La missione di Patagonia oltre il greenwashing

Parla Ryan Gellert il nuovo CEO

Mario Mancini
8 min readDec 30, 2021

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Nel 1968 Yvon Chouinard, dalla California, inizò un viaggio di sei mesi in Patagonia, una regione estrema del continente sudamericano. La Patagonia ispirò a Yvon Chouinard il nome dell’azienda di abbigliamento sportivo che fondò nel 1973. Il logo contiene il profilo del monte Fitz Roy, nella parte meridionale della regione andina, la cui vetta supera i 3400 metri.

Le qualifiche del CEO di Patagonia

Una qualifica non ufficiale per diventare amministratore delegato di Patagonia sembra essere quella di avere un qualche interesse per gli sport estremi, oppure una qualche esperienza di meditazione o entrambe le qualità. L’ultimo amministratore delegato (Rose Marcario) praticava il buddismo tibetano. Colui che ha preceduto Rose era un fanatico dello sci fuoripista con la fissa della meditazione. Da parte sua Yvon Chouinard, l’eccentrico fondatore dell’azienda, era un buddista Zen che amava scalare le montagne e ha sagomato il logo aziendale sul profilo di una montagna della Patagonia.

Così, quando Ryan Gellert è stato nominato amministratore delegato di Patagonia nel settembre 2020, il suo pedigree non ha sorpreso nessuno. Ryan Gellert è un appassionato alpinista e sciatore. Ha inoltre trascorso la sua intera carriera lavorativa in aziende di prodotti per l’attività all’aria aperta, tra cui Black Diamond.

Anche se non è buddista, da decenni è un attivista sociale e ambientale. Il che lo rende adatto a guidare una delle aziende più politicamente impegnate del mondo. Con una laurea in economia al Florida Institute of Technology e una laurea in legge all’Università dello Utah, ha salito la scala aziendale fino a diventare il capo operativo di Patagonia in Europa, Medio Oriente e Asia.

L’impatto della pandemia

Gellert ha assunto la guida di Patagonia in un momento di forte turbolenza. Patagonia è stato uno dei primi rivenditori americani a chiudere i negozi all’inizio della pandemia, una misura che ha portato a una certa riduzione di personale in una società che ha il vanto di prendersi cura dei suoi dipendenti.

Rose Marcario, l’amministratore delegato dell’azienda, si è bruscamente dimessa nell’estate del 1920 senza presentare un piano di successione. E nel bel mezzo della crisi sanitaria globale, che ha messo gran parte del mondo in ginocchio, l’attivismo ambientale di Patagonia si è spento.

Ora, dopo più di un anno dalla sua nomina a nuovo CEO, Gellert sembra essersi consolidato nel ruolo di guida di un’azienda quotata con un grande profilo pubblico.

Il business di Patagonia si è ripreso dalle chiusure, anche se l’azienda è ancora alle prese con le strozzature della catena di approvvigionamento. Le vendite annuali, però, sono sulla buona strada per superare il miliardo di dollari. L’azienda, che dona l’1 per cento dei suoi ricavi ai gruppi ambientalisti, ha intensificato il suo attivismo è si è spinta a ritirare i suoi prodotti da un resort di montagna che ha ospitato una raccolta di fondi per un gruppo conservatore.

E Gellert ha iniziato a praticare la filosofia dell’azienda, dicendo che c’è “un posto speciale all’inferno” per coloro che non combattono il cambiamento climatico.

Anche se, in altre aziende, tutto ciò potrebbe rappresentare una distrazione, questo è un segno che, almeno per Patagonia, le cose stanno tornando alla normalità, come sembra dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio questa intervista condotta da David Gelles, nel New York Times, al nuovo amministratore delegato di Patagonia, Ryan Gellert. Quasi quasi si confondono i nomi.

Se adesso cercate un giaccone o uno zainetto, sapete che potete stare, anche con questa scelta, da una certa parte, particolarmente se ritenete essere quella giusta. Anche i piccoli atti aiutano, soprattutto sul piano simbolico.

GELLES (NYT): Molte persone in questo settore vengono dalla passione per la montagna. Anche tu sei cresciuto all’aperto, arrampicandoti o sciando?

