Karl Polany, Europa 1937

Prefazione di Michele Cangiani

Mario Mancini
19 min readOct 4, 2020

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L’idea che giudizi validi sulla politica estera siano privilegio di esperti va contrastata.
K. Polanyi, The Citizen and Foreign Policy[1]

Nello schema di una fra le tante conferenze tenute in Gran Bretagna nell’ambito dei programmi per l’istruzione degli adulti, Polanyi scrive: «Sia la pace che la libertà erano, in buona parte, un sottoprodotto del sistema di mercato. In futuro, se vorremo averle, dovremo deliberatamente progettarle»[2].

Siamo nel 1946; in due righe vengono qui espressi in sintesi un tema essenziale e un motivo profondo del libro pubblicato due anni prima, La grande trasformazione.

Nel primo capitolo di quest’opera Polanyi sostiene che la fine della «pace dei cento anni», nel 1914, segnala la crisi irreversibile del «sistema di mercato» in senso stretto, cioè delle istituzioni del capitalismo liberale.

Il «mercato autoregolato» era l’istituzione fondamentale; vi erano poi lo stato liberale, il gold standard e l’equilibrio tra le potenze europee. L’equilibrio del potere veniva mantenuto con la pace e non, come era sempre accaduto, con la guerra, perché il sistema economico aveva bisogno di pace.

Dopo la «pace reazionaria» organizzata dalla Santa Alleanza, prevalsero le classi medie; allora l’interesse per la pace «emerse in conseguenza della nuova moneta internazionale e della struttura del credito associata con la base aurea»[3].

Guerre minori, un «uso spietato della forza» contro i paesi più deboli e nelle colonie, la «corruzione all’ingrosso di amministrazioni arretrate»[4] erano come tuttora normale amministrazione e fonte di affari: sulla base, però, del «concerto europeo».

Gold standard e costituzionalismo conferivano autorità alla voce della City di Londra. La rete monetaria internazionale era più efficace dei cannoni della marina nel mantenere la pax britannica.

L’alta finanza operava in contatto stretto con la diplomazia e riuniva la fiducia degli stati nazionali e degli investitori internazionali. I Rothschild «incarnavano il principio astratto dell’internazionalismo»[5].

Con la Grande guerra finisce uno stadio della storia della civiltà industriale. Secondo Polanyi, per la formazione del quale gli anni trascorsi nella «Vienna rossa» restano decisivi, sarebbe stato il momento di prendere atto dell’eccezionalità dell’innaturalità del meccanismo del mercato e del fine del guadagno come principi dell’organizzazione sociale.

Pace e libertà avrebbero dovuto divenire realizzazioni dell’agire cosciente, modernamente politico, degli individui. Occorreva inventare un nuovo adattamento della società alla rivoluzione industriale, democratizzare lo stato liberale in direzione del socialismo, promuovere l’autonomia e la convivenza dei popoli.

Gli anni venti sono invece anni di controrivoluzione e di conservazione sottolinea Polanyi. La classe dominante affida i propri interessi alla ricostituzione dell’ordine prebellico; gli esperti di Ginevra raccomandano la stabilizzazione delle monete, bilanci e libero scambio. I successi di questa politica sono effimeri, ma non da poco.

La stabilità dei cambi funziona come una potente «leva che preme sul livello salariale»[6] e, più in generale, come difesa dal pericolo costituito dalla democrazia politica conquistata dalla classe operaia.

La minaccia della fuga dei capitali e la deflazione consigliata da Ginevra lasciano poche possibilità di azione a «governi popolari» del resto innocui, e comunque destinati a cadere prontamente, come in Austria nel 1923, in Gran Bretagna nel 1924, in Belgio e in Francia nel 1925–26.

Nel 1931 il panico per la sterlina e le pressioni della City convincono il leader laburista Macdonald a porre fine al secondo breve esperimento di governo laburista per costituire egli stesso il «national government» appoggiato da una parte dei laburisti, dei liberali e dei conservatori.

Che cos’altro c’era da aspettarsi, d’altronde, da un governo laburista il cui Cancelliere dello scacchiere, Philip Snowden, era «dalla testa ai piedi teoria economica classica».

