La Germania e i tedeschi
di Thomas Mann
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [novembre 2021]
Riportiamo nella versione integrale e in traduzione italiana il discorso che Thomas Mann, divenuto nel 1944 cittadino americano, pronunciò in lingua inglese per il settantesimo compleanno il 29 maggio 1945 nella Biblioteca del Congresso di Washington. La prolusione dal titolo Germany and the Germans fu pubblicata lo stesso anno in tedesco con il titolo Deutschland und die Deutschen sulla rivista “Die neue Rundschau” allora edita a Stoccolma.
Secondo David Bidussa, che ha scritto l’introduzione per una edizione del manifestolibri, Mann si adoprò molto affinché il testo in tedesco circolasse tra l’emigrazione tedesca. Ma è significativo, che “Mann lo scriva in tedesco, ma si rifiuti di leggerlo in tedesco”. Questo si apprende da una lettera aperta dello scrittore a Walter von Molo, (in Thomas Mann, Moniti all’Europa, Mondadori, Milano 1947, p. 349).
Buona lettura! Un po’ impegnativa come lo è La montagna incantata.
Signore e Signori!
Se mi penso qui davanti a loro, settantenne, e, inverosimile a dirsi, già da parecchi mesi cittadino americano che parla inglese o che almeno si sforza di farlo, ospite, anzi membro ufficiale di un istituto statale americano che ha invitato lor signori per ascoltarmi, se mi penso a questo modo, ho l’impressione che la vita sia fatta della stessa materia di cui si formano i sogni. Tutto è così singolare, incredibile, inatteso! Anzitutto mai ho pensato che sarei giunto all’età patriarcale, quantunque teoricamente già presto lo abbia ritenuto desiderabile. Pensavo e dicevo che, una volta venuti in questo mondo, sarebbe ottima e onorevole cosa resisterci a lungo, condurvi un’esistenza completa e canonica e quale artista serbarsi caratteristicamente produttivo in ogni fase della vita. Avevo però scarsa fede nella mia vocazione e capacità biologica, e la perseveranza tuttavia mantenuta mi pare non tanto una prova della mia pazienza vitale quanto della pazienza che verso di me ha dimostrato il genio della vita, cioè un elemento sovrappostosi, una Grazia. Ma la Grazia è sempre stupefacente e inattesa. Chi ne è toccato crede di sognare.
Già il fatto che io sono e il dove sono mi dà l’impressione di sognare. Non sarei un poeta se lo trovassi naturalissimo. Basta un granello di fantasia per trovar la vita fantastica. Come giunsi qui? Quale ondata di sogno mi ha portato dal cantuccio più remoto della Germania dove io nacqui e al quale in ultima analisi appartengo sino in quest’aula, su questo podio perché stia qui a parlate da americano ad americani? Non già che ciò mi sembri illegittimo. Al contrario: ha il mio pieno consenso e il destino ha ben provveduto a simile consenso. Così come le cose stanno oggi, il mio germanesimo è qui, nell’ospitale cosmopoli nell’universo nazionale e razziale che ha nome America, al suo posto migliore. Prima di diventare americano mi avevano permesso di diventare ceco; fu estremamente cortese e degno di gratitudine, ma non aveva ragione interiore. E allo stesso modo mi basta formulare l’ipotesi che fossi diventato per caso francese o inglese o italiano, per constatare con soddisfazione quanto sia più giusto per me essere un americano. Ogni altra soluzione avrebbe significato un troppo angusto e definito straniarsi della mia esistenza. Come Americano invece sono un cosmopolita, cioè quello che un tedesco è per natura, malgrado il suo ritrarsi dal mondo, che è difficile dire se provenga da presunzione oppure da innato provincialismo da un complesso d’insufficienza etnicosociale. Forse dall’una e dall’altro.
Questa sera debbo parlar loro della Germania e dei tedeschi: un’impresa temeraria e non soltanto perché l’argomento è tanto complesso, molteplice, inesauribile, bensì anche a causa della passione che oggi lo circonda. Trattarne sine ira et studio, solo psicologicamente, apparirebbe quasi immorale di fronte all’inesprimibile male che questo popolo sciagurato ha fatto al mondo. Forse che come tedesco avrei dovuto evitare questo tema? Ma non avrei quasi saputo quale altro scegliermi per questa serata, anzi oggigiorno non è quasi concepibile una discussione che si elevi oltre la sfera privata e non ricada pressoché inevitabilmente nel problema tedesco, nell’enigma di carattere e di destino di questo popolo che ha senza dubbio donato al mondo tante cose belle e grandi, ma che sempre in pari tempo gli è riuscito così fatalmente di peso. L’orrenda sorte della Germania, l’inaudita catastrofe in cui sfocia oggi la sua storia moderna, strappa l’interessamento anche quando questo si ricusa alla pietà. Non sarebbe certo proposito conveniente per chi è nato tedesco volere suscitar compassione, difendere e giustificare la Germania. Mi sembra tuttavia che non gli si addirebbe neppure far la parte del giudice, maledire e condannare la Germania, condiscendendo all’incommensurabile odio che il suo popolo ha saputo suscitare e presentandosi insieme come la Germania buona che fa da contrasto a quella cattiva e colpevole di oltre oceano e con la quale non si ha nulla a che fare. Quando si è nati tedeschi si ha a che fare con il destino tedesco e con la colpa tedesca. Distanziarsi criticamente da essa non dovrebbe tuttavia venire interpretato come tradimento, poiché le verità che si cerca di formulare intorno al proprio popolo non possono essere altro che prodotto di un esame di coscienza.
