La disciplina militare prussiana

Mario Mancini
10 min readJan 24, 2020

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Federico il grande e l’esercito (1756–1757)

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Illustrazione di Carl Röchling (1890) per il libro “Die Potsdamer Wachparade bei Leuthen”

Nei documenti che seguono sono registrati due aspetti tra i più caratteristici dell’esercito prussiano nell’età fridericiana: da un lato l’altissimo spirito militare del corpo degli ufficiali, fondamento primo e cardine della straordinaria efficienza dello strumento di guerra creato dal Grande Elettore e sviluppato dal Re Sergente; dall’altro la disciplina durissima e talora brutale, nella quale trovavano ancora posto non piccolo le punizioni corporali, alla quale erano assoggettati i componenti della truppa.

Era questo che dava all’esercito di Federico il Grande quel carattere “meccanico” e “senz’anima”, che i grandi riformatori prussiani dell’età napoleonica si sforzarono poi di superare creando un esercito fondato sul servizio militare obbligatorio, con “ferma” breve (due o tre anni, tranne che in tempo di guerra), per tutti i cittadini, e quindi più vicino allo spirito del paese. Fu questo il sistema adottato gradualmente da tutte le altre nazioni nel corso dei secoli XIX e XX.

Il primo dei due documenti è un discorso rivolto da Federico il Grande ai generali e agli ufficiali dello Stato Maggiore il 3 dicembre 1757, due giorni prima della battaglia di Leuthen (Slesia), avvenuta il 5 dicembre 1757, durante la guerra dei Sette Anni. A Leuthen Federico il Grande vinse contro gli Austriaci una battaglia che fu, a giudizio di Napoleone, il suo capolavoro.

Nonostante la strepitosa vittoria riportata il 5 novembre precedente a Rossbach contro i francesi, la situazione dell’esercito prussiano era assai difficile, a causa degli insuccessi riportati da corpi minori a Grossjagersdorf e a Breslavia. Federico ebbe notizia, il 4 dicembre, che gli austriaci, lasciato il campo trincerato di Breslavia, si erano schierati su una linea appoggiata ai villaggi di Leuthen al centro, Sagschütz a sinistra e Nypern a destra, e rafforzata da ostacoli e da numerose artiglierie. Con 33 mila uomini il Re di Prussia mosse allora all’attacco di un avversario forte di 82.000 uomini.

Fu una classica applicazione di quell’”ordine obliquo” al quale è soprattutto legato, nella storia dell’arte militare, il nome di Federico il Grande. Travolto un avamposto di cavalleria avversaria a Borne, egli fece poi ruotare a destra tutto l’esercito, che scomparve dietro alcune alture fronteggianti l’ala sinistra degli austriaci, mentre il comando avversario pensava che si trattasse di una ritirata.

Per di più la destra austriaca si credeva minacciata e chiese e ottenne rinforzi, mentre i prussiani marciavano invece contro la sinistra, su due colonne «che conservarono la loro distanza con una esattezza che ha suscitato l’ammirazione di generazioni di soldati. Nel luogo stabilito essi ruotarono su una linea di battaglia obliqua al fronte austriaco e, in un grande scaglionamento a scacchiera, — con la cavalleria dell’ala destra avanti e quella della sinistra defilata, — Federico avanzò su Sagschütz».

Gli austriaci, sorpresi, furono travolti e respinti verso il loro centro, a Leuthen, dove si ammucchiarono tutto l’esercito e le artiglierie: essi furono sloggiati e messi in rotta nonostante l’accorrere di forze provenienti dall’ala destra in un fallito contrattacco.

Gli austriaci perdettero da 27 a 28 mila soldati, (di cui 21 mila prigionieri), 116 cannoni, 51 bandiere e 4000 carri, mentre le perdite prussiane ascesero solo a 6000 unità. Nei giorni successivi 17.000 austriaci furono catturati a Breslavia, altri furono presi durante l’inseguimento o passarono alle bandiere prussiane, sì che in pochi giorni l’armata austriaca perdette due terzi dei suoi effettivi.