E immediatamente il nuovo governo, in cui Snowden conserva il posto, sgancia la sterlina dall’oro: adesso si può. La moneta la vince sulla democrazia, commenta Polanyi: addio al sistema bipartitico dell’alternanza democratica, per un bel pezzo fino al 1945, come ora sappiamo[7].

Scrivendo La grande trasformazione, Polanyi parte dal fatto che l’incapacità di rendersi conto delle ragioni profonde dell’estinguersi del sistema di mercato liberale, e il rifiuto dell’alternativa democratica e socialista hanno portato alla grande crisi economica e politica, al fascismo in buona parte dell’Europa, alla nuova guerra mondiale.

Negli anni venti si tenta paradossalmente di mantenere in vita il sistema liberale sacrificando «i liberi mercati e i liberi governi»[8] E come si cerca di ristabilire il gold standard, così si tenta di ricostituire l’equilibrio delle potenze, il «concerto europeo»; ma quale equilibrio, se a una grande potenza come la Germania viene negata la parità di diritti?

La revanche tedesca trova motivi proprio nelle misure pretese per scongiurarla. Il vecchio ordine, comunque, è finito, ed è assurdo voler risolvere secondo i suoi principi i problemi che sono causa o effetto della sua fine[9].

Terminata la seconda guerra mondiale, Polanyi deve constatare che la «mentalità di mercato», per quanto «obsoleta»[10] resta viva e determinante. Permane l’alternativa: da una parte l’autonomia dell’economia di mercato, il «capitalismo universale»[11], la pax americana e la divisione del mondo in «blocchi» contrapposti; dall’altra, la costruzione cosciente, politica, democratica di un nuovo ordine economico e sociale, e di un nuovo equilibrio internazionale.

Per realizzare la seconda tendenza occorre sviluppare la democrazia, favorendo in ogni modo un coinvolgimento sempre più cosciente e autonomo di una massa sempre più vasta di individui nella vita politica.

Quest’ideale, questa utopia democratica, è fondamentale e costante nel pensiero di Polanyi e nella sua stessa vita. Frutto di questa utopia è il realismo con il quale egli si dedica attivamente all’istruzione degli adulti.

Il fondamento dell’utopia, d’altra parte, è la convinzione realistica che solo una democrazia effettiva, requisito essenziale della quale è un assiduo processo di autoeducazione alla cittadinanza, può consentire alla società di risolvere i problemi che le si presentano, in particolare il problema di una pacifica e fruttuosa convivenza, anche nell’ambito internazionale.

Troviamo una convinzione simile, negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, ad esempio in Karl Mannheim. Lo sviluppo della società industriale, sostiene Mannheim, esige che la «razionalità sostanziale», definita come «la capacità di agire intelligentemente in una data situazione», si diffonda e si perfezioni: ma nella realtà accade il contrario, poiché la forma vigente di questa società presuppone la concentrazione del potere (e del sapere) economico e politico, sia all’interno delle nazioni che nei rapporti internazionali[12].

Le idee di Polanyi contrastano radicalmente, invece, con quelle di due «viennesi» come lui, i quali, scrivendo anch’essi durante la guerra, continuano a sostenere soluzioni «liberali».

Friedrich Hayek, in The Road to Serfdom (1944), pretende che il capitalismo e il mercato siano l’unica via possibile ancora della libertà; Joseph Schumpeter, in Capitalism, Socialism, and Democracy (1942), riduce la democrazia alla libera concorrenza delle organizzazioni politiche sul mercato elettorale.

Alla fine del 1935, pur constatando, come vedremo, la svolta nella situazione internazionale, rappresentata dalla, profonda crisi rivelata dall’iniziativa imperialistica italiana in Africa orientale,

Polanyi spera ancora che pace e democrazia si possano salvare.

In un articolo significativamente intitolato La pietra miliare 1935 egli esprime fiducia nella «sollevazione dell’opinione pubblica inglese contro il piano di pace» Hoare-Laval (Parigi, 8 dicembre), il quale salvaguardava gli interessi inglesi e francesi a danno dell’Etiopia aggredita dall’Italia.

