La creazione è un viaggio?

La Fondazione Louis Vuitton a Parigi

Mario Mancini
8 min readJul 23, 2021

--

di Valentina Sonzogni

Vai agli altri articoli della serie “Scampoli d’arte e di pensiero”

La sede della Fondazione Louis Vuitton rivestita dal pittore e scultore francese Daniel Buren.

È una giornata tiepida Parigi, il giorno in cui mi incammino per rendere il doveroso omaggio al nuovo tempio dell’arte costruito da Frank Gehry. Da pochi giorni circola sul web la foto in cui l’architetto canadese alza il dito medio contro un giornalista, reo di avergli chiesto se l’architettura è spettacolo.

Effettivamente era dai tempi del geniale Guy Debord che nessuno faceva una domanda così … ma tant’è: l’immagine ha fatto il giro del mondo e i soliti due schieramenti che caratterizzano tutte le discipline sono scesi in piazza:

“Gehry è uno stolto!” “No, ha ragione”, “Ormai è troppo vecchio”, “È troppo stressato” etc. etc. Per chi volesse approfondire l’argomento i dettagli sono qui, raccontati da “The New Yorker”.

La verità è un’altra: forse sarà da stolti chiedere se l’architettura sia solo parte dello spettacolo diffuso che caratterizza il nostro tempo, ma è tuttavia legittimo chiedersi se la gente sia stufa di un certo tipo di architettura, delle cosiddette “grandi opere”, delle architetture del lusso e di tutto quello che, una volta costruito, occupa l’ambiente che ci circonda senza occupare le nostre riflessioni sull’architettura. Ecco, forse questo è il punto.

Un edificio favoloso

L’edificio, per carità, è favoloso e lo capisco appena entro al parco dal fiume di gente che scorre verso l’ingresso del parco, lo supera, per dirigersi verso una gigantesca struttura a metà tra una nuvola e un carapace di animale. Da lontano se ne percepisce tutta la grandezza e la maestosità e si rimane a bocca aperta.

Le borsette sono chiaramente un pretesto: questo è uno spazio espositivo all’ennesima potenza e un viaggio all’interno della creazione e dei suoi meandri che caratterizzano il lavoro di Gehry e Vuitton allo stesso tempo.

Entrambi, infatti, pongono l’accento sulla creatività di un lavoro che, nonostante gli esiti di lusso, parte da una scarna artigianalità. Le borse superchic di Vuitton sono state pubblicizzate per molti anni da un’anonima mano che ne cuciva a mano le giunture.

A sua volta, i modelli di Gehry sono spesso realizzati con materiali di scarto, assemblati alla meglio, mentre simulano una certa sprezzatura tipica del genio creativo. Non meraviglia, allora, che questi due colossi della creatività si siano accoppiati per dar vita a un progetto molto ambizioso di spazio espositivo nella città che ospita già il Centre Pompidou di Renzo Piano e Richard Rogers.

La Fondation Louis Vuitton

Costata circa 143 milioni di dollari, la sede della Fondation Louis Vuitton è stata ideata e voluta da Bernard Arnault, il presidente e amministratore delegato di LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessey), la multinazionale del lusso che parla francese. Non è la prima volta di Gehry a Parigi: molti anni fa, prima di Bilbao, si viaggiava in Europa tra Praga e Parigi per vedere dal vivo le opere di Gehry.

Mentre il cosiddetto Ginger e Fred a Praga, più recentemente rinominato con l’orrido nomignolo di “Casa danzante” progettato da Gehry con Vlado Milunić tra il 1992 e il 1996 restava sconosciuto ai più.

L’American Center, terminato nel 1994 e brevemente aperto al pubblico fino al 1996, nella sua timidezza e con il suo carattere così europeo con qualche sprazzo americano sembrava davvero l’alba di una nuova era.

Schiere di studenti, tra cui la sottoscritta, si recavano a pellegrinaggio nel parco di Bercy che lo ospita, per scattare qualche foto a questo edificio che, giocando con i colori e il materiale dell’architettura parigina, le decostruiva gentilmente.

Recentemente ridestinato a ospitare la Cinémathèque Française, il primo edificio parigino di Gehry si pone in un interessante dialogo con la nuova commissione, nel modo in cui entrambi trasgrediscono e ripsettano i limiti posti dall’ambiente e dalla storia urbana parigina.

I francesi contro Gehry e Arnaud

Gehry contro Gehry? Non proprio, ma forse qualche elemento di contraddizione è presente nell’opera del grande architetto e non a caso la creazione, nei poster pubblicitari che hanno accompagnato l’atterraggio di questo edificio-insetto, viene definita “un viaggio”.

Come ogni viaggio pieno di ostacoli, ritardi e fulminei cambi di programma, l’edificio è nato nella mente di committente e architetto nel 2001, dopo che Arnault, affascinato dal Guggenheim Bilbao, iniziava a pensare a una sede per la sua collezione d’arte.

Alta moda e architettura: chi meglio di Gehry avrebbe potuto dare un’identità a questo ambizioso progetto nell’area del Jardin d’Acclimatation, un parchetto per bambini con qualche animale da osservare dietro le reti e altalene, scivoli e collinette artificiali, appena fuori l’elegante sedicesimo arrondissement parigino.

Con l’eleganza del brand e l’artificialità del parco, Gehry sembra essere a suo agio: l’edificio è tutto un alternarsi di scorci, un cambiare di altezze e prospettive nella cornice di materiali e superfici perfette.

