritenuto un segno di follia inguaribile).

Dopo la partenza da Saint-Rémy (gennaio 1890) e fino al suicidio (luglio 1890) il sole di gloria scompare quasi completamente dalle tele.

Ma per dare l’idea dell’importanza e dello sviluppo dell’ossessione di van Gogh è necessario accostare ai soli i girasoli, il cui largo disco aureolato di corti petali richiama il disco del sole, che d’altronde non smette di fissare, seguendolo dall’inizio alla fine del giorno. Questo fiore è ben conosciuto anche sotto il nome stesso di sole, e nella storia della pittura è legato al nome di Vincent van Gogh, che scriveva d’avere un po’ il girasole (come diciamo che Berna ha l’orso, o Roma la lupa).

Fin dal periodo parigino aveva raffigurato un girasole dritto sul suo gambo; isolato in un minuscolo giardino; se la maggior parte dei vasi di girasole sono stati dipinti ad Arles durante il mese di agosto del 1888, almeno due di quei quadri risalgono al periodo parigino, e d’altronde sappiamo che al momento della crisi del dicembre 1888 Gauguin, che abitava con lui, aveva appena terminato un ritratto del pittore mentre dipingeva un quadro di girasoli.

È probabile che stesse lavorando allora ad una variante di uno dei quadri di agosto (eseguendo a memoria come faceva spesso sull’esempio di Gauguin). Questo stretto legame fra l’ossessione di un fiore solare ed il tormento più esasperato assume un valore tanto più significativo in quanto la predilezione esaltata del pittore sfocia talvolta nella rappresentazione del fiore appassito e morto mentre nessuno, a quanto sembra, ha mai dipinto dei fiori appassiti, e van Gogh stesso era solito rappresentare tutti gli altri fiori freschi.

Questo duplice legame che unisce il fiore-astro, i soli-fiori e van Gogh è d’altronde riconducibile ad un tema psicologico normale, in cui l’astro si oppone al fiore appassito come il termine ideale al termine reale dell’io. E ciò che risulta abbastanza regolarmente, pare, nelle differenti varianti del tema.

Parlando in una lettera al fratello di un quadro che amava, esprimeva il desiderio che fosse posto fra due vasi di girasoli, come una pendola fra due candelabri. Si può considerare una sconvolgente incarnazione del candelabro di girasoli il pittore stesso, mentre fissa al suo cappello una corona di candele accese, ed esce di notte per Arles sotto questa aureola (gennaio o febbraio 1889) col pretesto, diceva, di andare a dipingere un paesaggio notturno.

La fragilità stessa di questo miracoloso cappello di fiamme esprime indubbiamente a quale impulso di dislocazione abbia obbedito van Gogh, ogni volta che era suggestionato da una fonte luminosa. Per esempio quando ritraeva un candeliere sulla poltrona vuota di Gauguin…

Una lettera del pittore al fratello, datata dicembre 1888 {Brieven aan zijn Broeder, n. 563) segnala per la prima volta la poltrona di Gauguin rossa e verde, atmosfera notturna, muro e pavimento anch’essi rossi e verdi, sulla sedia due romanzi e una candela. Van Gogh aggiunge in una seconda lettera del 17 gennaio 1890 (Brieven aan zijn Broeder, n. 571): Mi piacerebbe che de Haan vedesse il mio studio d’una candela accesa e due romanzi (uno giallo, l’altro rosa, posti su una poltrona vuota, precisamente la poltrona di Gauguin) tela di 30 in rosso e verde. Anche oggi ho appena terminato di lavorare ad un pendant, la mia sedia vuota, una sedia di legno bianco con una pipa e un cartoccio di tabacco. Nei due studi come in altri ho ricercato un effetto di luce con del colore chiaro (figg. 1–2).

Figura 1

Questi due quadri sono tanto più significativi in quanto risalgono all’epoca stessa della mutilazione. Basta rifarsi alle riproduzioni per vedere che non rappresentano semplicemente una poltrona o una sedia, ma proprio le persone virili dei due pittori.