Hoare dovette lasciare la carica di ministro degli Esteri. Il movimento popolare «pacifista e sanzionista» potrebbe riuscire, confida Polanyi, a saldare «la politica interna e quella estera», il controllo democratico sul governo e una decisa politica di pace della Gran Bretagna[13].

La convinzione che questa sia in generale la via da seguire sta alla base dell’attività di Polanyi nel campo dell’istruzione degli adulti, iniziata ai tempi della sua giovinezza a Budapest, proseguita a Vienna e, con particolare assiduità, durante il soggiorno in Inghilterra dal 1933.

Europa 1937 titolo generale Europe Today[14] rientra in tale attività. È la terza pubblicazione di una serie, i primi due titoli della quale sono Trade Unionism, Democracy, Dictatorship di Franz Neumann (con prefazione di H.J. Laski) e Planning and Capitalism di Maurice Dobb. Nella prefazione, G.D.H. Cole sottolinea la capacità di Polanyi di spiegare «all’uomo comune» il «significato essenziale» della situazione internazionale, e conclude con la speranza che il libro aiuti a rafforzare un’opinione pubblica democratica capace di costringere il governo «a scendere in campo dalla parte della civiltà e della decenza».

Finora, secondo Cole, «i cosiddetti paesi democratici» «sono rimasti follemente a guardare» l’aggravarsi della minaccia fascista. Cole ricorda inoltre, quali punti salienti del libro di Polanyi, il drammatico cambiamento dovuto all’insorgere del fascismo, il disintegrarsi della Società delle Nazioni di fronte all’aggressività del Giappone e dell’Italia, la disponibilità dell’Urss a costituire il fronte più vasto possibile di unità democratica, e, infine, il ricordo vivo del periodo del dopoguerra, quando «qualche forma di socialismo» sembrava «il logico esito della democrazia politica».

In quel periodo, precisamente nel 1919, era nato il WETUC, con il compito di diffondere l’istruzione in particolare tra i membri dei sindacati, grazie all’iniziativa congiunta della Workers’ Educational Association (WEA, fondata a sua volta nel 1903) e della confederazione dei sindacati metallurgici (Iron and Steel Trades Confederation).

L’insegnamento di Polanyi si svolse prevalentemente nella WEA. Richard Tawney, l’influenza del quale è riscontrabile nel pensiero di Polanyi, fu presidente dell’Associazione per molti anni. Di quell’insegnamento corsi, seminari, conferenze resta ampia traccia nelle carte conservate presso il Karl Polanyi Institute of Politicai Economy a Montréal.

Si tratta di programmi, schemi, appunti e anche testi completi. Gli argomenti principali sono, oltre alle questioni di politica e di economia internazionale, il corporativismo e il fascismo, di cui dopo il 1933 Polanyi non può più scrivere sull’«Österreichischer Volkswirt», per non essere censurato.

Vi sono inoltre analisi storiche e metodologiche sulla società moderna e in particolare sul rapporto tra economia, politica, morale, libertà individuale, democrazia.

Lo studio della storia economica, ai fini dell’insegnamento, rifluirà in seguito nella Grande trasformazione. Polanyi dedica, infine, conferenze e articoli al problema dell’istruzione, dell’educazione degli adulti: o meglio, come egli dice, «l’educazione alla politica», «l’educazione alla cittadinanza», «il punto di vista della classe operaia sull’educazione».

Intorno alla fine della guerra interviene nel dibattito accesosi in Gran Bretagna sulla riforma del sistema scolastico. Egli ritiene che quest’ultimo debba essere il più unitario possibile, mentre «l’educazione degli adulti dev’essere una educazione della classe operaia» alla politica, in vista del governo e del cambiamento della società, sulla base dell’esperienza e della cultura della classe operaia medesima[15].

Solo la conoscenza storica delle «funzioni istituzionali» sulle quali si regge la società consente di sfuggire alla schiavitù dei valori della classe media, di superare il «baratro culturale» che legittima la divisione di classe[16].

Non solo le speranze del primo dopoguerra, ma anche l’intensa vita politica, le diverse decine di migliaia di lavoratori che frequentavano in Gran Bretagna corsi per loro predisposti, le diverse istituzioni che collaboravano o si scontravano sui programmi, i metodi, le prospettive politiche[17], sembrano ormai davvero lontani, quasi inconcepibili.

