La linea, l’orpello, la “piega”
A spasso sull’orlo del baratro tra Weimar, Berlino e Parigi
di Guglielmo Siniscalchi
Il Bauhaus segna il proprio tempo con un’estetica politica. Un’arte geometrica, fatta di rette e perpendicolari, stilizzata, forme semplici, funzionali, razionali democratiche. Che da un lato si pone come un argine contro la deriva totalitaria, dall’altro anticipa le traiettorie orizzontali del mondo globale
Il programma di di un’estetica politica
Forse in pochi ricordano che ogni forma artistica, ogni rappresentazione segnica, ogni configurazione spaziale nasconde un risvolto politico. Carl Schmitt, filosofo e giurista, contemporaneo al Bauhaus ma tragicamente compromesso col nazismo, ricorda come la politica nasca proprio con l’occupazione di uno spazio vuoto, con la “messa in forma” di una materia o massa informe.
Le forme geometriche celano iperboli e vertigini che rinviano allo scontro tra forze, alle resistenze tra direzioni opposte e contrarie, alle tensioni tra il finito dentro la figura e l’infinito che preme e si agita fuori dal perimetro — i barbari oltre le mura di kafkiana memoria…
Non a caso, l’intera esperienza artistica, visiva, letteraria del Bauhaus può essere letta attraverso il conflitto tra le figure, la voglia irrefrenabile di segnare il proprio tempo con un’estetica politica. Ma per comprendere gli effetti ed i risvolti “politici” di un movimento astratto e formale come il Bauhaus è necessario fare un tuffo nella storia per osservare il dispiegarsi di un curioso ma appassionante gioco delle forme in atto nella Repubblica di Weimar all’inizio del secolo scorso.
La democraticità della linea
Un gruppo di artisti riscopre la potenza delle linee, dei segmenti, la complessa semplicità di un’arte trasversale che reinventa lo spazio attraverso la stilizzazione e la razionalizzazione di rette e perpendicolari. Traiettoria più breve che unisce due punti su un piano, ogni retta non è semplicemente un tratto di penna: è il segno per eccellenza di ciò che è dritto e lineare, esprime un senso di semplicità e razionalità profondo; la massima brevità tra i punti testimonia la passione per il funzionalismo — è del 1910 la pubblicazione del volume Sostanza e funzione di Ernst Cassirer… — per ciò che diviene affascinante proprio perché utile. Ma la retta rinvia anche al disegno tecnico, ad un mix prepotente tra vocazione estetica, attrazione tecnologica ed innovazione industriale; tra il corpo, la cosa e la macchina.
Non solo: la linea che unisce tutti i punti allo stesso modo, che produce una serie infinita di serie, è una straordinaria macchina democratica, un meraviglioso meccanismo di riproduzione puntiforme. Non conosce verticalità, non permette trascendenza, non accetta la gerarchia: la retta ama l’uguaglianza di tutti i punti, è portatrice di una normalità destabilizzante. Dietro una retta non si nasconde nulla, non c’è inganno né sortilegio oltre la maschera: tracciare una retta è un atto profondamente antisimbolico.
Una forma semplice, funzionale, razionale e democratica che, negli anni bui di Weimar, brucia come monito meraviglioso alla marea di simboli ed orpelli, di architetture maestose e celebrative con cui Albert Speer e compagni avrebbero segnato indelebilmente l’immaginario visivo nazista.
Punto, linea, superficie: un argine all’immaginario nazista
Un gruppo di artisti riscopre la potenza delle linee, dei segmenti, la complessa semplicità di un’arte trasversale che reinventa lo spazio attraverso la stilizzazione e la razionalizzazione di rette e perpendicolari.
La retta contro l’orpello, la funzione contro il simbolo, l’orizzontalità contro la verticalità: pochi tratti di penna o matita creano un immaginario politico, sono il teatro di uno scontro, più o meno consapevole — ma la scuola del Bauhaus rappresenta ancora uno dei grandi argini ad ogni forma di pensiero totalitario — tra la ragione e la follia, la forma e la decisione.