In mancanza di dati sufficienti, è difficile interpretare questi elementi con assoluta certezza; tuttavia non si può evitare d’essere colpiti da un contrasto che va a tutto vantaggio di Gauguin: una pipa spenta (un focolare spento e soffocante) s’oppone ad una candela accesa, un miserabile cartoccio di tabacco (prodotto disseccato e calcinato) a due romanzi ricoperti di una carta dal colore vivace.

Figura 2

Questa differenza è tanto più carica di elementi torbidi in quanto corrisponde all’epoca in cui i sentimenti di odio di van Gogh per l’amico si esasperarono al punto da provocare una rottura definitiva: ma la collera contro Gauguin non è che una delle forme più acute della lacerazione interiore, il cui tema si ritrova generalmente nell’attività mentale di van Gogh.

Gauguin ha svolto di fronte all’amico il ruolo di un ideale che faceva proprie le aspirazioni più esaltate dell’io fino alle conseguenze più dementi: l’umiliazione astiosa e disperata con la sua contropartita sconcertante, l’identificazione stretta di ciò che umilia con ciò che è umiliato.

L’ideale stesso porta in sé qualcosa delle tare di cui è l’antitesi esasperata: il candeliere non aderisce molto solidamente alla poltrona su cui la sua collocazione è precaria ed anche imbarazzante; il sole nella sua gloria si oppone senza dubbio al girasole appassito, ma per morto che sia questo girasole è anche un sole, e il sole stesso ha qualcosa di deleterio e di malato: ha la couleur du soufre, come scrive il pittore stesso per due volte in francese.

Questa equivalenza degli elementi opposti caratterizza ancora nella Poltrona di Gauguin la ripresa del tema in un nuovo sistema di rapporti: di fronte al lampione a gas il povero candeliere svolge il ruolo umiliante che la pipa svolge di fronte al candeliere: il lampione a gas piegato a gomito non fa che elevare un po’ più in alto una frattura che non è, in fondo, che il segno dell’eterogeneità irriducibile degli elementi lacerati (e scatenati) della personalità di Vincent van Gogh.

I rapporti fra questo pittore (che s’identifica successivamente con delle fragili candele, con dei girasoli ora freschi e ora appassiti) e un ideale di cui il sole è la forma più folgorante apparirebbero pertanto analoghi a quelli che gli uomini intrattenevano un tempo con gli dei, almeno finché costoro continuavano a riempirli di stupore; la mutilazione interverrebbe normalmente in questi rapporti come una specie di sacrificio: rappresenterebbe l’intenzione di assomigliare perfettamente a un termine ideale, connotato abbastanza genericamente, nella mitologia, come divinità solare, tramite la lacerazione e lo strappo delle proprie parti.

Il tema è assimilabile in questo modo a quello della mutilazione di Gaston F…, ed il suo significato può essere evidenziato tramite un terzo esempio in cui un uomo di fuoco ordina ad una donna di strapparsi le orecchie per offrirgliele:

«Una giovane di trentaquattro anni, sedotta e messa incinta dal suo amante, aveva messo al mondo un bimbo che morì alcuni giorni dopo la sua nascita. Da allora questa poveretta fu afflitta da mania di persecuzione con agitazione e allucinazioni religiose. Fu ricoverata in un manicomio. Un mattino una sorvegliante la trova intenta a strapparsi l’orecchio destro: il globo oculare sinistro era scomparso e l’orbita vuota lasciava vedere dei brandelli di congiuntiva e di tessuto cellulare, così come dei grumi adiposi; a destra esisteva un esoftalmo molto pronunciato… Interrogata sul movente del suo gesto, la demente dichiarò d’aver udito la voce di Dio e poco tempo dopo d’aver visto un uomo di fuoco: “Dammi le tue orecchie, spezzati la testa”, le diceva il fantasma. Dopo aver battuto la testa contro i muri, tenta di strapparsi le orecchie, poi decide di cavarsi gli occhi. Il dolore è acuto fin dai primi tentativi che compie; ma la voce la esorta a vincere la sofferenza e la poverina non desiste dal suo progetto. Ritiene d’aver perso allora conoscenza, e non è in grado di spiegare come sia riuscita a strapparsi completamente l’occhio sinistro»[4].