La crisi generale della politica, oggi, chiude le vie di formazione e di espressione di una cittadinanza cosciente e responsabile, riguardo alla politica estera ancor più che a quella interna. Il dogma dello sviluppo nella sua forma vigente, la concorrenza economica a livello mondiale come problema unico e totale, l’ansia di conservare i propri privilegi in una situazione di insicurezza, tendono a impedire ai popoli più ricchi di rendersi conto, da cittadini del mondo, dei termini della questione globale della sopravvivenza dell’uomo sulla Terra.

Gli interessi dominanti nel mondo negano, ai popoli più poveri, una cittadinanza democratica nei loro paesi e una cittadinanza tout court nel contesto internazionale.

Il rapporto tra organizzazione interna dei singoli paesi e politica estera, e in particolare tra democrazia e pace, è un tema costante in Polanyi ed è centrale in Europe Today. Gli stati capitalistici, egli osserva, sembrano non essere in grado di organizzare la pace; ciò dipende, in fondo, proprio dalla loro struttura economica (cfr. p. 30).

Commentando, nel 1925, il Congresso dell’Internazionale Socialista e Laburista tenutosi a Marsiglia, Polanyi mostra di condividere la tesi minoritaria della delegazione austriaca guidata da Otto Bauer: solo l’Internazionale, con una politica indipendente da quella della Società delle Nazioni e dai diktat del capitale finanziario, una politica capace inoltre di mediare tra Ginevra e Mosca, avrebbe potuto agire costruttivamente per la pace[18].

Nel 1924 la caduta del primo governo laburista gli aveva già fatto presagire l’inversione ai rotta della diplomazia britannica[19]. Accadrà infatti che con il successivo governo conservatore di Baldwin verrà ripudiato il «protocollo di Ginevra» (accordo tra Macdonald e Herriot, 1924), che avrebbe potuto essere un primo passo sulla strada della pace o almeno della «sicurezza collettiva», se una strada c’era.

Baldwin stipula invece con Mussolini un accordo a protezione dei rispettivi interessi imperialistici in Africa, alle spalle dell’Abissinia, violando il patto della Società delle Nazioni. Nel 1928, parlando della posizione dell’ltalia nell’Europa, Polanyi scrive che l’atteggiamento «nazional-imperialistico» e l’inclinazione verso la guerra sono inevitabilmente l’altra faccia dell’abolizione fascista della democrazia[20].

Anche nella prima parte di Europa 1937 la crisi della società liberale e l’impossibilità di una sua trasformazione democratica e socialista si rivelano come le ragioni più profonde del fallimento del «sistema di Versailles», di là dal circolo vizioso tra pretese «revisionistiche» ed esigenze di «sicurezza collettiva».

È poi particolarmente interessante e originale la seconda parte, in cui si tratta della trasformazione effettivamente realizzatasi e del ruolo determinante che in essa assume l’alternativa fascista. Dalla speranza nello sviluppo della democrazia si passa alla constatazione del suo blocco, più o meno violento e totale nei diversi paesi.

Questa è, essenzialmente, la causa della caduta delle speranze di pace, della deriva verso la guerra: di là dall’evidenza di fatti quali il fallimento della Società delle Nazioni, la corsa degli armamenti («il gran premio della morte»), l’espansionismo dei paesi fascisti e le aggressioni da esse perpetrate. Già nei primi anni venti appare chiaro che i regimi autoritari in Ungheria, ad esempio, o in Italia alimentano e strumentalizzano il nazionalismo, e considerano la guerra un esito naturale.

Ma nel 1937 la conquista italiana dell’Abissinia è un fatto compiuto, l’Asse Berlino-Roma è appena stato annunciato, la guerra civile spagnola è ancora in corso. Come non rendersi conto, a questo punto, della novità della situazione internazionale, non più riconducibile alla dinamica ottocentesca degli equilibri, delle alleanze e dei conflitti tra stati e tra imperi?

La stessa suddivisione in due parti di Europa 1937 è importante, in quanto prefigura lo schema di spiegazione della Grande trasformazione; i paradossi dei «conservatori» anni venti portano al crollo definitivo del vecchio sistema e alle soluzioni «rivoluzionarie» degli anni trenta.