Già osservando nell’uomo tedesco l’unione del cosmopolitismo col provincialismo, della paura del mondo col bisogno di essere nel mondo, sono scivolato quasi senza saperlo nella complessità della psicologia tedesca. Credo di veder tutto questo giustamente, di averlo sperimentato sin dalla giovinezza. Un viaggio per esempio dalla Germania, passando il lago di Costanza, in Svizzera, appariva una spedizione dalla sfera provinciale in quella mondana: per quanto possa sorprendere che la Svizzera, angusto paesello al confronto dell’ampio e potente impero germanico con le sue metropoli, potesse essere sentito quale «mondo». Ma era e rimane pur vero: la Svizzera, neutrale, plurilingue, percorsa da influssi francesi e dall’aria occidentale, era in realtà, malgrado il minuscolo formato, molto più «mondo», più teatro europeo che non il colosso politico del Nord, dove l’epiteto «internazionale» era già da un pezzo divenuto improprio e dove un presuntuoso provincialismo aveva reso l’atmosfera corrotta e asfissiante.
In ciò consisteva la forma modernamente nazionalistica del tedesco distacco dal mondo, della sua caratteristica e pensosa imperizia al mondo, che in tempi passati, unendosi a una specie di universalismo borghese, quasi a un cosmopolitismo in berretto da notte, ha prodotto l’immagine psichica, cioè questo borghesismo cosmopolita tedesco di tono provinciale e straniato dal mondo, e non è mai andata disgiunta da un elemento buffonesco-spettrale e misteriosamente sinistro, da un certo tranquillo demonismo, che la mia origine personale mi aiutò forse a meglio sentire.
Ripenso a quell’angolo di mondo tedesco di dove l’ondata di sogno della vita mi ha sospinto sin qui, e che fu la prima cornice della mia esistenza: era l’antica Lubecca, vicina al Mar Baltico, sobborgo dell’Ansa in passato, fondata già prima della metà del dodicesimo secolo ed elevata dal Barbarossa a libera città imperiale. Il mirabile municipio, che mio padre frequentava per la sua carica di Senatore, fu compiuto nello stesso anno in cui Martin Lutero affisse le sue tesi alla porta della chiesa di Wittenberg, cioè all’alba dell’età moderna. Ma come Lutero, il riformatore, per la sua forma mentale e psichica fu in buona parte l’uomo del medioevo ed ebbe durante tutta là vita a combattere col diavolo, così anche nella Lubecca protestante, persino nella Lubecca divenuta membro repubblicano dell’Impero di Bismarck, si viveva profondamente immersi nel medioevo gotico: né dicendo così penso soltanto alle guglie aguzze della cittadina cinta di porte e di bastioni, al brivido macabro e umoristico insieme provocato dagli affreschi della Marienkirche, con la sua danza della morte, alle straducole tortuose e come stregate che prendevan nome spesso dalle antiche corporazioni artigiane dei campanari o dei macellai, né alle pittoresche dimore borghesi. No, l’atmosfera medesima aveva conservato residui di un particolare stato d’animo: diciamo pure tracce della latente epidemia psichica degli ultimi decenni del Quattrocento, dell’isterismo del medioevo tramontante. È strano a dirsi per una città commerciale moderna, prosaica ed assennata, eppure non era impensabile che ivi potesse scoppiare all’improvviso un movimento simile alle famose crociate infantili, una specie di ballo di San Vito, un’esaltazione pei miracoli del Crocifisso, con cortei mistici del popolo o cose simili. Insomma, vi si avvertiva un substrato arcaico-nevrotico, una predisposizione segreta degli animi, manifestantesi nel gran numero di «originali» sempre trovabili in quella città; tipi bizzarri e innocui di semipazzi che vivono fra quelle mura e sembrano far parte del quadro locale non meno degli antichi edifici. Un certo tipo di «vecchietta» dagli occhi cisposi e dal bastone a gruccia che è in fama più o meno scherzosa di stregoneria; un piccolo rentier dal naso purpureo e bitorzoluto, affetto da uno strano tic nervoso, da ridicole consuetudini, che lancia come per coazione un monotono stridìo d’uccello, una donna dalla comica acconciatura che s’aggira altezzosa per la città, trascinandosi dietro un lungo strascico fuori moda, seguita da gatti e cagnolini. E insieme a costoro ci son sempre dei bimbi, dei monelli che fan corteo a quelle strane figure, schernendole, ma pronti a fuggire con panico superstizioso appena quelle si voltano…
Non so neppur io perché oggi e qui vada rievocando così remoti ricordi. È forse perché ho conosciuto la «Germania», la prima volta, con gli occhi e con l’anima, nell’aspetto di questa strana e veneranda città, o perché m’importa di suggerire un nesso segreto fra la mentalità tedesca e l’elemento demoniaco, nesso che è certo frutto della mia intima esperienza, ma che non è facile a sostenersi? Il nostro massimo poema, il Faust di Goethe, ha per protagonista l’uomo al confine tra medioevo e umanesimo, l’uomo che si arrende al demonio e alla magia per temeraria sete di conoscenza. Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio.
E il diavolo, il diavolo di Lutero e di Faust, mi sembra essere figura tedeschissima; il patto con lui, il vendere la salute dell’anima per acquistare per un certo tempo i tesori e la potenza mondana, mi appare qualcosa di particolarmente vicino all’indole tedesca. Un pensatore e ricercatore solitario, un teologo e filosofo nella sua clausura, che vende l’anima al demonio per la cupidigia di godere e di dominare il mondo… non è oggi il giusto momento di riconoscere la Germania in quest’immagine, oggi, mentre il diavolo sta letteralmente pigliandosi la Germania?