Quest’ultimo esempio è tanto più significativo in quanto la sostituzione, in mancanza di uno strumento tagliente, degli occhi alle orecchie consente di arrivare, partendo da mutilazioni di parti poco essenziali (quali un dito o un orecchio) fino all’enucleazione edipica, cioè fino alla forma più orrenda del sacrificio.

Ma com’è possibile che gesti incontestabilmente legati all’alienazione, anche se in nessun caso possono essere considerati come sintomi di una malattia mentale specifica[5], possano essere spontaneamente designati come l’espressione adeguata di una vera funzione sociale, di una istituzione così definita, così universalmente umana come il sacrificio? L’interpretazione, tuttavia, non è contestabile, in quanto associazione immediata, interamente sprovvista di qualsiasi elaborazione scientifica.

Anche nell’antichità dei pazzi hanno potuto designare così le loro mutilazioni: Areteo[6] parla di malati che ha visto lacerarsi le membra per spirito religioso e per farne dono agii dei che chiedevano loro questo sacrificio. Ma è piuttosto sorprendente che ai nostri giorni, in cui l’abitudine del sacrificio è in piena decadenza, il significato della parola, nella misura in cui esprime ancora un impulso rivelato da un’esperienza interiore[7], sia ancora strettamente legato alla nozione di spirito di sacrificio, di cui l’automutilazione dei pazzi non è che l’esempio più assurdo ma anche più terribile.

È poi vero che questa parte folle dell’ambito sacrificale, la sola che ci sia rimasta immediatamente accessibile in quanto appartiene alla nostra psicologia patologica, non può essere banalmente opposta ad una serie analoga di sacrifici religiosi di uomini e animali: l’opposizione esiste all’interno stesso della pratica religiosa, che a sua volta presenta di fronte ai sacrifici classici le forme più varie e più folli dell’automutilazione.

Al riguardo sono le orge sanguinose delle sette mussulmane[8], a manifestarsi attualmente nelle forme più drammatiche e significative: i partecipanti portati collettivamente al colmo della frenesia religiosa giungono sia all’orribile sacrificio omofago che alla mutilazione, indiretta o no, colpendosi gli uni con gli altri il cranio a colpi di mazza o di ascia, gettandosi contro lame di spada o strappandosi gli occhi.

Quale che sia il ruolo svolto dall’abilità acquisita, per esempio nell’enucleazione, la necessità di gettarsi o di gettare qualche cosa di se stesso fuori di sé resta il principio di un meccanismo psicologico o fisiologico che può, in certi casi, non avere altro termine che la morte.

Le feste di fanatici non fanno d’altronde che riprendere in forma attenuata, talvolta nelle stesse regioni, quelle dell’iniziazione dei galli, preti di Cibele che, presi da eccessi di furore, deliravano per tre giorni eseguendo dei salti e delle danze violente, agitavano delle armi e delle coppe, si colpivano a vicenda senza pietà, e giungevano nel corso di un’incredibile esaltazione, a sacrificare la loro virilità mediante un rasoio, una conchiglia o una selce[9].

Il rito della circoncisione che, nella maggior parte dei casi, non dà luogo a simili scene di delirio, rappresenta una forma meno eccezionale di ablazione religiosa di una parte del corpo, e sebbene il paziente non agisca in prima persona, può essere considerato come una specie di automutilazione collettiva.

Sappiamo che è più o meno praticato nelle varie parti del mondo, dagli Ebrei, dai Maomettani e da moltissime popolazioni indigene dell’Africa, dell’Oceania e dell’America[10].

Talvolta s’accompagna, ad esempio presso i Beciuani dell’Africa Australe[11], a vere e proprie torture che possono causare la morte. Indubbiamente una pratica così poco spiegabile in termini razionali ha dato luogo a numerose interpretazioni: la più conosciuta, quella che attribuisce un’intenzione igienica ai selvaggi che l’hanno adottata è da lungo tempo abbandonata; invece quella che presenta questa mutilazione come un sacrificio, sebbene una generalizzazione sia discutibile, è incontestabilmente basata su alcuni esempi concreti[12].

