La dottrina sociale della chiesa cattolica

L’enciclica “Rerum Novarum” (15 maggio 1891)

Mario Mancini
17 min readMar 21, 2020

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Harold Lehman, “Il trivellatore” (murale, Rikers Island, New York), 1937. Adesso allo Smithsonian American Art Museum, Washington, DC

L’enciclica Rerum Novarum, emanata da Leone XIII il 15 maggio 1891, fu la più compiuta espressione della tendenza sociale cristiana che si era andata diffondendo in Europa dalla metà del secolo decimonono. Con tale atto la Chiesa precisò la sua posizione nei confronti del socialismo, come precedentemente, e ripetutamente, aveva fatto di fronte al liberalismo (enciclica Mirari vos di Gregorio XVI, Quanta cura di Pio IX, Immortale Dei dello stesso Leone XIII).

Tra la condanna del liberalismo e quella del socialismo venne rilevato, da parte cattolica, uno stretto legame che dimostrava la logica dei vari atteggiamenti della Chiesa. L’individualismo esaltato dal liberalismo, trasferito sul terreno economico, portava ad una più accentuata differenziazione sociale con l’arricchimento di pochi ed uno stato di miseria per gli altri; il socialismo, per reazione, proponeva, come unici rimedi efficaci, l’abolizione della proprietà privata e la conseguente comunione dei beni.

Quale posizione doveva assumere la Chiesa di fronte a questo fondamentale problema della società moderna? Le autorità ecclesiastiche si erano poste da tempo questa domanda, molto prima del 1891. Nella seconda metà del secolo xix erano sorti dei centri di studi sociali, uno dei quali, a Friburgo, in Svizzera, aveva preso il nome di «Union catholique d’études economiques et sociales»; altre riunioni si erano tenute a Roma.

Oltre questa preparazione dottrinale dell’enciclica, occorre rammentare l’esperienza personale che Leone XIII aveva avuto, come nunzio, in, Belgio allorché aveva assistito allo svilupparsi e ingigantire della questione sociale in quella nazione in seguito alla trasformazione industriale, e i tre grandi pellegrinaggi operai dalla Francia a Roma, susseguitisi a breve distanza di tempo nel 1887, nel 1889, nel 1891.

Il punto di vista della Chiesa sul problema sociale è fortemente polemico, come si è già detto, sia nei confronti dei liberali che dei socialisti. I cattolici dovevano affrontare la questione sociale in modo consono alla loro dottrina e alla tradizione plurisecolare della chiesa, nella convinzione che la soluzione del problema del rapporto tra datori di lavoro e lavoratori non poteva essere data dal prevalere degli interessi degli uni o degli altri, non poteva essere cioè capitalistica o socialistica, ma caratterizzata da una cooperazione tra capitale e lavoro, indispensabile per uno sviluppo ordinato della società, basato sul riconoscimento dei rispettivi diritti e doveri.

La abolizione della proprietà privata è errata in linea di principio, perché si tratta di un diritto naturale dell’uomo di cui questo non può essere privato, e in linea di fatto perché le disparità tra gli uomini non soltanto non sono eliminabili, ma, in certo modo, contribuiscono alla generale armonia della società.

D’altra parte non si poteva accettare il principio “liberale” secondo il quale il livello salariale doveva essere stabilito dal naturale rapporto tra la domanda e l’offerta, poiché quando il numero degli operai superava le necessità del mercato – il che accadeva assai di frequente –, il salario tendeva a diminuire al di là del lecito. Si doveva tendere, invece, a dare all’operaio una giusta retribuzione non solo per garantirgli un tenore di vita decoroso, ma per consentirgli di diventare un giorno proprietario nell’interesse sia del singolo lavoratore sia della società che con l’aumento dei proprietari avrebbe sicuramente acquistato una maggiore stabilità sociale.

Lo Stato, da parte sua, avrebbe dovuto vigilare che gli orari di lavoro fossero sopportabili e che le donne e i fanciulli venissero sottratti al loro ambiente naturale – la famiglia – per essere sfruttati nelle fabbriche. La tendenza dei lavoratori ad unirsi in associazioni per difendere le loro rivendicazioni era comprensibile: si trattava soltanto di evitare che tali associazioni venissero guidate da individui con sentimenti non cristiani. Questo pericolo però lungi dall’essere un motivo per vietare dette associazioni, doveva essere di sprone per crearne altre nelle quali prevalessero i principi cristiani.

È assai significativo che l’anno successivo all’emanazione dell’enciclica si tenne un congresso a Genova, organizzato da Giuseppe Toniolo, di studiosi cattolici di problemi sociali e che nel gennaio 1893 vide la luce la Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, destinata ad esercitare un’azione non trascurabile in quegli anni così ricchi, anche in Italia, di acuti contrasti sociali.

