La confessione augustana
1530: le tesi di Melantone
La Confessio fidei exhibita invictissimo Imperatori Carolo V Caesart Augusto in Comitiis Augustae fu letta dai luterani davanti all’imperatore e ai principi dell’Impero, il 25 giugno 1530. Filippo Schwarzet, detto Melantone, secondo l’uso degli umanisti, al quale soprattutto si dovette la sua redazione, era nato a Bretten (Palatinato) il 16 febbraio 1497. Dopo avere studiato ad Heidelberg e a Tubinga, passò a insegnare greco nell’Università di Wittenberg, come collega di Lutero che, come è noto, teneva la cattedra di teologia in quella Università.
Egli aderì alle posizioni del riformatore e, grazie alla sua profonda e vasta cultura, svolse una funzione importantissima di mediazione tra il luteranesimo e il mondo degli umanisti. Temperamento riflessivo e mite, assai diverso dall’impetuoso Lutero, egli divenne dopo di questi, al quale fu sempre legatissimo, la figura più eminente tra i riformatori della prima generazione. Morto nel 1560 a Wittenberg, i suoi numerosi scritti sono da vedere in Philippi Melanthonis opera quae supersunt omnia, a cura di G.C. Bretschneider e H.E. Bindseil, in Corpus Reformatorum, Brunswick, 1834 segg., voll, I-XXVIII.
Nella redazione della Confessione augustana, prima grande professione di fede comune dei seguaci della Riforma, Melantone e i teologi di Wittenberg che collaborarono con lui si sforzarono di mettere in rilievo soprattutto gli elementi di intesa con i cattolici, e adottarono in genere un atteggiamento conciliante. A fondamento della redazione essi posero i cosiddetti “articoli di Schwabach”, redatti qualche anno prima e che erano già serviti a sottolineare la differenza tra il luteranesimo e le correnti della Germania meridionale; e ad essi aggiunsero un elenco di “abusi” esistenti in seno alla Chiesa cattolica, redatto a Torgau per incarico dell’elettore di Sassonia.
Tuttavia, solo a stento ottennero di leggere il testo della Confessione davanti alla Dieta; e i cattolici furono ben lontani dall’essere persuasi dell’ortodossia delle tesi luterane. Da parte cattolica si replicò con una minuta confutazione composta sotto la direzione del legato pontificio Lorenzo Campeggio; e il 3 agosto l’imperatore si pronunciò a favore della tesi cattolica e proibì la continuazione del dibattito, che tuttavia proseguì ancora in seno a commissioni ristrette.
La remissività di Melantone fece spesso ai cattolici pericolose concessioni, ma la causa protestante venne vigorosamente sostenuta dalle indomite lettere che Lutero inviava dalla fortezza di Coburgo dove era relegato, e dal vigore e dalla dignità dei principi laici protestanti, primi fra tutti l’elettore Giovanni Federico di Sassonia e il margravio Filippo d’Assia.
Le riunioni della dieta d’Augusta ebbero termine con un formale rinvio, a un prossimo concilio, mentre Carlo V fissava ai protestanti l’aprile 1531 come ultimo termine per sottomettersi.
Ma in realtà con la presentazione della 2° Confessione augustana alla dieta nasceva la nuova chiesa protestante, e con ciò stesso entrava in crisi la vecchia idea dell’unità politico-religiosa del Sacro Romano Impero. È da rilevare però che accanto alla confessione di fede luterana, i seguaci di Zwingli ne presentarono una propria, divergente soprattutto sulla questione dell’Eucarestia, mentre una terza venne presentata dai protestanti di Strasburgo. In tal modo, tre furono le confessioni di fede protestanti presentate ad Augusta, mentre rimasero esclusi dalla dieta gli anabattisti.
Il testo latino della Confessione è edito in Bekenntsnisschriften der evangelisch-lutherischen Kirche [Le confessioni della chiesa evangelica-luterana, Gottingen, 1930, pp. 31–137. Una parziale traduzione italiana in G. Alberigo, La riforma protestante, Milano, Garzanti, 1959, pp. 141-158, da cui sono tratti i passi qui riprodotti. Per la redazione del documento e la sua importanza storica cfr. Bainton, Lutero, trad. it., Torino, Einaudi, 1950, pp. pp. 211–218.; Ritter, La formazione dell’Europa moderna, trad. it. Bari, Laterza.