Quale che sia d’altronde la natura sacrificale della circoncisione, deve essere considerata innanzitutto come un rito iniziatico, e in quanto tale strettamente assimilata alle altre mutilazioni praticate nelle stesse circostanze[13]. In particolare l’estrazione di un dente sostituisce la circoncisione in certe regioni della Nuova Guinea e dell’Australia[14].

La rottura dell’omogeneità personale, la proiezione fuori di sé di una parte di sé stessi, con il loro carattere al tempo stesso violento e doloroso, appaiono così regolarmente connessi alle espiazioni, al lutto o alle licenze che sono apertamente evocati dal cerimoniale d’ammissione alla società degli adulti.

Meno diffusa della circoncisione, la pratica dell’ablazione di un dito è fra l’altro pochissimo conosciuta, dal momento che ogni esempio viene sbrigativamente citato dai vari autori che si limitano di solito ad indicare con una frase la circostanza abituale della mutilazione[15].

Si tratta assai spesso della morte e delle manifestazioni di disperazione che la seguono; tuttavia in India la troviamo legata per la donna alla nascita di un bambino, e la malattia svolge lo stesso ruolo nelle isole Tonga. Presso gli Indiani Piedi-Neri il dito è offerto alla Stella del mattino in un sacrificio di propiziazione. Alle isole Figi la propiziazione poteva essere rivolta anche ad un vivente: quando un suddito aveva gravemente offeso il proprio capo, si tagliava il mignolo e lo presentava nella fenditura di un bambù per ottenere il suo perdono[16].

È sorprendente che questa forma di mutilazione sia presente nella maggior parte delle regioni del mondo, in Australia, in Nuova Guinea, nelle isole Tonga e Figi; in America, nel Paraguai, in Brasile e sulla costa Nord-Ovest; in Africa presso i Pigmei del lago Ngami, gli Ottentotti, i Boscimani.

Anche in Grecia un dito di pietra eretto sopra un tumulo nella campagna indicava ancora nel II secolo che l’usanza là non era forse stata sempre ignorata.

«Andando da Megalopoli nella Messenia, scrive Pausania, e a sette stadi al massimo dalla città, trovate sulla sinistra della strada, un tempio dedicato a delle dee cui vien dato il nome di Manie… Credo che si tratti di un soprannome che vien dato alle Eumenidi; poiché assicurano che è là che Oreste divenne furioso dopo l’uccisione della madre.

Molto vicino al tempio v’è un tumulo di terra coperto da una pietra a forma di dito; questo tumulo è chiamato la tomba di Dattilo (dito); si vuole che Oreste, in preda là ad un eccesso di furore, si sia mangiato un dito della mano sinistra; nelle vicinanze v’è un’altra regione chiamata Ace perché Oreste vi trovò la guarigione dei suoi mali. Vi hanno eretto anche un tempio alle Eumenidi; si dice che queste dee fossero apparse tutte nere a Oreste volendo fargli perdere la ragione, e che quand’egli ebbe mangiato il dito esse gli siano apparse di nuovo, ma tutte bianche e che a questa vista abbia recuperato la ragione»[17].

La strana pratica dell’ablazione del dito sembra essere particolarmente frequente in una regione così arcaica come l’Australia, che non conosce il sacrificio nel senso classico della parola. E questo fatto è indubbiamente tanto più notevole in quanto è difficile negare l’esistenza dello stesso rito in epoca neolitica: nelle impronte delle mani ottenute nelle caverne applicando la mano sulla parete e delimitandole con la pittura, troviamo delle lacune di una o più falangi[18].

Le pratiche analoghe documentate ai giorni nostri presso i folli apparirebbero dunque non solo universalmente umane, ma anche molto primitive; la follia non farebbe che togliere gli ostacoli che si oppongono in condizioni normali alla realizzazione di un impulso così elementare come l’impulso contrario che induce a mangiare[19].