Rispetto all’opera maggiore, in cui prende largo spazio la ricostruzione della natura, delle vicende e delle contraddizioni del «sistema di mercato», qui l’analisi dell’evoluzione della situazione internazionale è più sistematica ed esauriente.

Quale redattore e condirettore del settimanale viennese «Der Österreichische Volkswirt» dal 1924 al 1938, anno in cui ne fu interrotta la pubblicazione in seguito dell’Anschluss, Polanyi si occupava in primo luogo proprio di politica internazionale.

Nel già citato articolo La pietra miliare 1935, pubblicato su tale periodico, viene formulata per la prima volta la tesi centrale di Europa 1937, poi ripresa nella Grande trasformazione.

«E arrivata la fine degli anni dei Trattati di pace», inizia l’articolo. «La soglia di un nuovo periodo storico è stata varcata». Ciò che conta, ora, è il conflitto tra forme alternative di organizzazione sociale, cosa che implica uno «stretto intricarsi di avvenimenti politici interni ed esterni. Non l’Italia ma il fascismo, non la Germania ma il nazionalsocialismo, non la Russia ma il bolscevismo, non gli Stati Uniti ma le nuove idee americane dell’epoca rooseveltiana sono i fattori del processo. L’Inghilterra lotta per mantenere la democrazia, il Giappone sperimenta un feudalesimo industriale di conio orientale».

Il fatto che la politica estera degli stati sia in funzione del sistema che essi rappresentano ricorda il tempo delle guerre di religione[21]. La differenza è che a quel tempo si scontravano diversi modi di «interpretare il mondo», mentre adesso il conflitto è modernamente, e ricordando l’undicesima Tesi su Feuerbach fra diversi modi di «cambiarlo».

Negli anni trenta, leggiamo nella Grande trasformazione: «il destino delle nazioni era legato al loro ruolo in una trasformazione istituzionale». Appare evidente, così, la differenza tra le due guerre mondiali: «la prima rimaneva ancora legata al tipo di guerra del diciannovesimo secolo, era un semplice conflitto di potenze scatenato dalla caduta del sistema di equilibrio del potere; la seconda fa già parte dello sconvolgimento mondiale»[22].

Una coscienza altrettanto radicale della crisi della società liberale si trova nel saggio II concetto di «politico» di Cari Schmitt, pubblicato nel 1927 e rivisto nel 1932. La filosofia politica di Schmitt, tuttavia, è diametralmente opposta rispetto a quella di Polanyi, il quale considerava possibile, oltre che necessario, il superamento della democrazia liberale in una democrazia piena, effettiva: confidando nella presenza della «realtà della società» in ogni persona, nella disposizione dell’uomo alla socialità, alla collaborazione costruttiva.

Questa radicale diversità di orientamento si nota anche in questioni più specifiche, come quella dello status della Germania, alla quale Polanyi dedica nel 1932 due importanti articoli[23]. Egli, pur prendendo seriamente in considerazione i fatti sui quali si fonda il punto di vista di Schmitt, non è totalmente scettico riguardo a qualsiasi «politica della Società delle Nazioni», non arriva a dire che la pace non era che la continuazione della guerra, e non costruisce su questa idea, su questa passione politica, il suo concetto di «politico».

Sembrerebbe quasi, poi, che l’idea dell’intrecciarsi di guerra esterna e guerra civile, così importante e caratteristica in Europa 1937, possa prendere spunto proprio dal saggio di Schmitt. Benché, scrive quest’ultimo, il «politico» riguardi essenzialmente lo stato nel suo contrapporsi ad altri stati, la politica interna può svilupparsi a un punto che «diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo stato». In questo caso, la «possibilità reale della lotta» si riferisce «alla guerra civile»[24].

Solo Polanyi, tuttavia, definisce il nuovo tipo di guerra come guerra civile in campo internazionale. Questo concetto può ricordare piuttosto quello esposto in un contesto teorico complessivamente ben lontano dal punto di vista di Polanyi da un autore più recente, Ernst Nolte[25].