Sulla battaglia di Leuthen cfr. W. Oncken, L’epoca di Federico II Grande, trad, it., Milano, 1893, tomo II, pp. 230–235; e inoltre P. Schiarini, in Enciclopedia Italiana (Treccani) vol. XXI, p. 7; Encyclopedia Britannica, vol. XIII, p. 974. Il discorso di Federico il Grande ci è pervenuto attraverso le redazioni di due testimoni — una più ampia del capitano Retzow e l’altra, più breve, di F.W. zu Putlitz, paggio di Federico il Grande — in Die Werke Friedrichs des Grossen [Le opere di Federico il Grande], ed. G. B. Volz, vol. III, Berlino, 1913, pp. 224-225.

Il secondo documento è tratto invece dai ricordi autobiografici di Ulrich o Uli Bräker. Nato il 22 dicembre 1735 a Näpis (Wattwill) nel Cantone di San Gallo (Svizzera), da una famiglia di contadini, nell’infanzia egli fu guardiano di pecore e contadino egli stesso. Nel 1756, assunto, in apparenza come servitore, da un “arruolatore” prussiano, il tenente Markoni, venne spedito, col pretesto di una commissione, a Berlino, dove, con suo sommo sbalordimento, si trovò arruolato nell’esercito prussiano: a nulla valsero le sue proteste e i suoi reclami, e le esperienze militari dell’involontario soldato sono appunto descritte nelle pagine qui riportate.

La brutta avventura, tuttavia, ebbe breve durata: scoppiata infatti nello stesso 1756 la guerra dei Sette Anni, egli colse l’occasione della prima battaglia di tutta la guerra, vinta da Federico il Grande contro gli austriaci a Lobositz il 1° ottobre 1756, per disertare e tornare in patria. Datosi all’agricoltura e al commercio dei filati, nel 1761 prese moglie; fece poi vaste letture e compose alcuni scritti di notevole valore, tra cui Etwas über Shakespeare [Qualcosa su Shakespeare]. Morì l’11 settembre 1798. Alcune pagine dei suoi ricordi: Das Leben und die Abentheuer des Armen Mannes in Tockenburg, vom ihm selbst erzählt [La vita e le avventure del poveruomo del Toggenburg da lui stesso raccontate], 1787, ed. A. Wilbrandt, 4°ed., 1910, sono riportate da G. Guggenbühl e H. C. Huber, Quellen zur Geschichte der Neueren Zeit [Fonti sulla storia dell’età moderna], 2° ed., Zurich, 1956, pp. 333–335: su di esse è stata condotta la traduzione delle pagine che seguono. Sulla pratica dell’arruolamento forzoso nell’esercito prussiano e in genere per una caratterizzazione di esso nell’età, del Re Sergente, cfr. E. Sestan, Europa Settecentesca ed altri saggi, Milano-Napoli, 1951, pp. 31–46.

Discorso di Federico il Grande allo stato maggiore prussiano (3 dicembre 1737)

Signori, io li ho fatti venire anzitutto per ringraziarli dei fedeli servizi che da tempo hanno prestato alla patria ed a me. Io li riconosco con l’animo più caldo. Non c’è quasi nessuno tra loro che non si sia segnalato attraverso una grande ed onorevole azione. Affidandomi al loro coraggio e alla loro esperienza, io ho fatto il piano per la battaglia che darò e devo dare domani[1]. Contro tutte le regole dell’arte attaccherò un nemico quasi due volte più numeroso, e trincerato su alture. Devo farlo, o tutto è perduto. Noi dobbiamo battere il nemico o farci tutti seppellire davanti alle sue batterie. Così io penso, e così farò. Se c’è qualcuno tra loro che non la pensa così chieda qui subito il suo congedo. Io glielo concederò senza il minimo rimprovero.

Mi aspettavo che nessuno di loro mi avrebbe lasciato; così, io conto interamente sul loro fedele aiuto e sulla certa vittoria. Se io dovessi cadere, e perciò non potessi compensarli per ciò che faranno domani, lo farà la nostra patria. Vadano al campo e dicano ai lor reggimenti ciò che io ho loro detto qui, e li assicurino che osserverò attentamente ciascuno di essi. Il reggimento di cavalleria che, appena sarà ordinato, non si lancerà à corps perdu sul nemico, subito dopo la battaglia lo farò appiedare, e lo trasformerò in un reggimento di guarnigione. Il battaglione di fanteria che, si trovi dovunque vuole, comincerà anche solo a vacillare, perderà le bandiere e le sciabole, e io gli farò tagliare i fregi dall’uniforme. Ora stiano bene, Signori: domani a quest’ora noi avremo battuto il nemico, o non ci rivedremo mai più.