GELLERT (PATAGONIA): Sì è anche la mia storia, ma inizia su una spiaggia e non in montagna. Sono cresciuto a Cocoa Beach, in Florida, quindi non è esattamente un piccolo villaggio alpino dalle cime innevate. E sono cresciuto in un’epoca che per certi versi non c’è più, da bambino trascorrevo il mio tempo all’aria aperta. C’era l’oceano da una parte della strada e un fiume dall’altra, c’erano delfini, lamantini e tante altre cose. Così sono cresciuto facendo surf, giocando sulla spiaggia, campeggiando sulle isole.
Tante persone a Cocoa Beach costruivano la loro vita intorno al surf, ed ero super ispirato dal fatto che alcune di queste persone fossero diventate surfisti professionisti. Non condividevo quella passione, ma ho sempre pensato che quando sarei diventato grande, avrei voluto fare qualcosa che mi piacesse quanto a loro piaceva il surf. Subito dopo l’università, mi sono trasferito a Salt Lake, per sciare. Poi sono andato a fare un’arrampicata su una roccia, ed è stata un’epifania. Mi sono detto: “Passerò il resto della mia vita a fare questo”. E così ho dato una svolta alla mia vita per i successivi 25 anni.

Hai studiato in qualche business school?

Ho studiato finanza all’università perché non avevo idea di cosa fare. Quindi è stata una scelta poco ispirata. Ho frequentato un M.B.A. e poi sono andato a legge. Ma non ho mai fatto l’esame di stato e non ho mai praticato come avvocato.

Perché legge?

Questa scelta non aveva niente a che fare con il diventare avvocato. Si trattava di una scelta sociale. Facevo volontariato con i senzatetto a Salt Lake City e li assistevo legalmente. Facevo qualche lavoro nel sistema carcerario. Ero davvero orientato verso le questioni sociali.
Quando sono andato a lavorare alla Black Diamond, dopo l’università, ho iniziato a sostenere il movimento conservazionista nello Utah, perché la Black Diamond è una società di Salt Lake City e ha una lunga tradizione di attività su questi temi.

Come ambientalista, come concili il conflitto tra fede conservazionista e capitalismo?

Siamo un’azienda di beni di consumo che produce abbigliamento per gente che può permetterselo. Non facciamo cose di cui la gente ha bisogno per sopravvivere. Siamo spietatamente onesti con noi stessi su questo punto. Siamo anche spietatamente onesti sul fatto che tutto ciò che facciamo come esseri umani ha un certo impatto sul pianeta. Bisogna costantemente fare i conti con questa dimensione. E in Patagonia, cerco di stimolare il nostro stesso pensiero sulla nozione di crescita.

Puoi pensare a un momento nel quale Patagonia non vorrà più crescere? Come è per un’azienda smettere intenzionalmente di crescere?

C’è la dimensione filosofica e c’è la dimensione operativa. Cosa significa smettere di crescere o fare un passo indietro? È davvero complicato. Mantenere un business volutamente contenuto potrebbe essere il più grande atto di prestigiazione nel business. Non conosco nessun esempio in cui questo sia mai stato fatto intenzionalmente e con successo. Non sono contro la crescita. Ma sono profondamente impegnato a far sì che ci si muova al ritmo che riteniamo appropriato. Abbiamo abbandonato una distribuzione che funzionava perché sentivamo di non poter avere un impatto.

Cosa si fa a rinunciare a un accordo di distribuzione che funziona?

Ci sono momenti in cui diciamo: questo non ha senso per noi. Siamo davvero onesti con noi stessi. Perché siamo qui? E se l’unica risposta è commerciale, probabilmente è il momento di fare i bagagli e passare ad altro.

Come ci si assicura che tutto l’attivismo di Patagonia non sia solo marketing? Che sia qualcosa di diverso da “greenwashing”?

È assolutamente necessario che le persone prendano ciò che proviene dal mondo degli affari con un certo scetticismo. E se lo fa anche con noi, benissimo. Questo è qualcosa di sano. Se volete davvero capire un’azienda e il suo intento, guardate quello che fa e poi prendete la vostra decisione. Sono a mio agio con il lavoro imperfetto ma costantemente impegnato e onesto di Patagonia. Cerchiamo di essere sempre trasparenti, sia all’interno che all’esterno, anche riguardo al lavoro che stiamo facendo e alle nostre mancanze.
La mia convinzione è che il nostro più grande contributo non è il denaro che doniamo per le giuste cause. Non sono neppure le singole questioni alle quali abbiamo dato il nostro appoggio. Non è neppure aumentare la scala dell’attivismo ambientale con forti politiche di sostegno. È piuttosto operare nelle viscere del business e dimostrare che le aziende possono esistere per fare qualcosa di più che massimizzare la ricchezza dei loro proprietari, e anche farlo davvero nel lungo periodo in modo coerente con azioni grandi e piccole.