Confessione di fede presentata all’invittissimo imperatore Carlo V Cesare Augusto nella Dieta di Augusta l’anno 1530
IV. Della giustificazione. Secondo il comune e generale consenso della Chiesa insegniamo che gli uomini non possono essere giustificati dinanzi a Dio mediante le forze, i meriti, le opere proprie, ma che. sono giustificati gratuitamente a causa di Cristo mediante la fede quando credono di essere ricevuti nella grazia e di ottenere la remissione dei peccati per Cristo, il quale ha soddisfatto ai nostri peccati con la morte. Dio imputa questa fede a giustificazione dinanzi a sé (Rom., 3 e 4).
XVIII. Del libero arbitrio. Quanto al libero arbitrio insegniamo che la volontà umana ha una limitata libertà per conseguire la giustizia civile e discernere le cose soggette alla ragione. Ma senza lo spirito santo non ha forza per conseguire la giustizia spirituale, cioè di Dio, perché l’animale uomo non è capace di percepire ciò che attiene allo spirito di Dio; ma ciò accade nei cuori quando lo spirito santo vi penetra mediante il verbo. Altrettanto insegna Agostino nel in libro dell’Hypomnesticon:
«Riconosciamo il libero arbitrio a ciascun uomo, che abbia una certa capacità di giudizio razionale, non perché sia idoneo, senza l’aiuto di Dio, ad intraprendere né a condurre a buon fine le cose che riguardano Dio, ma solo perché è idoneo alle opere buone e cattive della vita terrena. Per cose buone intendo quelle che attengono agli scopi stessi della natura, cioè voler lavorare in campagna, voler bere e mangiare, voler avere un amico, voler avere indumenti, volersi costruire una casa, voler prendere moglie, voler nutrire il bestiame, voler imparare a fare le varie opere buone e quant’altro attiene alla vita presente. Cose queste tutte che non esisterebbero se non fossero rette da Dio, perché da Lui e per Sua volontà hanno avuto l’esistenza e continuano ad esistere. Per cattive intendo cose come adorare idoli, voler l’omicidio ecc.».
XX. Della fede e delle buone opere. È falso accusarci di proibire le buone opere. Infatti i nostri scritti sui dieci comandamenti e su argomenti analoghi testimoniano come abbiamo insegnato utilmente per ogni genere di vita e per ogni condizione quali siano gli atti graditi a Dio. Di tali argomenti d’altronde una volta i predicatori dicevano poco: spingevano piuttosto ad opere non necessarie e quasi puerili come certe festività, certi digiuni, confraternite, pellegrinaggi, culto dei santi, rosari, monacazioni e simili. I nostri avversari già avvertiti di ciò tralasciano questi argomenti né predicano più tali cose in modo assoluto come una volta. Cominciano anche a parlare della fede della quale una volta tacevano completamente. Insegnano che noi siamo giustificati non solo dalle opere, ma congiungono fede e opere e dicono che siamo giustificati per la fede e per le opere. Dottrina certo più tollerabile della precedente e capace di recare maggiore consolazione che non le loro precedenti opinioni.
Dato che la dottrina sulla fede, che nella chiesa deve essere la principale, rimase così a lungo ignorata, tanto che tutti debbono riconoscere che nelle prediche si taceva altrettanto profondamente della giustizia per la fede quanto si parlava della dottrina delle opere, noi abbiamo ammonito così quanto alla fede.
In primo luogo che le opere non possono riconciliarci con Dio né meritare la remissione dei peccati e la grazia, ma piuttosto la conseguiamo credendo che siamo restituiti nella grazia mediante Cristo, il quale solo è stato posto mediatore e propiziatore attraverso il quale il Padre si riconcilia con gli uomini. E perciò chi crede di meritarsi la grazia con le opere e trascura i meriti e la grazia di Cristo, e cerca con le forze umane senza Cristo la via per giungere a Dio, dirà di sé con Cristo: «Io sono la via, la verità e la vita».