È grave deficienza della leggenda e del poema non mettere Faust in rapporto con la musica. Egli dovrebbe essere musica e musicista. La musica è sfera demoniaca: ce lo ha esposto nel modo più convincente Soren Kierkegaard, un grande cristiano, nel suo saggio dolorosamente entusiasta sul Don Giovanni di Mozart. La musica è arte cristiana col segno negativo, è a un tempo calcolatissimo ordine e antiragione germinatrice del caos, ricca di gesti incantatori e di scongiuri, di magie di cifre, è l’arte più remota dalla realtà, la più appassionata, mistica e astratta a un tempo. Perché Faust sia il rappresentante dell’anima tedesca dovrebbe esser musicale, giacché il rapporto del tedesco col mondo è astratto e mistico, vale a dire musicale: è il rapporto di un professore sfiorato dallo spirito demoniaco, impronto, ma pur sorretto dall’orgogliosa coscienza di essere superiore al mondo per «profondità».
In che cosa consiste tale profondità? Appunto nella musicalità dell’anima tedesca, in ciò che si chiama la sua interiorità, cioè nella scissione fra l’elemento speculativo e quello politico-sociale dell’energia umana e nella piena prevalenza del primo sul secondo. L’Europa lo ha sempre sentito e ne ha anche awertito l’aspetto mostruoso e infelice. Nel 1839 Balzac scrisse: «Les Allemands, s’ils ne savent pas jouer des grands instruments de la Liberté, savent jouer naturellement de tous les instruments de musique». È osservato con nitida distinzione e non è l’unico eccellente commento del genere di questo grande romanziere. Nel Cousin Pons dice del musicista Schmuccke, una magnifica figura: «Schmuccke, il quale come tutti i tedeschi era molto forte in armonia, strumentava gli spartiti di cui Pons forniva le voci per canto».
È vero: i tedeschi sono in prevalenza musicisti della verticale e non dell’orizzontale, son più grandi maestri dell’armonia, nella quale Balzac include il contrappunto, che non della melodia, sono più strumentalisti che esaltatori della voce umana, molto più rivolti all’aspetto dotto e spirituale della musica che non a quello canoro che dà gioia al popolo. Essi hanno dato all’Occidente non voglio dire la sua musica più bella e più socialmente affratellante, ma la sua musica più profonda e più significativa, ricevendone in cambio gratitudine e gloria. L’Occidente ha intanto intuito, e intuisce oggi più forte che mai, come simile musicalità debba essere pagata a caro prezzo in altra sfera: in quella politica, nella sfera della convivenza umana.
Martin Lutero, gigantesca incarnazione dell’indole tedesca, era straordinariamente musicale. Io non lo amo, lo confesso apertamente. Ciò che è estremamente tedesco, separatista ed antiromano, antieuropeo, mi sconcerta e mi spaventa anche quando si presenta come libertà evangelica e come emancipazione spirituale, mentre ciò che è specificamente luterano, la villania collerica, le invettive, l’eruttare infuriato, la spaventosa vigoria mischiata a delicata profondità d’animo e a massiccia credenza superstiziosa nei demoni, negli incubi e nei mostri, suscita la mia istintiva ripugnanza. Non mi sarebbe piaciuto essere ospite alla tavola di Lutero, mi sarei probabilmente sentito come nella dimora di un orco, mentre son persuaso che me la sarei cavata molto meglio con Leone X, cioè con Giovanni de’ Medici, il cortese umanista, che Lutero soleva chiamare «la scrofa del demonio, il Papa». E nemmeno io riconosco come necessaria l’antitesi fra forza popolare e incivilimento, il contrasto fra Lutero e il fine pedante Erasmo. Goethe ha superato quel contrasto conciliandolo. Egli è la forza popolare piena e incivilita, è il demonismo costumato, è spirito e sangue ad un tempo, cioè arte… Con lui la Germania ha fatto un grandioso passo avanti sul cammino della civiltà umana: o almeno dovrebbe averlo fatto, giacché in realtà essa si è sempre tenuta più vicina a Lutero che a Goethe. E chi negherebbe che Lutero fu uomo di inaudita grandezza, grande con tedeschissimo stile, grande e tedesco anche nella sua bivalenza quale forza liberatrice e insieme reazionaria: un rivoluzionario conservatore. Egli non ristabilì soltanto la Chiesa, ma salvò il Cristianesimo. In Europa si ha la consuetudine di rimproverare all’indole tedesca mancanza di Cristianesimo, spirito pagano. Questo è molto discutibile. La Germania ha affrontato il Cristianesimo con la massima serietà. Col tedesco Martin Lutero il Cristianesimo fu sentito con serietà ingenua e contadinesca in un’epoca in cui altrove ogni serietà era andata perduta. La rivoluzione di Lutero conservò il Cristianesimo: press’a poco come il new deal tende a conservare la forma economica capitalista, anche se il capitalismo non vuol rendersene conto.
Nulla sia detto contro la grandezza di Martin Lutero. Egli non soltanto con la sua potente versione della Bibbia ha creato la lingua tedesca, che Goethe e Nietzsche portarono poi a perfezione, ma inoltre, sciogliendo le pastoie scolastiche e rinnovando la coscienza della libertà, ha portato un immenso aiuto alla ricerca, alla critica, alla speculazione filosofica. Col ristabilire l’immediatezza del rapporto fra l’uomo e il suo Dio, ha favorito la democrazia europea, giacché la formula «ciascuno è sacerdote di se stesso» è democrazia. La filosofia idealistica tedesca, il raffinarsi della psicologia attraverso l’analisi di coscienza pietista, l’autosuperamento infine della morale cristiana in nome della morale, di un’estrema rigidità nel vero — giacché questo fu l’atto, o il misfatto, di Nietzsche — tutto ciò proviene da Lutero. Egli fu un eroe di libertà, ma secondo lo stile tedesco, giacché non capiva nulla di libertà. E intendo con ciò non la libertà del cristiano, bensì la libertà politica, la libertà del cittadino: questa non soltanto lo lasciava indifferente, ma le sue aspirazioni gli erano profondamente antipatiche. Quattro secoli dopo di lui il primo presidente della Repubblica tedesca, un socialista, pronunciò le parole: «Io odio la rivoluzione come il peccato». Erano le parole prettamente luterane, prettamente tedesche. Così Lutero odiò la rivolta dei contadini, che, ispirata evangelicamente, se fosse riuscita vittoriosa, avrebbe potuto imprimere a tutta la storia tedesca una direzione più felice, avviandola verso la libertà, e in cui invece Lutero non scorse che una violenta compromissione del1'opera sua e della liberazione spirituale tanto che la insultò e maledisse come soltanto lui era capace di fare. Fece ammazzare i contadini come cani rabbiosi, gridò ai principi che era venuto il momento di conquistarsi il regno dei Cieli scannando il bestiame contadinesco.