Ulrich Bräker: la vita e le avventure del poveruomo del Toggenburg

La prima settimana ebbi ancora vacanza. Andai in giro per la città su tutte le piazze d’armi, vidi come gli ufficiali passavano in rassegna e bastonavano i loro soldati, e questo già in anticipo mi fece venire alla fronte un sudore freddo di paura. Chiesi allora a Zittermann[2] di mostrarmi a parte il maneggio delle armi: «tu imparerai bene, — diss’egli, — ma dipende dalla rapidità. Perché ciò va fatto in un lampo». In effetti fu così buono da insegnarmi realmente tutto: come dovevo tener pulito il fucile, stirare l’uniforme, pettinarmi alla maniera dei soldati. Per consiglio di Cran[3] vendetti i miei stivali e in cambio acquistai una cassetta di legno per la biancheria. Nella caserma mi addestravo continuamente negli esercizi militari, leggevo il libro degli inni di Halle[4] o pregavo. Poi passeggiavo un po’ lungo la Sprea e vedevo là centinaia di soldati che si occupavano di caricare o scaricare merci, oppure [giravo] per i cantieri, dove pure tutto era pieno di guerrieri intenti al lavoro. Altre volte nelle caserme, dove trovavo dovunque i medesimi che esercitavano cento mestieri diversi, dall’opera d’arte alla conocchia. Se andavo alla sede del corpo di guardia, ce n’erano alcuni che giocavano, bevevano o schiamazzavano, altri che fumavano pacificamente le loro pipe e chiacchieravano, o, anche, uno leggeva un libro di edificazione e lo spiegava agli altri. Nelle osterie e nelle birrerie accadeva lo stesso. In breve, a Berlino, fra i militari — come, credo, dovunque, nei grandi Stati, — c’è gente di tutte le quattro parti del mondo, di tutte le nazioni o religioni, di tutti i caratteri e di ogni professione, con cui uno in via ausiliaria può guadagnare il proprio pezzo di pane. Pensavo anch’io di potermelo guadagnare, se solo potevo fare in modo adeguato gli esercizi militari… E finalmente se tutto doveva mancare, trovavo una misera consolazione nell’idea: se mai si va in guerra, il piombo risparmierà quei figli della fortuna tanto poco quanto te, povero pitocco! Così tu vali quanto loro.

La seconda settimana dovetti andare tutti i giorni sulla piazza d’armi, dove, senza aspettarmelo, trovai tre miei compatrioti, Schärer, Bachmann e Gästli, che si trovavano tutti con me nello stesso reggimento Itzenblitz, e i primi due addirittura nella stessa compagnia Lüderitz. Allora, prima di ogni cosa dovetti imparare a marciare sotto un arcigno caporale dal naso storto, che si chiamava Mengke. Quel tipo non potevo sopportarlo a nessun costo: quando mi picchiava sui piedi il sangue mi saliva alla testa. Sotto le sue mani non avrei potuto capire mai nulla. Hevel[5], che con i suoi uomini manovrava sulla stessa piazza, una volta notò questo, mi cambiò con un altro, e mi prese nel suo plotone. Questo fu per me una grande gioia; adesso compresi in un’ora più che prima in dieci giorni…