Questa dottrina della fede è trattata in ogni passo di Paolo, ad esempio agli Efesini, cap. 2: «Gratuitamente siete stati salvati mediante la fede, e tutto questo non viene da voi ma è un dono di Dio, né è frutto delle vostre opere affinché nessuno se ne possa gloriare…». Una volta le coscienze oppresse dalla dottrina delle opere non coglievano la consolazione che viene dal Vangelo. Alcuni si spingevano nel deserto o nei monasteri, sperando di meritarvi la grazia con la vita monastica. Altri escogitavano altre opere per guadagnarsi la grazia e soddisfare per i propri peccati. Fu perciò opera di grande importanza tramandare e rinnovare questa dottrina della fede in Cristo, affinché non mancasse la consolazione alle coscienze timorose, ma anzi sapessero guadagnare la grazia e la remissione dei peccati mediante la fede in Cristo.
Inoltre gli uomini devono esser ammoniti che questa parola fede non esprime tanto una nozione storica, come v’è anche nel demonio e negli empi, ma significa fede, che non crede solo nella storia ma anche negli effetti della storia, cioè questa proposizione, la remissione dei peccati, che cioè per Cristo abbiamo la graziar la giustificazione e la remissione dei peccati.
Colui che sa di avere propizio il Padre per i meriti di Cristo, questi conosce veramente Dio, sa di essergli affidato, lo invoca e infine non è senza Dio come i pagani. Infatti i diavoli e gli empi non possono credere in questo articolo della remissione dei peccati. Essi odiano Dio come un nemico, non lo invocano e non se ne aspettano nulla di buono. Agostino anche a proposito di questo sostantivo fede ammonisce il lettore in modo analogo e insegna che nelle Scritture il nome fede non è inteso come la notizia di ciò che è accaduto come è per gli empi, ma come ragione di fiducia che consola ed eleva gli animi atterriti.
Inoltre insegniamo come sia necessario fare opere buone non perché crediamo di meritare con esse la grazia, ma perché sono secondo la volontà di Dio. Solo con la fede si acquista la remissione dei peccati e la grazia. E poiché con la fede si riceve lo spirito santo i cuori sono rinnovati e si rivestono di nuovi sentimenti, affinché possano produrre le buone opere. Così infatti dice Ambrogio; la fede genera la buona volontà e le azioni giuste. Infatti la natura umana senza lo spirito santo è piena di sentimenti empi ed è troppo debole per poter compiere opere buone dinanzi a Dio. Essa infatti è sotto la potestà del diavolo che spinge gli uomini al peccato, alle opinioni empie e agli atti scellerati; come si può vedere nei filosofi, i quali pure si sforzarono di vivere onestamente, ma non vi riuscirono contaminandosi con molte manifeste disonestà. Tale è l’incapacità dell’uomo quando è senza la fede e lo spirito santo e si governa con le sole forze umane.
Donde appare agevolmente come non si possa accusare questa dottrina di proibire le buone opere, essa piuttosto va lodata, perché mostra in qual modo possiamo compiere tali opere. Infatti senza la fede la natura umana non può in nessun modo adempiere i primi due precetti del decalogo. Senza la fede non invoca Dio, non aspetta nulla da Dio, non tollera le croci, ma cerca e confida in difese umane. Pertanto regnano nei cuori tutte le passioni e i desideri umani, quando manca la fede e la fiducia in Dio. Perciò anche Cristo ha detto: «Senza di me, non potete fare nulla», (Giov., 15); e la Chiesa canta:
Senza il Tuo volere
nulla è nell’uomo
nulla è ìntegro.
XXIII. Del matrimonio dei preti. È diventata pubblica la lamentela contro il cattivo esempio dei preti che non osservano la continenza. Per questo si racconta che papa Pio dicesse che vi erano alcune cause per impedire il matrimonio ai sacerdoti, ma che ve ne erano molte di più per permetterlo. Così infatti scrive il Platina. Perciò tra noi i sacerdoti quando vollero evitare tali scandali presero moglie e insegnarono che è lecito anche ad essi contrarre matrimonio. In primo luogo perché Paolo dice: «Ognuno abbia la propria moglie onde evitare la fornicazione». E ancora: «È meglio sposarsi che bruciare di passione». In secondo luogo Cristo ha detto: «Non tutti comprendono questo consiglio», dove insegna che non tutti gli uomini sono idonei al celibato perché Dio ha creato l’uomo per la procreazione (Gen., 1). Né è in potere dell’uomo mutare l’ordine della creazione senza un dono e un atto singolari di Dio. Dunque coloro che non sono idonei al celibato debbono contrarre matrimonio. Infatti nessuna legge umana e nessun voto possono cancellare il comando e l’ordine di Dio. Per questi motivi insegniamo che i sacerdoti possono prendere moglie lecitamente.