Lutero, il popolano tedesco, ha buona parte di responsabilità nel triste esito di quel primo tentativo di una rivoluzione tedesca, con la vittoria dei principi e tutte le relative conseguenze.
Viveva allora in Germania un uomo al quale va tutta la mia simpatia, — Tillman Riemenschneider, un pio artista, scultore e intagliatore in legno, — celeberrimo per la fedele ed espressiva nobiltà delle sue opere, altari ricchi di figure e caste statue che, molto desiderate, andarono a ornare i luoghi di pietà della Germania intera. Il maestro era circondato da alta stima come persona e come cittadino nel suo più ristretto ambiente, nella città di Würzburg, del cui Consiglio faceva parte. Non aveva mai pensato di immischiarsi nell’alta politica e nelle contese del mondo: ciò era in origine del tutto estraneo alla sua naturale modestia, al suo amore per la libera e pacifica creazione artistica. Non aveva nulla del demagogo, ma il suo cuore, che batteva per i poveri e gli oppressi, lo costrinse a prender partito per la causa dei contadini che egli riconobbe giusta e grata a Dio, contro i signori, i vescovi e i principi, di cui gli sarebbe stato facile serbare l’umanistica benevolenza.
Commosso dai grandiosi e fondamentali contrasti del tempo suo, si sentì costretto a uscire dalla sua sfera di borghesia artistica meramente intellettuale ed estetica per diventare un campione della libertà e del diritto. Gettò la propria libertà, la calma dignitosa della sua esistenza per la causa che oltrepassava ai suoi occhi l’arte e la pace dell’anima. Fu specialmente per suo influsso che la città di Würzburg si decise a negare alla «rocca», cioè al principe vescovo, di seguirlo per combattere i contadini e ad assumere in genere nei suoi confronti un atteggiamento rivoluzionario. Dovette scontare in misura terribile, giacché, sedata la rivolta dei contadini, le potenze storiche vittoriose che egli aveva sfidate presero crudelissima vendetta: subì carcere e torture e ne uscì uomo finito, incapace ormai di ridestare la bellezza dal legno o dalla pietra.
Anche questo dunque vi fu in Germania, anche questo vi è sempre stato, ma non è la realtà tedesca specifica e monumentale. Essa è rappresentata da Lutero, dal teologo musicale. Egli politicamente non fece altro che dar torto ad ambedue i partiti, ai principi e ai contadini, il che non poteva far a meno di condurlo ben presto a dar torto solamente, e con rabbia furibonda, al partito dei contadini. La sua interiorità si attenne al motto paolino: «Sii sottomesso dell’autorità che ha potere su di te!». Ma quelle parole erano riferite all’autorità dell’impero Romano universale, presupposto e spazio politico alla religione universale di Cristo, mentre nel caso di Lutero si trattava dell’autorità locale e reazionaria di principotti tedeschi. La sua subordinazione politica, questo prodotto di interiorità musicale tedesca e di ignoranza del mondo, non ha soltanto plasmato per secoli l’atteggiamento servile dei tedeschi di fronte ai principi e a tutte le autorità statali, non ha soltanto favorito e in parte creato il dualismo tedesco di audacissima speculazione e di minorità politica. Essa è anzitutto rappresentativa, e in modo violento e monumentale, per la scissura prettamente tedesca fra l’impulso nazionale e l’ideale della libertà politica. La riforma infatti, come più tardi la sollevazione contro Napoleone, fu un moto di libertà di carattere nazionalista.
Parliamo ancora un momento della libertà: il rovesciamento singolare che questo concetto ha subìto in un popolo tanto notevole come quello tedesco e che vi incontra ancora sino ad oggi, è motivo di riflessione. Come fu mai possibile che persino il nazionalsocialismo che sta ora spegnendosi nella vergogna potesse attribuirsi il nome di un «movimento tedesco per la libertà», dato che nel sentimento generale simili orrori non possono aver nulla in comune con la libertà? Tale definizione non esprimeva soltanto una sfida impudente ma una concezione fondamentalmente sciagurata del concetto di libertà, legge psicologica questa che si è sempre affermata nella storia tedesca. La libertà, compresa politicamente, è anzitutto un concetto etico e di politica interna. Un popolo che non è interiormente libero e responsabile di fronte a se stesso, non merita la libertà esteriore, non può interloquire a proposito di libertà e, se adopera l’ armoniosa parola, ne fa un falso uso. Il concetto tedesco di libertà fu sempre rivolto soltanto all’esterno; intendeva il diritto di essere tedesco, solo tedesco e nulla di diverso, nulla che lo oltrepassasse; era un concetto aggressivo di difesa autocentrata contro tutto quanto tentasse di condizionare e limitare l’ egoismo etnico, domandolo e costringendolo a servire la comunità, a servire l’umanità. Un individualismo prepotente all’esterno, nei rapporti col mondo, con l’Europa, con la civiltà, si accordava all’interno con una stupefacente misura di dipendenza, di inferiorità, di inerte servilismo. Era senso servile militante, e il nazionalsocialismo portò questo squilibrio fra il bisogno esterno e interno per mezzo di un popolo che a casa propria era privo di libertà quanto quello tedesco.