La scelta che segue è tratta da Chiesa e Stato attraverso i secoli cit. (pp. 369- 71, 376, 381-82, 386-87, 390-91, 395-96).

Sul problema generale cfr. L. Valiani, L’Italia dal 1876 al 1915 e L. Bortone, La cultura politica dell’Italia unita (in Storia d’Italia cit., IV, pp. 457- 631 e 653-736) e Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII. Atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1961.

Sul movimento cattolico cfr. F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, 2° ediz., Roma, Studium, 1960. G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98 cit.; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, Rinascita, 1953; P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma, Studium, 1957; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, Bari, Laterza, 2 voll., 1965.

Sulla Rerum Novarum cfr. il volume pubblicato dall’Università Cattolica del S. Cuore (Il XL anniversario della enciclica “Rerum Novarum”, Milano, 1931 e, soprattutto, G. Antonazzi, L’enciclica “Rerum Novarum”. Testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali, Roma, Storia e Letteratura, 1957.

Gravità della questione operaia.

L’ardente brama di novità, che da gran tempo ha incominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine congenere dell’economia sociale. E di fatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria, le mutate relazioni tra padroni e operai, Tessersi in poche mani accumulata la ricchezza e largamente estesa la povertà, la coscienza della propria forza, divenuta nelle classi lavoratrici più viva e l’unione tra loro più intima, questo insieme di cose e i peggiorati costumi, han fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità, che tiene in trepida aspettazione sospesi gli animi ed affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei savii, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i Consigli de’ principi, in guisa che oggi non v’ha questione che maggiormente interessi il mondo. Ciò pertanto che a bene della Chiesa ed a comune salvezza facemmo altre volte, Venerabili Fratelli, colle nostre lettere encicliche sui poteri pubblici, la libertà umana, la costituzione cristiana degli Stati ed altri siffatti argomenti, che Ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, il medesimo crediamo per gli stessi motivi di dover fare adesso sulla questione operaia. Toccammo già di questa materia, come ce ne venne occasione, più di una volta; ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero Ci muove a trattarla ora di proposito e pianamente, a fin di mettere in rilievo i principii, con cui secondo giustizia ed equità risolvere la questione…

La soluzione socialista

La soluzione socialista che nega il diritto di proprietà, è falsa e ingiusta.

A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri Podio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale a collettiva e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono radicalmente riparato il male.

Ma questa via, non che risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze ,e gli offici dello Stato e scompiglia tutto l’ordine sociale.

Perché nuoce agli stessi operai.

Ed invero non è difficile a capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone Partigiano è la proprietà privata; imperocché se egli impiega le sue forze, la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procacciarsi il necessario alla vita; perciò col suo lavoro acquista vero e perfetto diritto, non pur di esigere, ma d’investire, come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie venne a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, gli investì in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa, che la mercede medesima travestita di forma e conseguentemente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come sa ognuno, consiste la proprietà, sia mobile, sia immobile. Con l’accomunare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di vantaggiare il patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato e ne rendono perciò più infelice la condizione.

Offende i diritti naturali.

Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una patente ingiustizia, giacché diritto di natura è la proprietà privata. Poiché anche in questo passa gran divario tra l’uomo e il bruto; il bruto non governa se stesso; ma due istinti lo reggono e lo governano, i quali d’una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra, determinano e circoscrivono ogni suo movimento, cioè l’istinto della conservazione propria e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, a lui basta l’uso di quei determinati mezzi, che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo; possedendo egli nella sua pienezza la vita sensitiva, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale e lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza ossia la ragione; e appunto perché ragionevole si deve concedere all’uomo sui beni della terra qualche cosa di più che il semplice; uso comune anche agli altri animali, e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile, né proprietà soltanto di quelle cose, che si consumano usandole, ma eziandio di quelle che l’uso non consuma.

Il che torna più evidente, ove si penetri più addentro nell’umana natura; imperocché per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, l’avvenire e per la sua libertà, l’uomo, sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a se stesso. Egli deve adunque poter eleggere i mezzi, che giudica più propri al mantenimento della sua vita non solo pel momento che passa, ma pel tempo futuro. Ciò val quanto dire che oltre il dominio dei frutti, che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo vede essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni avvenire; imperocché i bisogni dell’uomo hanno, per dir così, una vicenda di perpetui ritorni, si ché sodisfatti oggi rinascono domani. Deve pertanto la natura aver dato all’uomo il diritto ai beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso, ond’egli abbisogna, beni che può somministrarli solamente la terra con la sua inesauribile fecondità.