D’altronde consta che nella chiesa antica i sacerdoti erano sposati. Infatti Paolo dice che deve essere eletto vescovo uno che sia sposato. E in Germania per la prima volta quattrocento anni fa i sacerdoti sono stati costretti al celibato con la forza, ma essi vi si opposero, quando l’arcivescovo di Magonza fu quasi ucciso in un tumulto di sacerdoti irati, mentre stava per pubblicare un editto del romano pontefice su questo argomento. E quanto successe fu tanto brutale che non solo furono proibiti i matrimoni per il futuro, ma anche quelli già contratti furono divisi contro ogni diritto divino ed umano e contro i canoni stessi fatti non solo dai pontefici romani ma anche da famosi concili.
Mentre il mondo invecchia e pian piano la natura umana diviene più debole conviene provvedere perché i vizi non si diffondano ancor più in Germania.
Per questo Dio istituì il matrimonio, perché ponesse rimedio alla fragilità umana. Gli stessi canoni ritengono che l’antico rigore debba essere allentato nei tempi successivi per la debolezza degli uomini. E ciò si può ritenere necessario anche in questa materia. Appare chiaro che le chiese mancheranno di pastori se si proibirà ancora il matrimonio.
Dato che esiste un comando divino, che è noto il costume della chiesa e dato che il celibato impuro produce molti scandali, adulteri ed altri guai degni di ogni avversione: appare chiaro che in nessun argomento si eserciterà maggiore crudeltà che nel vietare il matrimonio dei sacerdoti. Dio dispone di circondare di onore il matrimonio, le leggi bene ordinate lo illustrano con i massimi onori, anche tra i selvaggi. Anche oggi si puniscono con pene capitali contro la volontà delle leggi, persino sacerdoti, per niente altro che per aver contratto matrimonio. Paolo chiama dottrina demoniaca quella che impedisce il matrimonio nella I lettera a Timoteo. Oggi si può intendere facilmente tale posizione quando con enormi supplizi si difende la proibizione dell’unione matrimoniale.
Come dunque nessuna legge umana può abolire il comando di Dio, così non può farlo neppure un voto. Perciò anche Cipriano suggerisce che le donne si sposino quando non sanno conservare la promessa di castità. Egli si esprime così nel libro i delle sue Lettere: «Se dunque non sanno o non vogliono perseverare nella castità, è meglio che si sposino piuttosto che cadere nel fuoco delle proprie passioni; in ogni modo non siano di scandalo ai fratelli e alle sorelle».
Ed anche i canoni prevedono una certa indulgenza verso chi abbia fatto voto innanzi l’età conveniente come suole avvenire con grandissima frequenza.
XXIV. Della Messa. Si accusano falsamente le nostre chiese di abolire la messa. Infatti la messa è conservata tra di noi e celebrata con riverenza grandissima. Conserviamo quasi tutte le cerimonie consuete, salvo che ai canti latini se ne alternano alcuni in tedesco, aggiunti per istruzione del popolo. Infatti le cerimonie debbono servire soprattutto ad istruire gli ignoranti. E Paolo insegna ad usare in chiesa la lingua che il popolo comprende. Il popolo si abitua a che ricevano il sacramento in uno stesso luogo coloro che sono idonei, ed anche ciò aumenta la riverenza e la pietà delle cerimonie pubbliche. Nessuno infatti è ammesso se prima non sia stato esaminato e ascoltato. Ancora gli uomini sono ammoniti sulla dignità e sull’uso del sacramento, sulla grande consolazione che esso arreca alle anime timorose, perché imparino a credere in Dio, a chiedere e ad aspettarsi ogni cosa buona da Dio. Questo culto piace a Dio e un siffatto uso del sacramento aumenta la pietà verso Dio. Pertanto non sembra che presso i nostri avversari si celebri la messa con maggiore pietà che tra di noi.
Risulta piuttosto che sia stata fatta persino questa pubblica gravissima critica da parte di tutti gli uomini pii, che la messa fosse profanata turpemente con la raccolta della questua. Infatti è ben noto quanto sia diffuso questo abuso in tutte le chiese, da quanti siano celebrate le messe solo per un compenso o uno stipendio e quanti celebrino contro l’interdizione dei canoni. Per questo Paolo minaccia gravemente coloro che trattano indegnamente l’eucaristia, quando dice: «Chi mangerà questo pane o berrà questo calice del Signore indegnamente, sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore», quando tra di noi i sacerdoti furono ammoniti da questo peccato essi tralasciarono le messe private dato che tali messe non venivano celebrate che allo scopo di raccogliere un provento.