Perché l’impulso di libertà tedesco deve sfociare sempre in una non-libertà interiore? Perché dovette diventare alla fine persino attentato alla libertà altrui, alla libertà medesima? La ragione sta in ciò: che la Germania non ha mai conosciuto una rivoluzione e non ha mai imparato a conciliare il concetto della nazione con quello della libertà. La «nazione» nacque con la Rivoluzione Francese, è un concetto liberale e rivoluzionario che comprende anche quello dell’umanità e vuol significare libertà nella politica interna, Europa in quella esterna. Il fascino dello spirito politico francese proviene tutto da questa fortunata unità; l’angustia depressiva dell’entusiasmo patriottico tedesco sta nel fatto che tale conciliazione unitaria non ha potuto mai formarsi. Si può dire che lo stesso concetto di «nazione», nel suo nesso storico con quello di libertà, è sconosciuto in Germania. Si può ritenere errato definire i Tedeschi una nazione, sia che lo facciano essi medesimi o altri. È sbagliato applicare alla loro passione patriottica il vocabolo «nazionalismo»: questo significa introdurre un elemento francese e creare dei malintesi. Non bisogna cercare di cogliere due cose differenti con lo stesso nome. L’idea di libertà tedesca è etnica e antieuropea, sempre molto vicina a qualcosa di barbarico, anche quando non degenera in aperta e dichiarata barbarie, come ai giorni nostri. Già gli aspetti esteticamente ripugnanti e grossolani, caratteristici dei suoi esponenti e campioni al tempo delle guerre di liberazione, già le leghe goliardiche e certi tipi come Jahn e Massmann sono testimonianza delle sue infelici caratteristiche. Goethe non era estraneo alla cultura popolare, non aveva scritto solo una Ifigenia classicheggiante bensì opere prettamente tedesche come il primo Faust, il Goetz e le Massime in rima. Tuttavia, con grande sdegno dei patrioti, il suo atteggiamento di fronte alla guerra napoleonica fu di assoluta freddezza: e non solo per lealtà verso il suo pair, il grande Imperatore, bensì perché dovette necessariamente trovare odioso in quella sollevazione l’elemento barbaricamente nazionalista. Non sentiremo mai abbastanza il penoso isolamento di questo grande che, nella Germania dei suoi giorni sovreccitata da moti libertari e patriottardi, proclamava la sua adesione a tutto quanto significava ampiezza e grandezza, supernazionalismo, germanesimo mondiale, letteratura universale. I concetti decisivi e dominanti, attorno a cui tutto s’imperniava, erano per lui civiltà e barbarie; e fu suo destino appartenere a un popolo pel quale l’idea di libertà, in quanto rivolta soltanto al di fuori, contro l’Europa e contro la civiltà, si trasforma in barbarie.
Grava qui una sciagura, una maledizione, un tragico influsso, il quale si manifesta anche in ciò che persino il dissenso goethiano di fronte al protestantesimo politico, alla democrazia dei villani populisti, persino tale suo contegno esercita sul paese, e in specie sulla sua parte intellettualmente importante, la borghesia tedesca, l’effetto precipuo di confermare e di approfondire il dualismo luterano tra libertà spirituale e politica, impedendo al concetto di cultura tedesco di accogliere in sé la componente politica. È molto difficile determinare e distinguere sino a che punto i grandi uomini abbiano imposto il loro marchio al carattere di un popolo e l’abbiano esemplarmente plasmato, o sin dove essi stessi ne siano già personificazione ed espressione. Certo si è che il rapporto fra la mentalità tedesca e la politica è un non-rapporto, una conferma di non-vocazione. Storicamente ciò si rivela anche nel fatto che tutte le rivoluzioni tedesche fallirono: quella del 1525, quella del 1813, quella del ’48, mancata per lo smarrimento politico della borghesia, e infine quella del 1918. Ma si manifesta anche nel goffo e sinistro malinteso in cui precipita l’idea della politica per i Tedeschi quando l’ambizione li spinge a impadronirsene.
La politica è stata definita «l’arte del possibile», e in realtà è una sfera affine all’arte, inquantoché al pari di essa assume una posizione creativa e mediatrice fra lo spirito e la vita, l’idea e la realtà, il desiderabile e il necessario, la coscienza e l’azione, la moralità e la potenza. Essa racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediencies e concessioni alla materia, molti elementi troppo umani e contaminati di volgarità, tanto che non è forse mai esistito uomo politico il quale, dopo aver raggiunto grandi fini, non abbia dovuto domandarsi poi se gli restasse il diritto di noverarsi ancora fra le persone rispettabili. Tuttavia, come l’uomo non è parte soltanto del regno della natura, così la politica non rimane circoscritta al male. Essa non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare totalmente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura, riducendosi alla mera e immortale volgarità, alla menzogna, all’assassinio, all’inganno e alla violenza, senza con ciò degenerare in una realtà di demoniaca corruzione, senza deformarsi a nemica dell’umanità, senza ridurre la sua forza creativa già spesso accomodante a una sterilità indegna e criminosa. Questa non sarebbe più arte, né ironia capace di realizzazione mediatrice e feconda, bensì cieco e disumano disordine, inetto a creare una qualunque realtà, ma tale soltanto da cogliere un passeggero successo intimidatorio, mentre già entro breve termine avrà un effetto universalmente deleterio, nichilista e anche di autodistruzione, giacché ciò che è assolutamente immorale va anche contro la vita.
