La dottrina del fascismo

(1932)

Mario Mancini
10 min readApr 2, 2020

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Il 29 e il 30 marzo 1925 si tenne a Bologna un Convegno per la cultura fascista che al termine dei suoi lavori approvò un ordine del giorno che, tra l’altro, diceva:

«Di fronte all’equivoco in cui, o interessatamente o per ignoranza, è mantenuta all’estero la nozione del fatto fascista, nella sua storia, nella sua pratica, nel suo proposito, il convegno decide che sia redatto un documento chiaramente espositivo degli elementi anzidetti…».

Nacque così il Manifesto degli intellettuali del fascismo diffuso il 21 aprile dello stesso 1925, a cui rispose il contromanifesto di Benedetto Croce (Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti) pubblicato nel Mondo del 1° maggio successivo.

Il tentativo di teorizzare il fascismo fu ripreso e affrontato con maggiore impegno alcuni anni più tardi: nel giugno del 1932 veniva pubblicato il XIV volume dell’Enciclopedia italiana con la voce Fascismo (pp. 847-51) a firma di Benito Mussolini. Ripubblicato subito dopo, a parte, in un volume che iniziava la «Biblioteca della Enciclopedia italiana» e conteneva anche una storia del movimento fascista di Gioacchino Volpe (B. Mussolini, La dottrina del fascismo, Milano-Roma, 1933), il saggio si divideva in due parti ben distinte: le Idee fondamentali e la Dottrina politica e sociale; la prima, a carattere teorico e dottrinale, fu scritta, in realtà, da Giovanni Gentile, (ed è quella che qui riportiamo), la seconda, più “politica” in senso stretto, da Mussolini.

I punti che Gentile sviluppa nel suo scritto (e che aveva precedentemente svolti nel saggio del 1927 Origini e dottrina del fascismo, apparso nel volume dallo stesso titolo due anni più tardi) sono: coincidenza di prassi e pensiero, polemica antiliberale, differenziazione dai nazionalisti.

La coincidenza di prassi e pensiero rientrava nella polemica gentiliana contro la figura rinascimentale del “letterato” e per la rivalutazione delle idealità mazziniane del Risorgimento.

Nel binomio pensiero e azione il filosofo siciliano vedeva, infatti, la più netta e decisa presa di posizione contro la tradizione italiana, di origine appunto rinascimentale, che mirava a separare l’uomo di pensiero dai problemi della società, cioè dalla politica.

Lo stesso Cavour appare a Gentile «il maggiore pensatore politico che l’Italia abbia mai avuto», non per la maturità del suo pensiero (che anzi la sua idea di libertà basata sul razionalismo anglo-francese «teorizzatore dei pretesi diritti naturali dell’individuo singolo» era già stata superata dalle dottrine che avevano dimostrato che l’individuo non esiste se non come membro della società), ma per aver agito in modo del tutto diverso dalla sua impostazione ideologica, contrapponendo al liberalismo teorico un “machiavellismo pratico”, cioè un’azione politica guidata dal concetto di potenza (Cfr. C. Cavour, Scritti politici raccolti e pubblicati da G. Gentile, Roma, 1925).

In tal modo, non solo Gentile non avvertì alcuna opposizione tra gli ideali del Risorgimento e il fascismo, ma intese quest’ultimo come la logica e storica continuazione del primo, e stabilì invece una netta contrapposizione tra il liberalismo «che nega lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare» e il fascismo «che riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo», onde «per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste e tanto meno ha valore fuori dello Stato».

Ed è ancora lo Stato che crea la nazione, la quale, a giudizio di Gentile, non può essere intesa (e qui la polemica è contro i nazionalisti) come un dato, naturalisticamente, né può generare essa lo Stato (secondo la concezione ottocentesca) perché è soltanto questo «che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà e quindi un’effettiva esistenza».

Il testo che qui si dà della Dottrina del fascismo è tratto da B. Mussolini, Opera omnia a cura di E. e D. Susmel, vol. XXXIV, Firenze, La Fenice, 1961, pp. 117-21.

Sul periodo in generale cfr. L. Salvatorelli, Storia d’Europa, 2 voll., IV ed., Torino, Utet, 1961, G. Perticone, L’Italia contemporanea dal 1871 al 1948 (vol. IX della Storia d’Italia illustrata edita da A. Mondadori), Milano, 1962, e il V volume della citata Storia d’Italia coordinata da N. Valeri.

In particolare, oltre le opere citate nel testo, cfr. L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, nuova edizione; Emilio R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, Milano, Feltrinelli, 1958; Il fascismo. Antologia di scritti critici a cura di C. Casucci cit.; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965.

Dottrina politica e sociale del fascismo

1. Idee fondamentali

1. — Come ogni salda concezione politica, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è, immanente una dottrina e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro. quindi una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità, nella storia superiore del pensiero. Non si agisce spiritualmente nel mondo come volontà umana dominatrice volontà senza un concetto della realtà transeunte e particolare su cui bisogna agire, e della realtà permanente e universale in cui la prima ha il suo essere e la sua vita. Per conoscere gli uomini bisogna conoscere l’uomo; per conoscere l’uomo bisogna conoscere la realtà e le sue leggi. Non c’è concetto dello stato che non sia fondamentalmente concetto della vita: filosofia o intuizione, sistema di idee che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie in una visione o in una fede, ma è sempre, almeno virtualmente, una concezione organica del mondo.