Né i vescovi ignoravano questi abusi; e se li avessero repressi tempestivamente ora i dissensi sarebbero ben minori. Invece prima d’ora per la loro dissimulazione molti vizi sono penetrati nella chiesa. Solo ora, quando è troppo tardi, cominciano a lamentare le calamità della chiesa, mentre tutto questo tumulto non è nato da altro se non da questi abusi, ormai tanto manifesti da non poter essere più tollerati. Sono sorti così gravi dissensi sulla messa e sull’eucaristia, forse proprio come pena universale per l’enorme profanazione delle messe, che i vescovi hanno tollerato per tanti secoli nella chiesa, mentre dovevano e potevano porvi rimedio. Infatti è scritto nel decalogo: «Chi abuserà del nome del signore non resterà impunito». Né dall’inizio del mondo vi è stata un’altra cosa divina così incatenata al denaro come la messa.
XXVIII. Della potestà ecclesiastica. Un tempo vi furono grandi dispute sui poteri dei vescovi, durante le quali alcuni confusero fuor di proposito la potestà ecclesiastica e la potestà civile. E da tale confusione nacquero i conflitti e le lotte più gravi, mentre i papi, basandosi sul potere delle chiavi, non solo istituirono nuove devozioni e imposero alle coscienze nuovi casi riservati e gravi scomuniche, ma tentarono persino di mutare i regni terreni e di togliere l’autorità agli imperatori. Tali vizi furono denunciati già da molto tempo nella Chiesa da uomini saggi e pii. E così noi per istruire le coscienze siamo costretti a mettere in chiaro il confine tra la potestà ecclesiastica e la potestà civile e ad insegnare che entrambe vanno venerate religiosamente secondo il mandato di Dio e onorate come la somma dei doni di Dio in terra.
Così pure riteniamo che la potestà delle chiavi ovvero il potere dei vescovi sia secondo il Vangelo il potere di predicare i comandamenti di Dio, di rimettere e ritenere i peccati e di amministrate i sacramenti. Infatti Cristo manda gli apostoli con questo ordine: «Come il Padre ha mandato me così io mando voi. Ricevete lo spirito santo; a coloro a cui rimetterete i peccati saranno rimessi, a coloro a cui li riterrete saranno ritenuti». E Marco, cap. 16: «Andate, predicate il Vangelo a tutte le creature ecc.».
Questa potestà si esercita solo insegnando o predicando il Vangelo e distribuendo i sacramenti ora a molti ora a pochi secondo la vocazione, perché non si distribuiscono cose terrene ma bensì divine, la giustizia eterna, lo spirito santo e la vita eterna. Esse non possono essere ottenute che mediante il ministero della parola e dei sacramenti, come dice Paolo: «Il Vangelo è la forza di Dio per ottener la salvezza di tutti i credenti». E il salmo 118: «La tua parola mi vivifica». Se la potestà ecclesiastica distribuisce beni eterni ed è esercitata solo col ministero della parola, essa non impedisce L’amministrazione della cosa pubblica, come l’arte canora non impedisce per nulla tale amministrazione. Infatti L’amministrazione della cosa pubblica riguarda cose diverse dal Vangelo. Il magistrato non difende le anime ma i corpi e le cose terrene contro le offese palesi, e obbliga gli uomini con la forza e con le pene corporali. Il Vangelo difende invece le anime contro le opinioni empie, contro il demonio e contro la morte eterna.
Non bisogna dunque confondere al potestà ecclesiastica e civile. Quella ecclesiastica ha per suo compito l’insegnamento del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti. Non invada i compiti altrui, non si occupi dei regni del mondo, non abroghi le leggi dei magistrati, non tolga l’obbedienza legittima, non si opponga ai giudizi relativi alle questioni e ai contratti civili, non prescriva leggi ai magistrati sulla forma da dare alla cosa pubblica, come dice Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo…». Se i vescovi hanno qualche potestà civile, non l’hanno come vescovi per comando del Vangelo ma per diritto umano, avendola ricevuta dai re e dagli imperatori per L’amministrazione civile dei loro beni. Quindi questa funzione è ben diversa dal ministero evangelico.
Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.