Quale che sia, infatti, l’egoismo che presiede all’appropriazione degli alimenti e dei beni, il modo che peraltro spinge un uomo in certi casi a donarsi (in altri termini a distruggersi) non solo in parte ma totalmente, cioè fino a che ne segua una morte cruenta, non può certo essere paragonato, per quanto concerne la sua natura irresistibile e terribile, che alle deflagrazioni abbaglianti che fanno della tempesta più opprimente un trasporto di gioia.

D’altronde nelle forme rituali del sacrificio comune un animale è pavidamente sostituito al sacrificante. Solo una lamentosa vittima interposta «penetra nella zona pericolosa del sacrificio, vi soccombe, come affermano Hubert e Mauss[20], ed è là per soccombere.

Il sacrificante resta al sicuro». La liberazione da “ogni calcolo egoista”, da ogni riserva resta tuttavia al termine di questi tentativi di scappatoia, nel senso che delle creature da incubo quali gli dei sono incaricate di compiere fino in fondo ciò che un uomo qualunque s’accontenta di sognare: «il dio che si sacrifica si dà senza compensi, scrivono Hubert e Mauss[21]. Il fatto è che, questa volta ogni intermediario è scomparso. La divinità che è allo stesso tempo il sacrificante non fa che tutt’uno con la vittima e talvolta anche con il sacrificatore.

Tutti gli elementi diversi che ineriscono ai sacrifici ordinari rientrano qui gli uni negli altri e si confondono. Ma una tale confusione è possibile solo per gli esseri mitici, immaginari, ideali.» Hubert e Mauss trascurano qui gli esempi di “sacrificio del dio” che avrebbero potuto trarre dalla pratica dell’automutilazione e per i quali soltanto il sacrificio perde il suo carattere di simulazione.

Infatti non c’è alcuna ragione per separare l’orecchio di Arles o l’indice del Père-Lachaise dal celebre fegato di Prometeo. Se si accetta l’interpretazione che identifica l’aquila provvida, l’aetos prometheus dei Greci, con la divinità che ha rubato il fuoco alla ruota del sole, il supplizio del fegato presenta un tema con-forme alle diverse leggende di “sacrificio del dio” [22].

I ruoli sono normalmente divisi fra la personalità umana del dio e la sua incarnazione animalesca: ora l’uomo sacrifica la bestia, ora la bestia l’uomo, ma si tratta ogni volta di automutilazione poiché la bestia e l’uomo non formano che un solo essere.

L’aquila-dio che si confonde nell’immaginazione antica con il sole, l’aquila che unica può contemplare fissandolo con gli occhi il “sole in tutta la sua gloria”, l’essere icario che va alla ricerca del fuoco del cielo non è altro, tuttavia, che un automutilatore, un Vincent van Gogh, un Gaston F. Tutto l’eccesso di ricchezza che attinge dal delirio mitico si limita all’incredibile vomito del fegato, incessantemente divorato e incessantemente vomitato dal ventre aperto del dio.

Se seguissimo questi accostamenti, l’utilizzazione del meccanismo sacrificale per molteplici fini quali la propiziazione o l’espiazione sarebbe considerata come secondaria, e non si conserverebbe che il fatto elementare dell’alterazione radicale della persona che può essere indefinitamente associata a qualsiasi altra alterazione che sopraggiunga nella vita collettiva: per esempio la morte di un parente, l’iniziazione, il consumo del nuovo raccolto…

Una simile azione sarebbe caratterizzata dal fatto che avrebbe il potere di liberare elementi eterogenei e di rompere l’omogeneità abituale della persona: si opporrebbe al suo contrario, all’ingestione comune degli alimenti allo stesso modo di un vomito. Il sacrificio considerato nella sua fase essenziale non sarebbe che un rifiuto di ciò che era appropriato ad una persona od un gruppo[23].

E per il fatto che nel ciclo umano tutto ciò che è rifiutato è alterato nel modo più sconcertante, che le cose sacre intervengono al termine dell’operazione: la vittima immersa in una pozza di sangue, il dito, l’occhio e l’orecchio strappati non differiscono sensibilmente dagli alimenti vomitati. La ripugnanza non è che una forma dello stupore prodotto da una eruzione orribile, dall’emergere di una forza che può inghiottire.