I popoli nati e chiamati alla politica sanno pure per istinto conservare sempre, almeno soggettivamente, l’unità politica di coscienza e di azione, di spirito e di potenza; essi fanno la politica come si esercita un’arte della vita e della forza, in cui non si procede senza ingredienti anche troppo umani di utilitaria perfidia ma non si perde mai di vista del tutto l’idea e ciò che è umanamente rispettabile e morale: così appunto essi sentono «politicamente» e in questo modo risolvono i problemi con se stessi e col mondo. Simili soluzioni della vita basate sul compromesso appaiono al tedesco ipocrisia. Egli non è nato per venire a capo della sua vita e dimostra la sua inettitudine alla politica fraintendendola con goffa onestà. Non è per nulla perfido di indole, è anzi incline alle cose intellettuali e ideali, ma considera la politica null’altro che menzogna e delitto, inganno e violenza, qualcosa insomma di pienamente e assolutamente lurido, e, quando vi si dedica per ambizione internazionale, la esercita in base a questa filosofia. Il tedesco come uomo politico si crede obbligato a comportarsi in modo da lasciare l’umanità inebetita: in questo egli crede consista la politica. Essa è per lui il male: ritiene quindi di dovere per essa trasformarsi in un vero diavolo.
Lo abbiamo veduto. Si sono compiuti delitti che nessuna psicologia può scusare, e che tanto meno sono scusabili per il fatto che essi erano superflui. Superflui furono infatti; la Germania avrebbe potuto farne a meno, avrebbe potuto perseguire i suoi piani di conquista e di potenza senza di essi. In un mondo in cui esistono i trusts e lo sfruttamento, l’idea di un’utilizzazione monopolistica di tutti gli altri popoli da parte del GoeringKonzern non era in fondo tanto strana. Malauguratamente quella concezione compromise il sistema dominante con le sue goffe esagerazioni. Inoltre come idea arrivò piuttosto in ritardo: oggi cioè, mentre ovunque l’umanità tende alla democrazia economica e lotta per un grado più alto della sua maturità sociale. I tedeschi arrivano sempre troppo tardi. Sono tardivi come la musica, che sempre di tutte le arti è l’ultima a esprimere una situazione mondiale: quando cioè tale situazione sta già per sparire. Sono astratti e mistici come quell’arte a loro dilettissima: e lo sono sino al delitto. I loro crimini, ripeto, non facevano parte essenziale della loro tardiva impresa di sfruttamento. Erano qualcosa di aggiunto, un lusso che si concessero per predisposizione teoretica, in omaggio a una ideologia, al fantasma della razza. Se questa formula non suonasse orribile attenuante, si vorrebbe dire che i tedeschi hanno commesso i loro crimini per idealismo e ignoranza del mondo. Talvolta, e non da ultimo nel considerare la storia tedesca, si ha l’impressione che il mondo non sia esclusiva creazione di Dio, bensì opera in collaborazione con qualcun altro. Si vorrebbe attribuire a Dio il fatto misericordioso che dal male può derivare il bene. Che poi dal bene venga così sovente il male, è evidentemente il contributo dell’altro. I tedeschi potrebbero domandare perché proprio per loro tutto il bene conduca al male, si trasformi in male nelle loro stesse mani. Pensino ad esempio al loro universalismo e cosmopolitismo originario, a quella sconfinatezza che può essere concepita quale accessorio psichico dell’antico Reich supernazionale, del Sacro Romano Impero di nazione tedesca. Una tendenza di valore positivo che tuttavia si trasformò in male per una specie di inversione dialettica. I tedeschi si lasciarono sedurre a basare sull’innato cosmopolitismo la pretesa di un’egemonia europea, anzi di un dominio universale, col che esso divenne il proprio preciso opposto, il più minaccioso e presuntuoso nazionalismo e imperialismo. Essi medesimi s’accorsero intanto d’arrivare ancora una volta troppo tardi col nazionalismo, quand’era ormai già superato. Vi sostituirono allora qualcosa di più moderno: la teoria della razza, che li ha subito condotti a mostruosi delitti e precipitati nelle più profonde sventure.
Oppure prendiamo la dote forse più celebre dei tedeschi, quella che si indica con una parola difficilmente traducibile, Innerlichkeit, interiorità, cioè delicatezza, profondità del cuore, singolarità sognante, culto della natura, purissima austerità di pensiero e di coscienza, insomma in essa si confondono tutti gli elementi della lirica sublime e quel che il mondo deve a tale interiorità tedesca non può esser dimenticato neppur oggi, poiché ne sono stati frutto la metafisica tedesca, la musica tedesca e particolarmente il miracolo del Lied tedesco, qualcosa di nazionalmente irripetibile e incomparabile. Il grande atto storico dell’interiorità tedesca fu la riforma di Lutero: noi l’abbiamo definita un possente atto di liberazione ed essa fu dunque qualcosa di buono. È però evidente che anche il demonio vi mise mano. La riforma porta la scissione religiosa dell’Occidente, un’indiscutibile sventura, e portò alla Germania la Guerra dei Trent’anni che la spopolò, la fece fatalmente retrocedere nella civiltà e con la dissolutezza e le epidemie rese il sangue tedesco probabilmente diverso e peggiore di quanto fosse stato nel medioevo. Erasmo da Rotterdam, che scrisse l’Elogio della pazzia, un umanista scettico e di scarsa interiorità, vide chiaramente quel che recava la riforma. «Se vedrai sorgere nel mondo spaventosi perturbamenti», egli disse, «ricordati che Erasmo li ha presagiti». Ma l’uomo violento e grandiosamente interiore di Wittenberg non era un pacifista; egli affermò tedescamente il tragico destino e si dichiarò pronto a «prendere sul suo collo» il sangue che sarebbe scorso.