2. — Così il fascismo non si intenderebbe in molti dei suoi atteggiamenti pratici, come organizzazione di partito, come sistema di educazione, come disciplina, se non si guardasse alla luce del suo modo generale di concepire la vita. Modo spiritualistico. Il mondo per il fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie, in cui l’uomo è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L’uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio; una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo.

3. — Dunque concezione spiritualistica, sorta anch’essa dalla generale reazione del secolo scorso contro il fiacco e materialistico positivismo dell’Ottocento. Antipositivistica, ma positiva: non scettica né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica, come sono in generale le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della vita fuori dell’uomo, che con la sua libera volontà può e deve crearsi il suo mondo. Il fascismo vuole l’uomo attivo e impegnato nell’azione con tutte le sue energie: lo vuole virilmente consapevole delle difficoltà che ci sono, e pronto ad affrontarle. Concepisce la vita come lotta pensando che spetti all’uomo conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in se stesso strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. Così per l’individuo singolo, così per la nazione, così per l’umanità. Quindi l’alto valore della cultura in tutte le sue forme (arte, religione, scienza) e l’importanza grandissima dell’educazione. Quindi anche valore essenziale del lavoro, con cui l’uomo vince la natura e crea il mondo umano (economico, politico, morale, intellettuale).

4. — Questa concezione positiva della vita è evidentemente una concezione etica. E investe tutta la realtà, nonché l’attività umana che la signoreggia. Nessuna azione sottratta al giudizio morale; niente al mondo che si possa spogliare del valore che a tutto compete in ordine ai fini morali. La vita perciò quale la concepisce il fascista è seria, austera, religiosa: tutta librata in un mondo sorretto dalle forze morali e responsabili dello spirito. Il fascista disdegna la vita “comoda”.

5. — Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica religiosa del regime fascista si è fermato a considerazioni di mera opportunità, non ha inteso che il fascismo, oltre ad essere un sistema di governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero.

6. — Il fascismo è una concezione storica, nella quale l’uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Donde il gran valore della tradizione nelle memorie, nella lingua, nei costumi, nelle norme del vivere sociale. Fuori della storia l’uomo è nulla. Perciò il fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e innovazioni giacobine. Esso non crede possibile la “felicità” sulla terra, come fu nel desiderio della letteratura economicistica del ’700, e quindi respinge tutte le concezioni teleologiche per cui a un certo periodo della storia ci sarebbe una sistemazione definitiva del genere umano. Questo significa mettersi fuori della storia e della vita che è continuo fluire e divenire. Il fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica; praticamente aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto.

7. — Anti-individualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica. È contro il liberalismo classico, che sorse dal bisogno di reagire all’assolutismo e ha esaurito la sua funzione storica da quando lo Stato si è trasformato nella stessa coscienza e volontà popolare. Il liberalismo nega, lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo. E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. È per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell’individuo nello Stato. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste e tanto meno ha valore fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.

8. — Né individui fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi). Perciò il fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l’unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale; e analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma nell’orbita dello Stato ordinatore le reali esigenze da cui trasse origine il movimento socialista e sindacalista, il fascismo le vuole riconosciute e le fa valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato.

9. — Gli individui sono classi secondo le categorie degli interessi: sono sindacati secondo le differenziate attività economiche cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto Stato. Il quale non è numero, come somma d’individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come deve essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti. Di tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo e formazione spirituale, come una coscienza e una volontà sola. Non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da un’idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità.

10. — Questa personalità superiore è bensì nazione in quanto è Stato. Non è la nazione a generare lo Stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servì di base alla pubblicistica degli Stati nazionali nel sec. XIX. Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà e quindi un’effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all’indipendenza deriva non da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere e tanto meno da una situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio diritto: cioè da una sorta di Stato già in fieri. Lo Stato infatti, come volontà etica universale, è creatore del diritto.

11. — La nazione come Stato è una realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa. Il suo arresto è la sua morte. Perciò lo Stato non solo è autorità che governa e dà forma di legge e valore di vita spirituale alle volontà individuali, ma è anche potenza che fa valere la sua volontà all’esterno, facendola riconoscere e rispettare, ossia dimostrandone col fatto l’universalità in tutte le determinazioni necessarie del suo svolgimento. E perciò organizzazione ed espansione, almeno virtuale. Così può adeguarsi alla natura dell’umana volontà, che nel suo sviluppo non conosce barriere, e che si realizza provando la propria infinità.

12. — Lo Stato fascista, forma più alta e potente della personalità, è forza, ma spirituale. La quale riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. Non si può quindi limitare a semplici funzioni di ordine e tutela, come voleva il liberalismo. Non è un semplice meccanismo che limiti la sfera delle presunte libertà individuali. È forma e norma interiore, e disciplina di tutta la persona; penetra la volontà come l’intelligenza. Il suo principio, ispirazione centrale dell’umana personalità vivente nella comunità civile, scende nel profondo e si annida nel cuore dell’uomo d’azione come del pensatore, dell’artista come dello scienziato: anima, dell’anima.

13. — Il fascismo insomma non è soltanto datore di leggi e fondatore di istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Vuol rifare non le norme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda addentro negli spiriti e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il fascio littorio, simbolo dell’unità, della forza e della giustizia.

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età conteporanea, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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