Quello a cui Gehry forse non era preparato, però, è lo spirito combattivo dei francesi a cui non è andato giù che un edificio privato, progettato e costruito fuori dalle strette maglie della burocrazia francese fosse ospitato su un terreno percepito dai più come appartenente alla cosa pubblica, pur effettivamente essendo sorto su una parte del parco data in concessione a LVMH.

Il comune di Parigi ha indugiato moltissimo prima di concedere le concessioni necessarie per edificare e la condizione è stata che dopo un certo periodo di anni l’edificio andasse alla comunità. E così sarà.

L’entrata a gamba tesa di Gehry e Arnault nella sfera della République, non ha però alterato la percezione a scala mondiale di questo edificio che nonostante le proteste di qualche gruppo NIMBY (Not In My BackYard) ha inaugurato in compagnia di tutto il mondo dell’arte internazionale con plauso degno del Grand Palais, di cui l’edificio parigino è un legittimo discendente.

Maestro incontrastato dell’architettura museale

La prima impressione è che Gehry ormai abbia imparato a costruire musei e affini e ne sia diventato ormai il maestro incontrastato.

Diventato con il Guggenheim Bilbao il cattivo maestro degli architetti che alla sua libertà dalle catene delle gallerie espositive “white cube” si sono ispirati per riempire il mondo di curve paraboliche e pareti di vetro che hanno fatto impazzire conservatori e curatori all’inizio del nostro secolo e oltre, Gehry progetta ormai i suoi edifici a partire dalle gallerie espositive, pristini templi all’arte contemporanea che garantiscono la soddisfazione dei visitatori (La Fondation Louis Vuitton non è costruita su un gesto di mecenatismo: il biglietto di ingresso costa ben 20 €).

L’edificio è introdotto da una grande scalinata d’acqua che, scorrendo a ciclo continuo, forma uno specchio sul quale si affacciano l’auditorium da 350 posti e gli uffici. La scalinata può essere utilizzata anche per le sfilate di moda e passerelle di vario tipo, una volta chiusa l’acqua che vi scorre giorno e notte, circondando l’edificio di un sottofondo molto piacevole di cascata.

A livello dell’acqua, una splendida installazione di Olafur Eliasson accoglie i visitatori e si presta a servizi fotografici a mezzo cellulare: è praticamente questo l’implicito messaggio dell’opera intitolata Inside the Horizon, 2014, in cui si invitano gli spettatori a postare le loro foto sui social media di artista e fondazione.

Ormai l’invito a fotografare, a postare e a condividere sulla rete è diventato una delle abitudini, peraltro consentite e incoraggiate ufficialmente, più diffuse sia in ambito turistico che culturale. Non c’è dubbio che questo complesso sarà uno dei soggetti che riscuoterà maggiore successo.

L’interno

L’interno del museo è quello di un edificio funzionalissimo sotto tutti gli aspetti in cui, dimenticata la mano libera che l’ha generosamente creato, Gehry si riconcilia con il Le Corbusier della Chiesa di Ronchamp (Cappella di Notre-Dame du Haut), che ancora oggi, dopo 60 anni dalla sua ultimazione, rappresenta il più potente simbolo dell’architettura razionalista francese.

Il bello è ormai pienamente riconciliato con l’utile e le opere di Thomas Schütte e Bertrand Lavier, tra gli altri, trovano un ambiente che le accoglie generosamente, mettendone in rilievo la loro indiscussa maestosità.

Un insieme veramente impressionante.

Il rivestimento e la vista

Salendo i livelli, ci si rende conto che l’edificio è effettivamente composto da due parti ben distinte: un museo di ben 11.700 metri quadrati di cemento armato sul quale si innestano i cosiddetti “iceberg”.

Gli iceberg sono circa 19.000 pannelli irregolari di un innovativo materiale composto di fibra e cemento che lascia filtrare la luce conferendo un forte carattere all’intero edificio.

Come abito esterno, Gehry ha scelto delle enormi vele di vetro fissate su complessi snodi di legno e acciaio high-tech che si aprono su Parigi e sul cielo atlantico con le nuvole che corrono via veloci nell’una e nell’altra direzione.

Gehry dialoga con Renzo Piano qui: i musei parigini non sono soltanto dei contenitori per le collezioni d’arte ma sono anche dei dispositivi per guardare la città, che da sempre, ama essere un diorama a cielo aperto, un’enorme scenografia sul quale si dispiega la vita.

Sembra proprio che la creazione di Gehry seguirà il destino della Tour Eiffel, da sempre amata o odiata al punto di spingere lo scrittore Guy de Maupassant a mangiare lì ogni giorno per non vederla, quella torre, che egli odiava visceralmente.

Alla Fondation Louis Vuitton il ristorante si chiama addirittura “Le Frank”, si apre sul verde del Jardin d’Acclimatation e la Torre Eiffel non si vede. Chissà se Maupassant redivivo verrebbe mai qui a mangiare.

Chissà?

Le fotografie sono dell’autrice

Valentina Sonzogni storica dell’architettura e dell’arte, ha ottenuto il PhD presso l’Universität für Angewandte Kunst di Vienna in Storia e teoria dell’architettura con una tesi sull’architetto Ico Parisi. Ha lavorato presso numerose istituzioni tra le quali Kiesler Foundation, Vienna; The Guggenheim Foundation, New York e ha pubblicato in riviste e cataloghi tenendo conferenze in università italiane ed estere. Dal 2008 lavora presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Si occupa di studi animali e di antispecismo e ha pubblicato, con Leonardo Caffo, Un’arte per l’altro. L’animale nella filosofia e nell’arte (edizione digitale: goWare, 2013; edizione cartacea: Graphe.it 2014), tradotto in diverse lingue.

Il suo blog è: Coin Tray | In times of crisis it’s better to go digital.

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.