Che cos’è il romanticismo tedesco se non l’espressione di quella bellissima fra le doti tedesche, l’interiorità tedesca? Nel concetto di romanticismo si fondono molti elementi di sognante nostalgia, di fantasticherie spettrali, di bizzarrie profonde e anche un’alta raffinatezza artistica, un’ironia che su tutto si libra. Ma non a questo io penso in realtà parlando di romanticismo tedesco, bensì ancor più a una certa fosca religiosità e potenza che potrebbe anche chiamarsi arcaismo dell’anima, che si sente vicino alle energie ctoniche, irrazionali e demoniache della vita, cioè alle vere sorgenti vitali e che si oppone a una considerazione e trattazione del mondo meramente razionale in grazia di una più profonda conoscenza e unione con ciò che è sacro. I tedeschi sono il popolo della controrivoluzione romantica dopo l’intellettualismo e il razionalismo illuministico: di una rivolta della musica contro la letteratura, della mistica contro la chiarezza. Il romanticismo non è per nulla debolezza e fantasticheria; è profondità cosciente della propria forza e pienezza; un pessimismo dell’onestà che si allea al reale, al vero, allo storico, contro la critica e il miliorismo, insomma con la potenza contro lo spirito, e tiene in scarsissimo conto ogni moralismo retorico e ogni mascheramento idealistico del mondo.
Qui troviamo l’alleanza del romanticismo con quel realismo e machiavellismo che ha celebrato le sue vittorie sull’Europa con Bismarck, l’unico genio politico della Germania. L’aspirazione tedesca all’unità e all’impero, incanalata da Bismarck nelle vie prussiane, venne fraintesa quando si volle vedervi, per analogia ai soliti modelli, un moto d’unificazione a carattere nazionale e democratico. Essa aveva tentato verso il 1848 di diventare qualcosa di simile, benché già le discussioni sulla Grande Germania nel parlamento della chiesa di San Paolo fossero sfiorate dall’imperialismo medievale e da reminiscenze del Sacro Romano Impero. Ma fu poi chiaro che il cammino democratico nazionale consueto in Europa per giungere all’unificazione non era quello tedesco. L’impero di Bismarck in ultima analisi non aveva nulla a che fare con la democrazia, e quindi neppure con la nazione nel senso democratico della parola. Fu una pura creazione di potenza, col fine di una egemonia europea, e, malgrado la sua modernità e la sua prosaica praticità, l’impero del 1871 si riallacciò ai gloriosi ricordi medievali, al tempo dei sovrani sassoni e svevi. Questo appunto fu caratteristico e minaccioso: la miscela di un robusto attualismo, di un progressismo produttivo, coi sogni del passato e con un romanticismo tecnicizzato. Il non sacro impero tedesco di nazione prussiana, sorto dalle guerre, non poté essere altro che un impero di guerra. Come tale esso ha vissuto, spina nella carne del mondo, come tale va ora in rovina.
Le benemerenze della controrivoluzione romantica tedesca verso la storia dello spirito sono incalcolabili. Hegel medesimo vi ha parte grandiosa, poiché è stata la sua filosofia dialettica a gettare un ponte sopra l’abisso scavato dall’illuminismo razionalista e dalla Rivoluzione Francese fra ragione e storia. L’aver esso riconciliato l’elemento ragione con quello della realtà diede potente impulso al pensiero storico, creò addirittura la scienza della storia, che sino a quel momento non era quasi esistita. Il romanticismo nella sua essenza è approfondimento, è in particolare immersione nel passato; nostalgia del passato e insieme senso di realistico apprezzamento per tutto quanto è legittimamente esistito, col suo colore locale e la sua atmosfera: non vi è dunque da stupirsi che esso sia riuscito di straordinario ausilio alla storiografia, l’abbia anzi propriamente inaugurata nella sua forma moderna.
Ricche e suggestive sono le benemerenze del romanticismo verso il mondo della bellezza anche quale scienza, quale dottrina estetica. Il positivismo e l’illuminismo intellettualistico non sanno che cosa sia la poesia: fu il romanticismo a insegnarlo a un mondo che moriva di noia per virtuoso accademismo. Il romanticismo rese poetica la morale, proclamando il diritto dell’individualità e della passione spontanea. Trasse dalla profondità del passato etnico i tesori delle fiabe e delle canzoni, fu in genere l’intelligente protettore del folclorismo, che nella sua luminosità variegata ci appare come una derivazione dell’esotismo. Riconoscendo la preponderanza sulla ragione dell’emozione, pur nelle sue forme meno consuete di estasi mistica e di ebbrezza dionisiaca, esso viene a porsi in un rapporto singolare d’inaudita fecondità psicologica con la malattia: e anche il tardo romantico Nietzsche, uno spirito sollevato esso medesimo dalla malattia verso la sfera mortale e geniale, non s’è stancato di celebrare il valore della malattia per la conoscenza. Sotto questo aspetto anche la psicanalisi, che significò un grande balzo in avanti del sapere umano procedendo dalla morbosità, è un’ultima propaggine del romanticismo.
Goethe ha dato la laconica definizione che il classicismo è la salute e il romanticismo la malattia. Triste sentenza per chi ami il romanticismo sin nei suoi peccati e nei suoi vizi. Ma è innegabile che esso, anche nelle sue manifestazioni più leggiadre, più eteree, le più popolari e le più sublimi ad un tempo, reca in sé un germe morboso, come la rosa cela il vermiciattolo, che esso cioè nella sua più intima essenza rimane seduzione, seduzione alla morte. In ciò sta il paradosso perturbante: il romanticismo, il quale rappresenta rivoluzionariamente le forze vitali razionali contro la ragione astratta e contro la superficialità umanitaria, appunto per questa sua dedizione all’irrazionale e al passato possiede una profonda affinità con la morte. In Germania, nella sua vera terra d’origine, ha conservato nel modo più intenso e terribile tale ambiguità iridescente, l’esaltazione della vitalità contro il moralismo e insieme l’affinità con la morte. Esso, in quanto spirito tedesco, in quanto controrivoluzione romantica, ha conferito impulsi profondi e vivificatori al pensiero tedesco, ma il suo orgoglioso senso della vita e della morte non s’è mai degnato di accettare dall’Europa, dalla religione europea dell’umanità e della democrazia, alcuna correzione o insegnamento. Nel suo aspetto di politica di potenza realistica, come bismarckismo, come vittoria germanica sulla Francia, sulla civilizzazione, con la nascita del Reich tedesco di ostentata e apparente gran robustezza, il romanticismo ha bensì costretto il mondo allo stupore, ma lo ha anche sconcertato e depresso, e, appena a quell’impero non fu più preposto il genio in persona, lo ha tenuto in perenne inquietudine.