Il sacrificante è libero — libero di lasciarsi andare egli stesso ad un simile sfogo, libero, identificandosi continuamente nella vittima, di vomitare il proprio essere, come ha vomitato un pezzo di se stesso o un toro, vale a dire libero di gettarsi ad un tratto fuori di sé come un gallo o un aïssaouah.

Tuttavia è consentito di dubitare che anche i più furiosi fra quanti si siano mai lacerati e mutilati in mezzo a grida e colpi di tamburo abbiano abusato di questa meravigliosa libertà come ha fatto Vincent van Gogh: andando a portare l’orecchio che si era appena tagliato proprio nel luogo che ripugna di più alla buona società.

È straordinario che abbia così testimoniato allo stesso tempo di un amore che non teneva conto di nulla e in un certo modo sputato in faccia a tutti coloro che conservano della vita che hanno ricevuto l’idea elevata, ufficiale, che sappiamo.

Forse la pratica del sacrificio va scomparendo sulla terra perché non ha potuto essere sufficientemente caricata di quell’elemento di odio e disgusto senza il quale appare ai nostri occhi come una schiavitù.

Tuttavia l’orecchio mostruoso inviato nel suo involucro esce bruscamente dal cerchio magico al cui interno abortivano stupidamente i riti di liberazione. Egli ne esce con la lingua di Anassarco d’Abdera troncata con i denti e sputata sanguinante in faccia al tiranno Nicocreone, con la lingua di Zenone d’Elea sputata in faccia a Demylos… entrambi questi filosofi essendo stati sottoposti a spaventosi supplizi, il primo pestato vivo in un mortaio.

Note

[1] H. CLAUDE, A. BOREL e G. ROBIN, Une automutilation révélatrice d’un état schizomaniaque («Annales médico-psychologiques», 1924, 1, pp. 331–339). Il dottor Borel stesso mi ha segnalato questa osservazione quando gli ho indicato l’associazione che ero stato indotto a fare fra l’ossessione del sole e l’automutilazione in van Gogh. Questa osservazione non è stata dunque il punto di partenza dell’accostamento, ma piuttosto la conferma dell’interesse che presentava.

[2] Sulla malattia di van Gogh cfr. JASPERS, Strindberg und Van Gogh; W. RIESE, Ueber den Stilwandel bei Vincent Van Gogh («Zeitschrift fiir die Gesamte Neurologie und Psychiatric», 2 maggio 1925); Id., Vincent Van Gogh in der Krankheit, 1926 e V. DOITEAU e E. LEROY, La folie de Vincent Van Gogh, 1928. Le valutazioni dei vari autori sono contraddittorie e poco conclusive. Non se ne tiene conto in questo articolo che considera un tratto psicologico prendendo in prestito alla malattia soltanto il suo carattere sfrenato.

[3] J.-B. DE LA FAILLE, L’oeuvre de Vincent Van Gogh, 1928, 4 vol. in -4° (1374, 1375).

[4] Secondo IDELER («Allgemeine Zeitschrift für Psychiatrie», t. 27), citato da M. LOR- THIOIS, De l’automutilation. Mutilations et suicides étranges, Paris 1909, p. 94, fra 11 altri casi d’enucleazione volontaria in malati. L’opera di Lorthiois dà nell’insieme un quadro delle automutilazioni sorprendente per la frequenza dei casi. Molti malati collegano la loro mutilazione ad un delirio religioso o a dei sentimenti di colpevolezza.

[5] È l’opinione enunciata molto chiaramente da CH. BLONDEL, in Automutilateurs (Paris, 1906). Non credo sia possibile contravvenirvi.