Si nota, infine, che, nel titolo dell’ultimo paragrafo di Europa 1937, per indicare i «nemici» della democrazia spagnola viene usato il termine «foes». Il termine di origine germanica scrive Schmitt nel 1938 che indicava «l’avversario in una lotta mortale», non semplicemente un non-amico, in inglese è stato «completamente soppiantato» da enemy[26].

Schmitt rileva, come Polanyi, che con la crisi del sistema liberale si ritorna alla «guerra totale», com’era al tempo delle guerre di religione o delle antiche faide: il fine non è la «pace», l’equilibrio di potere fra stati, ma la distruzione del «nemico».

Egli tende però a condensare in un concetto di «politico», di guerra e di nemico che è tanto radicale quanto generale e astrattamente politico quella che per Polanyi è la contrapposizione storica di diverse «trasformazioni», e più profondamente la contrapposizione, tipica del nostro secolo, di due tendenze.

La prima tendenza è lo sviluppo della democrazia, che implica il superamento del sistema di mercato e del «fine del guadagno» in direzione del socialismo e della subordinazione dell’economia alle esigenze liberamente espresse dalla società.

La seconda tendenza è la conservazione del capitalismo e del determinismo economico; al servizio di essa può sempre affiorare, in momenti di crisi, il fascismo. «L’essenza del fascismo», come s’intitola un saggio pubblicato da Polanyi nel 1935[27], è il tentativo di abolire la sostanza della democrazia, la vita politica stessa e perfino il concetto moderno di società una società composta e istituita da individui liberi e responsabili. In Europa troviamo una delle formulazioni più radicali (pp. 51 sgg.) dell’alternativa tra le due tendenze, sulla quale Polanyi ritorna sovente.

E v’è un’immagine particolarmente cupa, orwelliana, del fascismo, come produzione di «materiale biologico» per la guerra, di uomini che tacciono, ubbidiscono e combattono (p. 53). Troviamo nella stessa pagina il concetto di «guerra totale», presente anche nel «corollario» al saggio sul «politico» scritto da Schmitt nel 1938[28].

Ma per Polanyi, a differenza di Schmitt, le intenzioni aggressive della Cecoslovacchia nei confronti della Germania non erano certo paragonabili a quelle della Germania nei confronti della Cecoslovacchia. Ed è ben saldo, soprattutto, il collegamento che egli sottolinea tra «guerra totale» e «stato totalitario».

Europa 1937 si apre con un riferimento alla guerra civile spagnola e si conclude con un paragrafo dedicato ad essa. Polanyi ne trae la conferma che ormai la situazione internazionale è ingovernabile. Il crollo della Società delle Nazioni è totale; il «metodo tedesco» sfugge ad ogni tradizionale controllo diplomatico; e ora è chiaro anche che i paesi democratici avallano, in pratica, la «crociata anticomunista» sbandierata da Germania e Italia.

Consentendo l’embargo contro il governo spagnolo, la politica di «non intervento» di Francia e Gran Bretagna mette sullo stesso piano i due contendenti della guerra civile. Mentre, dall’altra parte, la «nuova politica dell’interventismo sociale» dei governi fascisti ora si manifesta con il conflitto armato in campo internazionale, non più solo con la penetrazione «pacifica» che Polanyi ricorda poche pagine prima.

Contemporaneamente a Europe Today esce in Gran Bretagna un opuscolo della Socialist League sulla questione spagnola, che rappresenta forse la posizione più vicina a quella di Polanyi. «Questa è una nuova fase della vita politica dell’Europa», vi si legge; i dittatori stanno attuando il «primo esperimento di dittatura internazionale»[29].

I nuovi schieramenti sono ormai ben definiti. Non più vincitori e vinti del primo conflitto mondiale, «revisionisti» e fautori della «sicurezza collettiva»; ma democratici e fascisti, opposizione che è tuttavia complicata, indebolita, a volte perfino contraddetta, dalla solidarietà capitalistica contro il socialismo.

Polanyi, da buon socialista austriaco, manteneva da sempre un atteggiamento critico sia nei confronti del comunismo sovietico sia nei confronti dell’ostilità contro l’Unione Sovietica. Negli anni trenta condivideva la fiducia diffusa negli ambienti socialisti e della «Christian Left» che egli frequentava in Inghilterra, come ricorda G.D.H. Cole[30] in un’evoluzione democratica dell’Unione Sovietica[31], considerata comunque un baluardo contro la catastrofe della democrazia nell’Europa fascista.