Impossibile togliere dal mondo sia le disparità sociali …

Stabiliscasi dunque in primo luogo questo principio, doversi sopportare la condizione propria dell’umanità: torre dal mondo le disparità sociali, esser cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i Socialisti; ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile; imperocché grande varietà vi ha per natura negli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado, e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali e ciò torna a vantaggio sì dei particolari, sì del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici è la disparità di stato. E. quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo non sarebbe rimasto inoperoso: se non che quello che allora a ricreazione dell’animo avrebbe liberamente fatto la volontà, lo impose ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo , tu mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita.

… sia il dolore.

Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra, perché aspre, dure, difficili a tollerarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Laonde patire e sopportare è il retaggio dell’uomo e checché si faccia e si tenti, levar via affatto le sofferenze del mondo non vi è forza né arte che il possa. Coloro che dicono di poterlo e promettono alle misere plebi una vita scevra dì dolori e di pene e tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via. che riesce a dolori più grandi dei presenti. Il meglio si è guardare le cose umane quali sono e nel tempo medesimo cavare altronde, come dicemmo, ai mali il rimedio.

Opera della Chiesa

La Chiesa applica i suoi insegnamenti piegando le volontà.

Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano; imperocché ella è tutta in educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della dottrina sua scorrano e vadano per mezzo dei vescovi e del clero ad irrigare tutta quanta la terra; nel tempo stesso studiasi di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in questa parte che è capitalissima, come quella da cui infatti dipende tutto il vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia; imperocché gl’istrumenti, che adopera a muovere tutti gli animi, le furono dati a questo fine da Gesù Cristo ed hanno in sé virtù divina, sì che soli essi possono penetrare nelle intime fibre dei cuori e far che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo e abbattano animosamente tutti gli ostacoli, che attraversano il cammino della virtù.

Basta su ciò accennar di passaggio gli esempi antichi: ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio, cioè che per opera del Cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la società, che questa trasformazione fu un vero progresso dell’uman genere, anzi una resurrezione dalla morte alla vita morale e un perfezionamento non mai visto per l’innanzi, né sperabile maggiore per l’avvenire. Finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi benefizi, i quali scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’Incarnazione del Verbo e dell’umana redenzione, la vita di Gesù Cristo, Dio ed uomo, si trasfuse nella civile società e con la fede, i precetti, le leggi di lui l’informò. Laonde, se ai mah del mondo vi ha rimedio, questo rimedio non può esser altro, che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È solenne principio che, per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principii che le hanno data l’essere. La perfezione di ogni società è riposta nel tendere ed arrivare al suo scopo, talché il principio generatore dei modi e delle azioni sociali sia quel medesimo che generò l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione, tornare ad esso è salute. E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.

(Lo Stato) intervenga a tutela di tutti.

Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino, che la famiglia sieno assorbiti dallo Stato; giusto è invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare, quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia debbono i governanti tutelare la società e le sue parti, la società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere siffattamente, che la salute pubblica non è sola legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che, non a benefizio dei governanti è da natura istituito li governo. E poiché il potere politico viene da Dio., ed è una tal quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi ad esempio di questa, che con paterna cura provvede, non meno alle particolari creature, che a tutto l’universo. Ove dunque o alla società o a qualche sua parte sia stato recato, ovvero sovrasti danno, che non possa in altro modo ripararsi o impedirsi, l’intervento dello Stato è necessario. Ora interessa il privato, come il pubblico bene, che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica, che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principii di natura, che sia rispettata e praticata la religione, che fioriscano o pubblici e privati costumi, che sia inviolabilmente osservata la giustizia, che una classe di cittadini non opprima l’altra, che crescano sani e robusti cittadini, atti a vantaggiare e difendere, bisognando, la patria. Perciò se per ammutinamenti o per iscioperi degli operai si temano disordini pubblici, se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia, se la religione non sia rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri, se per la promiscuità del sesso cd altri incentivi al male, l’integrità dei costumi corra nelle officine pericolo, se dai padroni venga oppressa con ingiusti pesi o avvilita con patti contrari alla personalità e dignità umana la classe lavoratrice, se con lavoro soverchio o non conveniente al sesso e all’età, si rechi nocumento alla sanità dei lavoratori, in questo caso si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle .leggi. I quali confini sono determinati dalla causa medesima, ch’esige l’intervento dello Stato, che vai quanto dire, non dover le leggi andare al di là di ciò che richieda o il riparo dei mali o la rimozione del pericolo.

con speciale riguardo ai deboli;

I diritti vanno debitamente protetti in chiunque ne abbia, e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo con impedirne o punirne le violazioni. Se non che nel tutelare le ragioni dei privati, vuolsi avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno special- mente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato, perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua.

difenda la proprietà;

Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza: principalissimo è questo, dovere i governanti per via di savie leggi assicurar la proprietà privata. Oggi specialmente in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le plebi siano tenute a dovere, perché se ad esse giustizia consente di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia, né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba e, sotto colore di non so quale eguaglianza, s’invada l’altrui. Certo la massima parte degli operai vorrebbero migliorare condizione onestamente, senza far torto a persona; tuttavia ve ne ha non pochi, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, che cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai turbolenti, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione, i legittimi padroni da quello dello spogliamente.

offra garanzia di giusto salario;

Tocchiamo ora un punto di grande importanza e che va inteso bene, per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti; sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la parte sua, né sembra sia debitore di altro. Soltanto allora, che o non paghi l’intera mercede il suo padrone o non presti l’opera pattuita l’operaio, si commette ingiustizia e solo a tutela di questi diritti, non per altre cagioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento non può un equo estimatore delle cose consentire, né facilmente né in tutto perché egli non guarda la cosà da ogni lato; qualche considerazione vi manca di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana, ordinata a provvedere ai bisogni della vita e specialmente alla sua conservazione: tu mangerai il pane nel sudore della tua fronte. Ha dunque il lavoro nell’uomo come due caratteri impressigli dalla natura, cioè di essere personale, perché inerente alla persona e del tutto proprio di chi la esercita ed a cui però fu data: è la forza attiva; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro abbisogna all’uomo pel mantenimento della vita, mantenimento che è imprescindibile dovere imposto dalla natura. Or se guardisi al solo rispetto di personalità, non è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, imperocché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarlo affatto. Ben altro si deve dire, ove con la personalità si consideri la necessità, due cose logicamente distinte, realmente inseparabili. Infatti il conservarsi in vita è dovere, a cui niuno può mancare senza colpa; di qui nasce per necessaria conseguenza il diritto di procacciarsi i mezzi di sostenimento, che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro. Sia pur dunque che l’operaio e il padrone formino di comune consenso il patto nominatamente il quanto della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non sia inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale, s’intende, e ben costumato. Se questi costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più1 duri, i quali perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volere o non volere debbono essere accettati, questo è subire una violenza, contro la quale la giustizia protesta.

(Le associazioni operaie) Essendovene di spinto anticristiano

Certe società diversissime, massime di operai, vanno oggi moltiplicandosi più che mai. Di molte fra queste non è qui luogo d’indagare l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico, i quali col monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi seco, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due partiti: o iscriversi a società pericolose alla religione, o formarne di proprie e unire così le loro forze, per sottrarsi francamente da sì ingiusta e intollerabile oppressione. Or come esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non voglia mettere in pericolo il sommo bene dell’uomo?

è ottima cosa suscitarne di spirito cristiano.

Degnissimi d’encomio son molti tra i cattolici, che, conosciute l’esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo, a fine di migliorare onestamente la condizione degli operai e, presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico, di regolare secondo equità le relazioni tra lavoratori e padroni, di tener viva e profondamente radicata negli uni e negli altri la memoria del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici, precetti che, ritraendo l’animo da ogni sorta di eccessi, lo riducono a moderazione e tra la più grande diversità di persone e di cose mantengono nel civile consorzio, l’armonia. A tal fine vediamo spesso adunarsi dei congressi, dove uomini egregi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli esperimenti migliori; altre s’ingegnano di stringere acconciamente in società le varie classi operaie, le aiutano di consigli e di mezzi, procurano loro onesto e lucroso lavoro. Coraggio e patrocinio aggiungono i vescovi e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e l’altro clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente cattolici doviziosi, che fatta quasi causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese, per fondare e largamente diffondere associazioni, che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire onorato e tranquillo riposo. I vantaggi, che tanti e sì volenterosi sforzi han recato al pubblico bene, son così noti, che non occorre parlarne. Di qui pigliamo augurio a sperar bene dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più e siano saviamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da intrinseco principio e gli impulsi esterni lo soffocano.

e con organizzazione libera

Questa savia organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria, purché vi sia unità d’azione e di indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì egual diritto di scegliere pei loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine. Qual esso debba essere sulle singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi piuttosto determinare dall’indole di ciascun popolo; dall’esperienza e dall’uso, dalla qualità e dalla produttività del lavoro, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto; in sostanza si può stabilire come regola generale e costante, doversi le associazioni degli operai ordinare e governare in modo, da somministrare i mezzi più adatti e spediti al conseguimento del fine, il quale consiste in questo che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico e morale. È evidente poi che conviene avere in mira, come scopo precipuo, il perfezionamento religioso e morale e che a questo perfezionamento vuolsi indirizzare tutta la disciplina sociale, altrimenti tali associazioni tralignerebbero in altra natura e non si vantaggerebbero molto da quelle, in cui della religione non suol tenersi conto alcuno.

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.