[6] Celebre medico greco del I secolo della nostra era, autore del De morborum diuturnorum et acutorum causis, signis et curatione. Il vocabolario sacrificale è ancora impiegato spontaneamente da Montaigne quando riferisce un caso di automutilazione nel cap. IV degli Essais: mortificato da un’avventura in cui s’era mostrato poco brillante, un gentiluomo «si mutilò appena rientrato, e inviò alla sua amante le parti che gli avevano disobbedito nei suoi desideri come una vittima sanguinante capace di espiare l’offesa che credeva di averle arrecato».

[7] Non si tratta qui del senso comune del termine preso in senso figurato, ma dei fatti cui è rimasto inconsciamente associato.

[8] Cfr. J. HERBER, Les Hamadan et les Djoughiyyin (Hesperis, 1923, pp. 217–236), che fornisce una bibliografia sull’insieme delle sette; cfr. anche il racconto straordinario d’una festa d’Aissaouahs che terminava con la morte di un uomo in E. MASQUEREY, Souvenirs et visions d’Afrique.

[9] Cfr. C. VELLAY, Le culte et les fètes d’Adonis Thammouz, Paris 1905.

[10] Gli antichi Egiziani praticavano anche la circoncisione: cfr. la bibliografia e lo schema di E. M. LOEB in The blood sacrifice complex, 1923 («Memoirs of the American Anthropological Association», 30).

[11] Cfr. J. BROWN, Circumcisions rites of the Becwanas tribes («Journal of the Royal anthropological Institute of Great Britain and Ireland», 1928).

[12] Cfr. HUBERT e MAUSS, Mélanges d’histoire des religions, 1909, pp. 125–126. E. M. LOEB (op. cit.) espone l’argomento e fa propria l’interpretazione sacrificale sulla scia di vari autori che cita.

[13] Cfr. fra gli altri KARSTEN, The civilisation of South American Indians, London, 1926.

[14] Sull’associazione fatta spontaneamente nell’angoscia dei fanciulli fra la circoncisione, l’estrazione di un dente e la castrazione, cfr. FREUD, Totem et Tabou, trad, fr., p. 410, n. 1 (trad, it., Torino 1969, p. 205, n. 2).

[15] Vedere la bibliografia in LOEB, op. cit., pp. 39–40.

[16] Cfr. H. HALE, U.S. Exploring expedition, 1846, pp. 66.

[17] PAUSANIA, Description de la Grèce, trad. Clavier, libro VIII, cap. XXXIV.

[18] Cfr. LUQUET, L’art et la religion des hommes fossiles, Paris, 1926, p. 222, dove la tesi del dito piegato è sostenuta in modo poco convincente.

[19] Nell’omofagia e nell’esempio di Oreste che si mangia il dito, i due impulsi si manifestano simultaneamente, ma nei due casi gli alimenti mangiati dovrebbero normalmente ripugnare, ciò che cambia completamente il senso dell’appropriazione.

[20] Mélanges d’histoire des religions, Paris, 1909, p. 125.

[21] Op. cit., p. 127. Indubbiamente il quadro d’insieme offerto nel saggio di Hubert e Mauss è sensibilmente diverso da quello che troviamo tratteggiato qui. Tuttavia è a questo lavoro che fa riferimento un tentativo d’interpretazione eccessivamente sommario esposto in questo articolo. Devo ricordare che in Totem e Tabù Freud si rifaceva al lavoro precedente di Robertson Smith (Religion of Semites) e presentava le obiezioni di Hubert e Mauss come trascurabili.

[22] Cfr. S. REINACH, Aetos Prometheus (Cultes, mythes et religions, t. III, pp. 68–91). Cito qui Prometeo, malgrado il carattere ipotetico dell’interpretazione, perché si presta singolarmente ad un significativo raffronto con van Gogh e Gaston F. Vi sono, oltre a Prometeo, moltissimi esempi di sacrifici del Dio.

[23] L’impulso che corrisponde a tali fatti è eminentemente sociale presso i popoli primitivi; mentre è la fame che sembra svolgere il ruolo sociale nelle società attuali.

Fonte: G. Bataille, La mutilation sacrificielle et l’ oreille coupée de Vincent van-Gogh. Traduzione italiana di Alberto Catoldi, in Il mito di Van Gogh, Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo, 1987, pp. 10–42

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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