Polanyi valuta come un fattore di equilibrio e di pace l’ingresso dell’Urss nella Società delle Nazioni (settembre 1934).

Nel 1935, in occasione della visita a Berlino dei ministri inglesi Simon ed Eden, egli ritiene che l’ostilità del governo britannico verso l’Urss diventi ora davvero pericolosa, poiché essa collude con quella proclamata proprio in quest’occasione da Hitler, che sta riarmando la Germania[32].

«La politica dei dittatori è stata quella di puntare sulle simpatie e sui tremori del conservatorismo inglese», scrive Richard Tawney[33].

Polanyi non manca di rilevare simpatie per Mussolini in eminenti uomini politici inglesi come Joynson-Hicks e Churchill[34]. E ribadirà nella Grande trasformazione che la Germania nazista ha tratto vantaggi o, in campo internazionale, dalla leadership assunta ni un tipo di trasformazione che, contrapponendosi al tipo sovietico, ha raccolto, nonostante tutto, «l’adesione delle classi proprietarie»[35].

In Europa 1937 gli è già chiaro che la polarità tra Germania e Urss è divenuta «un elemento essenziale della politica europea» (p. 54).

Al problema del rapporto con l’Urss Polanyi dedica un articolo nel 1943[36]. Ormai troppo tardi è evidente, egli scrive, quanto grave sia stato sottovalutare l’aggressività nazista, indulgere nell’appeasement fino ad avallare, come fece la Gran Bretagna nel 1938 a Monaco, lo smembramento e la sottomissione della Cecoslovacchia.

Ancora non si vuol capire, invece, l’errore di aver escluso un rapporto costruttivo con l’Urss. L’altra faccia dell’appeasement era l’atteggiamento antisovietico. La collaborazione con l’Urss, forse, avrebbe potuto fermare l’invasione giapponese in Manciuria e quella italiana in Etiopia, e salvare la Spagna repubblicana.

Avrebbe potuto evitare l’accordo russo-tedesco del 1939 e l’attacco alla Finlandia. Riuscirà mai Washington, si chiede Polanyi, ad adottare con l’Urss una politica di collaborazione?

Nel 1945 gli sembra ben difficile che questo possa avvenire. Gli Stati Uniti, rimasti come sono «la patria del capitalismo liberale», perseguono una politica «universalistica». La loro assunzione piena del ruolo di potenza mondiale coincide con la fine del periodo rooseveltiano delle riforme e delle aperture democratiche.

È in vista la guerra fredda. Sconfitti i regimi fascisti, la «polarità» determinante nella politica estera è più che mai fondata su ipotesi opposte di organizzazione sociale, e abbraccia ora il mondo intero. Continua la pregiudiziale ostilità verso l’Urss. Dietro alla critica al «socialismo reale» c’è, in effetti, il rifiuto di qualsiasi alternativa democratica al «capitalismo universale»[37].

Alcuni anni dopo, quando la destalinizzazione sembra ridare qualche speranza in un’evoluzione democratica della società sovietica, Polanyi osserva che, ad Occidente, resta più che mai salda la «disastrosa identificazione della democrazia con il capitalismo e del progresso con il colonialismo»[38].

L’ultimo lavoro di Polanyi fu il progetto e la realizzazione della rivista «Co-Existence», che uscì pochi giorni dopo la sua morte, nel 1964. Furono invitati a far parte della redazione studiosi di diversi paesi, anche sovietici. Il proposito era di interpretare le vicende mondiali senza intenti propagandistici, fuori dalla logica della guerra fredda.

La guerra fredda è finita, almeno nella forma instauratasi nel dopoguerra. Il suo superamento, però, non ha aperto la strada che Polanyi auspicava, quella del moltiplicarsi di esperimenti regionali, autonomi e diversi, di socialismo democratico, ai quali fosse consentito di coesistere «senza dover accettare universalistici criteri di mercato»[39].

Note

[1] WEA (Workers’ Educational Association), London 1947, p. 21.