In questi giorni un sacco di aziende sono coinvolte in dispute politiche. C’è qualcosa di diverso nel fatto che la Coca-Cola sostenga i diritti elettorali mentre Patagonia si batta per restituire gli spazi naturali ai corsi d’acqua?

Abbiamo un chiaro senso della nostra missione. Questo è fondativo. Non siamo nel business per vendere bibite gassate. La nostra missione è: “Siamo nel business per salvare il nostro pianeta”. Questo intento dà vera chiarezza alla nostra missione.
Mi infastidisce sempre il fatto che la gente dica: “Un’azienda quotata in borsa non può farlo”. Lei ha menzionato il diritto di voto, e penso che questa vicenda dia la misura davvero di quanto, come americani, siamo caduti nella trappola della polarizzazione. È folle per me che semplicemente possiamo discutere di una questione come l’accesso e la partecipazione al voto.

Hai mai considerato come le tue posizioni politiche, che sono per lo più allineate con le priorità del Partito democratico, possano influenzare la volontà dei repubblicani di acquistare prodotti Patagonia?

Vengo da una famiglia abbastanza conservatrice e, in generale, ho rispetto per i diversi punti di vista. E non c’è niente che mi dia più fastidio di quando la gente possa pensare che Patagonia sia anti-conservatrice o, addirittura, un’estensione del Partito Democratico, perché non è vero né l’una cosa né l’altra. Quello che siamo è un’azienda che porta coerentemente avanti una serie di valori e si basa sulla trasparenza delle decisioni che prende, buone, cattive che siano. Detesto il fatto che questo si intrecci con la politica. Ma dobbiamo andare avanti e sostenere le questioni che per noi sono importanti.

Ha fede nel fatto che i governi e le grandi aziende siano in grado di fermare un cambiamento climatico inarrestabile?

Se ho fede? No, non ce l’ho. I problemi che abbiamo creato sono abbastanza grandi e complessi che abbiamo bisogno che tutte e tre le leve della società lavorino in sincronia per risolverli. Abbiamo bisogno che il governo faccia ciò che io credo sia il compito dei governi, cioè risolvere i più grandi problemi che ci stanno di fronte come collettività. Penso anche che il governo sia costantemente venuto meno a questo compito. Abbiamo bisogno che gli individui prendano decisioni nella loro vita che possano avere un impatto e che si presentino come parte di una società civile chiamata a fare lo stesso. E abbiamo bisogno che le aziende si facciano avanti. Alcune aziende stanno iniziando a dire le cose giuste, ma penso che ci sia un enorme delta tra quello che dicono e quello che fanno. Quindi non sono ottimista.
Le due grandi minacce esistenziali che noi, come esseri umani, dobbiamo affrontare, dopo averle create, sono la crisi climatica ed ecologica e la polarizzazione. E la polarizzazione compromette la nostra capacità di affrontare la prima. Quindi sono molto pessimista a questo proposito.
Noi, come esseri umani, abbiamo creato questa serie di problemi e non sarà né bello né facile risolverli. Penso che dobbiamo semplicemente andare e fare il lavoro. Non sono una persona particolarmente giù di corda. Mi piace divertirmi ed essere attivo. Ma sapete, se mi mettete davvero sotto il siero della verità e mi chiedete “quanto sei fiducioso?”. Voglio dire, ho due bambini piccoli. Erediteranno un mondo che è infinitamente peggiore di quello in cui sono cresciuto.

In che modo le difficoltà di luoghi come il Vietnam o i più ampi problemi della catena di approvvigionamento stanno influenzando l’azienda?

Le leggi della gravità si applicano anche alla economia di Patagonia come alle altre. Stiamo vedendo l’impatto. È scomodo. È disarmante. Ma ci stiamo barcamenando. Sono molto più preoccupato per la gente del sud del Vietnam, dove i tassi di vaccinazione stanno cominciando solo ora ad aumentare, che per il resto.

Da: David Gelles, The Patagonia C.E.O.’s Mission: ‘Save Our Home Planet’, The New York Times, 10 dicembre 2021

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.