Perché se la retta esprime solo la sua democratica ragione, la nuova/vecchia simbologia nazista, le grandi maschere e gli orpelli neobarocchi, sono i segni tangibili e liturgici di un potere spietato e decisionista (ancora Schmitt, e poi prima di lui Hobbes…) che si nasconde dietro accurate e festose mise en scéne dello sguardo.
Bisognerebbe leggere e rileggere gli appunti di Kandinskij raccolti in un’opera seminale ed ancora sconvolgente come Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici per scorgerne tutta la potenza eversiva, per comprendere come una visione estetica possa racchiudere una vocazione politica.
O, ancora, ammirare la scacchiera creata da Josef Hartwig, tra il 1923 e il 1924, dove i pezzi si denudano di ogni valore simbolico regale o teologico (e se il Bauhaus non fosse altro che un enorme atto di “svestizione”?): l’alfiere è solo una X, il re la somma verticale di due cubi e la corona della regina solo una comune e “banale” sfera.
Una visione funzionalista e antitotalitaria
L’arte lineare e seriale, felicemente geometrica ed uniforme del Bauhaus, costituisce un muro percettivo e sensoriale alla deriva simbolica e mitologica dell’immaginario nazista. Almeno fino alla drammatica chiusura della scuola dopo l’ultimo trasferimento a Berlino.
Ma la potenza della linea, del punto e della superficie sono destinate a moltiplicarsi ancora, subendo curiose metamorfosi ed impensate “migrazioni” sull’asse franco-tedesca. Ecco allora che un concetto-chiave dell’arte Bauhaus come la retta finisca per “piegarsi” producendo nuove infinite geometrie: la spiritualità puntiforme di Kandinskij incontra la dodecafonia di Arnold Schönberg ma, soprattutto, la filosofia (e l’arte…) post-strutturalista francese.
Così il “piegarsi” e “ripiegarsi” senza sosta del gesto artistico (già descritto profeticamente da Kandinskij…) testimonia un nuovo attacco frontale al mito della sovranità (non solo) dell’artista: la serialità, inaugurata dalle idee rivoluzionarie di Gropius and co., diviene l’urlo di battaglia di altri movimenti di pensiero mostrando, ancora una volta, come i volumi e gli spazi siano sempre questione di sguardi e soggettività, di potere e prospettive.
Questa volta però l’atto artistico non si oppone alla tetra simbologia del totalitarismo novecentesco, ma sembra essere il preludio per altre pratiche “democratiche” e “funzionaliste”.
La società aperta e globale
L’obiettivo non è più il corpo del sovrano ma il concetto stesso di sovranità: le idee del Bauhaus sembrano ispirare un mondo che diviene rapidamente sempre più orizzontale perché globale, senza vertici ma con mille snodi attraversati da reti di rette e punti; un multiverso dove la ripetibilità infinita di ogni atto e gesto artistico sono causa ed effetto di una società tecnologizzata, funzionalista, razionale, “mediatizzata” e, nonostante tutto, decisamente più “aperta”.
Una comunità universale dove forse nessuno è più sovrano, proprietario o padrone di nulla, perché tutto è comune, è condiviso ed accessibile; è il regno della retta, della curva, del punto, della “piega” che si ripete continuamente segnando ogni ripetizione con una differenza, con uno scarto. C’è tanto del Bauhaus nell’invenzione della nostra epoca postmoderna, in quel sogno di distruzione di simboli identitari, nella costruzione “debole” di un universo che si lasci attraversare da altre mille pieghe e rette, senza mai chiudersi o ritrarsi.
Ecco perché, oggi, che qualcuno vorrebbe nuovamente tornare ad innalzare simboli e barriere, sostituendo alle rette i confini, alla comunità la proprietà e l’identità, e a quel che resta della democrazia nuove forme di sovranità, i movimenti del Bauhaus generano ancora minacciose ed imprescindibili scosse telluriche.
Tratto da “Sentieri Selvaggi”, n. 2, marzo-aprile 2019, pag. 16