Quel Reich unificato e basato sulla potenza fu per di più una delusione culturale. Dalla Germania che era stata un tempo la maestra dell’Europa non giungeva più nulla di spiritualmente grande. Essa era soltanto forte, ma in questa forza, al disotto di ogni capacità produttiva organizzata, continuava a svilupparsi il germe romantico della malattia e della morte. Vennero a nutrirlo sventure storiche, nonché le sofferenze e le umiliazioni di una guerra perduta. Finalmente, decaduto sino a un meschino livello plebeo, sino al livello di un Hitler, il romanticismo tedesco esplose in barbarie estetica, in un’ubriacatura e in una convulsione d’arroganza e di criminalità che trova ora la sua fine spaventosa nella catastrofe nazionale, in un collasso fisico e psichico che non ha eguali.
Quel che son venuto narrando, signore e· signori, è la storia della «interiorità» tedesca. Una storia malinconica: così almeno la definisco, senza parlare di «tragicità» perché la sventura dev’essere modesta. Ma questa storia deve insegnarci una cosa: che non vi sono due Germanie, l’una buona e l’altra malvagia, ma che viè una Germania soltanto, il cui bene per una perfidia del diavolo degenerò in male. La Germania malvagia è quella buona finita male, è quella buona nella sventura, è il bene precipitato nella colpa e nella rovina: Per questo a uno spirito nato tedesco non è possibile rinnegare totalmente la Germania cattiva e colpevole dichiarando: «io sono la Germania buona, nobile, giusta, dalla candida veste, e lascio a voi perché la distruggiate l’altra perfida Germania». Nulla di quel che qui ho tentato di dire o di accennare fuggevolmente intorno alla Germania proveniva da una mia cognizione estranea, rigida, staccata: io ho tutto dentro di me, ho tutto sperimentato su me medesimo.
In altre parole: tutto quello che, incalzato dal tempo, ho cercato di esporre qui, fu un frammento di autocritica tedesca: e in realtà non avrei potuto più fedelmente attenermi alla tradizione tedesca che facendo appunto così. La tendenza all’autocritica, spinta sovente sino alla nausea e allo strazio di se stessi, è specificamente tedesca, così che rimarrà sempre incomprensibile come mai un popolo tanto predisposto all’autoconoscenza abbia potuto in pari tempo concepire l’idea di un predominio universale. Per il dominio del mondo è anzitutto indispensabile l’ingenuità, una felice limitatezza, e persino una certa mancanza di premeditazione, non certo comunque una vita psichica estrema al pari di quella tedesca, dove l’arroganza si sposa alla contrizione. A fianco delle spietate verità che grandi tedeschi come Holderlin, Goethe, Nietzsche hanno formulato sulla Germania, non possiamo mettere alcunché di simile che mai un francese, un americano o un inglese abbia buttato in faccia al suo popolo. Goethe, almeno nei colloqui orali, giunse al punto di augurarsi una diaspora tedesca: «I Tedeschi bisognerebbe trapiantarli e disperderli per tutto il mondo al pari degli Ebrei», disse, aggiungendo però: «… affinché possano sviluppare a profitto delle nazioni tutta la massa di bene che è in loro».
«La massa di bene»; essa esiste, ma nella forma tradizionale dello stato nazionale non ha potuto attuarsi. Quanto alla dispersione per il mondo intero desiderata da Goethe per i suoi tedeschi, e alla quale essi certo dopo questa guerra sentiranno forte tendenza, provvederanno le leggi sull’immigrazione dei diversi paesi a mettere un catenaccio. Tuttavia, malgrado le crude lezioni impartiteci dalla politica di potenza per distoglierci da eccessive attese, non rimane forse la speranza che a questa catastrofe seguiranno con fatale necessità i primi passi esitanti verso una situazione mondiale in cui si scioglierà, anzi finirà per annullarsi, l’individualismo nazionale dell’Ottocento, offrendo forse alla «massa di bene» insita nell’indole tedesca maggior possibilità di attuarsi che non la condizione antica ormai insostenibile? Può darsi persino che la liquidazione del nazismo abbia schiuso la via a una riforma sociale del mondo capace di offrire le massime possibilità di fortuna appunto alle predisposizioni e alle esigenze più profonde della Germania. Economia mondiale, attenuato valore dei confini politici, tendenza di tutta la vita statale a sottrarsi alla politica, ridestarsi dell’umanità alla coscienza della sua unità pratica, prima intuizione di uno stato universale: tutto questo umanesimo sociale che trascende la democrazia borghese ed è posta di tutta la grandiosa lotta presente, come potrebbe rimanere estraneo e ostile alla natura tedesca? Nella sua paura del mondo vi fu sempre una grande sete di mondo; in fondo alla solitudine che l’esasperò rimase perenne, e chi lo può ignorare?, il desiderio di amare e di essere amata. In ultima analisi la sventura tedesca è soltanto il paradigma per la tragicità della vita umana, in generale.
Abbiamo bisogno tutti di quella Grazia di cui ha bisogno, e con tanta urgenza, la Germania.
Da: Thomas Mann, La Germania e i tedeschi, Roma, manifestolibri, pp. 359-380.
Traduzione italiana di Liviana Mazzucchetti