Berlino è il luogo più grande che io abbia visto al mondo, e perciò fui ben lontano dal poterlo girare per intero. Noi tre svizzeri facevamo spesso il progetto di un tale viaggio; ma a volte ci mancava il tempo, a volte il denaro, o eravamo così stanchi dalle fatiche, che più volentieri ci mettevamo lunghi distesi… Allora la nostra immaginazione involontariamente ci conduceva quasi sempre in Svizzera, e ci raccontavamo l’un altro la nostra vita a casa: come si stava bene, come eravamo stati liberi, e che maledetta vita era quella che facevamo qui. Allora facevamo piani di fuga. A volte speravamo che oggi o domani potesse riuscirci; altre volte vedevamo davanti a ogni cosa una montagna invalicabile; soprattutto ci spaventava la previsione delle conseguenze di un tentativo fallito. In particolare quasi tutte le settimane sentivamo nuove paurose storie di disertori catturati, i quali anche se avevano adoperato grande astuzia, si erano camuffati da marinai o da altri lavoratori o anche da donne, e nascosti dentro botti e barili, tuttavia venivano scoperti. Allora dovevamo vedere come li si faceva passare sotto le bacchette da duecento uomini, otto volte su e giù per una lunga strada, finché essi cadevano senza fiato; e come il giorno successivo dovevano correre di nuovo, con gli abiti lasciati cadere dalle spalle tagliuzzate, e come di nuovo si colpiva là sopra, finché cenci intrisi di sangue cadevano loro sui pantaloni. Allora Schärer ed io ci guardavamo tremanti e mortalmente pallidi, e ci sussurravamo nell’orecchio: «maledetti barbari»! Ciò che poi accadeva sulla piazza d’armi ci dava motivo ad analoghe considerazioni. Anche lì non c’era fine all’imprecare e al frustare di giovani nobilotti pronti a far uso del bastone, e al lamentarsi dei percossi. Noi stessi eravamo sempre dei primi sul posto, e ci davamo da fare zelantemente. Ma non ci faceva meno male nell’animo vedere altri trattati per ogni piccolezza in questo modo, senza alcuna misericordia, e noi stessi per tutto il tempo così maltrattati: a dover stare spesso per cinque ore intere, stretti nella nostra uniforme come avvitati, a marciare diritti come pali in tutte le direzioni, e a fare ininterrottamente manovre rapide come il lampo, e tutto ciò agli ordini di un ufficiale che stava davanti a noi col viso furioso e col bastone alzato, e che minacciava tutti i momenti di colpire come sopra cavoli. Con un simile trattamento anche il tipo più robusto doveva diventare mezzo azzoppato, e il più paziente eccitabile. Quando poi ce ne andavamo stanchi morti in caserma, si andava di nuovo a rompicollo a pulire il nostro bucato, e a togliere ogni macchiolina, poiché la nostra uniforme era bianca ad eccezione della giubba azzurra. Fucile, giberna, berretto, ogni bottone dell’uniforme, tutto doveva essere lustrato come uno specchio. Se in uno di questi pezzi si mostrava la più piccola improprietà o un capello non stava a posto nella pettinatura, quando si veniva sulla piazza il primo saluto era un grosso colpo di bastone…

Ciò continuò per tutto maggio e giugno. Neanche la domenica avevamo libera, perché dovevamo fare la migliore figura in chiesa. Così per quelle passeggiate ci restavano solo poche ore disperse, e noi non avevamo tempo quasi per nient’altro che per soffrire la fame… Allora io cominciai ad immalinconirmi, e con nessun uomo potevo abbastanza lamentarmi della mia sciagura dal profondo del cuore. Di giorno andavo attorno come un’ombra sul muro, di notte mi mettevo alla finestra, guardavo piangendo su in alto alla luna, e le raccontavo la mia amara miseria:

Tu che ora stai sospesa anche su Tockenburg, di’ alla mia gente laggiù quanto sono infelice, di’ ai miei genitori, ai fratelli e alle sorelle, alla mia Anna, come soffro di nostalgia, come sono loro fedele, e che essi tutti preghino Iddio per me. Ma tu taci così tranquilla, prosegui impassibile per la tua via. Ah, potessi io essere un uccelletto, e volare dietro di te verso la mia patria. Povero, sconsolato uomo che sono io. Dio abbia compassione di me! Volevo costruire la mia fortuna, e ho edificato la mia miseria.

Note

[1] Come si è detto nelle note introduttive, la battaglia in realtà ebbe luogo due giorni dopo, il 5 dicembre (R.T.).

[2] Christian Zittermann, altro soldato (R.T.).

[3] Altro soldato (R.T.).

[4] Libro di preghiere pietista (R.T.).

[5] Sergente maggiore di cavalleria, già arruolatore, che Braker aveva conosciuto durante il suo viaggio dalla Svizzera a Berlino (R.T.).

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.