[2] K. Polanyi, Syllabus on «The changing strutture of society», University of London, University Extension Courses (Karl Polanyi papers, K. Polanyi Institute of Politicai Economy, Montréal, box 5).

[3] K. Polany, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, p. 329

[4] Ibid., p. 18.

[5] Ibid., p. 14.

[6] Ibid., p. 289.

[7] Id., Democrazia e moneta in Inghilterra, in Cronache della grande trasformazione, a cura di M. Cangiani, Einaudi, Torino 1993, pp. 79–81.

[8] Id., La grande trasformazione cit., p. 293.

[9] Ibid., p. 27.

[10] Id., La nostra obsoleta mentalità di mercato, in Economie primitive, arcaiche e moderne, a cura di G. Dalton, Einaudi, Torino 1980.

[11] Id., Capitalismo universale o pianificazione regionale?, in La libertà in una società

complessa, a cura di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

[12] K. Mannheim, Man and Society in an Age ot Reconstruction, Routledge & Kegan, London 1954 (una prima edizione tedesca uscì ne 1935). Trad. it. L’uomo e la società in un ‘età di ricostruzione, Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 14.

[13] K. Polanyi, La pietra miliare 1935, in Cronache della grande trasformazione cit., p. 184.

[14] WETUC (Workers’ Educational Trade Union Committee), London 1937.

[15] Id., What Kind of Adult Education? in «Leeds Weekly Citizen», 21 settembre 1945.

[16] Si veda l’esauriente analisi di Marguerite Mendell, Karl Polanyi and Socialist Education, in Humanity, Society and Commitment, a cura di K. McRobbie, Black Rose Books, Montréal 1994.

[17] Si vedano ad esempio nel n. 18, autunno 1984, di «History Workshop», gli articoli: J. Jones, A Liverpool Sociatist Education, A. Miles, Workers’ Education: the Communist Party and the Plebs League in the 1920s, P. Francis, The Labour Publishtng Company 1920–29.

[18] K. Polanyi, La nuova internazionale, in Cronache della grande trasformazione cit., pp.19 e 20.

[19] Id., Le elezioni in Gran Bretagna, ivi, p. 9.

[20] Id., Italien und Europa, in «Der Österreichische Volkswirt», XX, 10 marzo 1928.

[21] Id., La pietra miliare 1935 cit., pp. 179 e 183.

[22] Id., La grande trasformazione cit., pp. 36 e 37.

[23] Cfr. Gleichberechtigung und Völkerbund, in «Der Österreichische Volkswirt”, XXV, 25 giugno 1932; Gleichberechtigung und die deutsche Linke , in «Der Österreichische Volkswirt”, XXV, 20 ottobre 1932.

[24] C. Schmitt, Il concetto di «politico», in Id., Le categorie del «politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 115.

[25] Cfr. E. Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo: la guerra civile europea 1917–45, Sansoni, Firenze 1988.

[26] Schmitt, Le categorie del «politico» cit., p. 196.

[27] K. Polany, The Essence of Fascism,in Christianity and the Social Revolution, a cura di J. Lewis, K. Polany e D.K. Kitchm, Gollancz, London 1935. Trad. it. in La libertà in una società complessa cit., pp. 90–117.

[28] Schmitt, Le categorie del «politico» cit., p. 201

[29] “H. N. Brailsford, Spains’s Challange to Labour, National Council of the Socialist League, s.d. (presumibilmente inizio 1937).

[30] G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista, Laterza, Bari 1972, vol. IV, t. 1, pp. 5–6.

[31] Cfr. K. Polanyi, La riforma costituzionale in Russia, in Cronache della grande trasformazione cit., pp. 243–4.

[32] “Cfr. L’Inghilterra e la guerra in Etiopia, ivi, pp. 174–8.

[33] R. H. Tawney, Equality (1931), George Allen & Unwin, London 1938; trad. it. In Opere, a cura di F. Ferrarotti, Utet, Torino 1975, p. 755.

[34] K. Polanyi, Lo sciopero generale inglese, in Cronache della grande trasformazione cit., p. 36; Id., L’Inghilterra e la guerra in Europa cit., p. 174.

[35] Id., La grande trasformazione cit., p. 308.

[36] Id., Why Make Russia Run Amok?, in «Harper’s Magazine», marzo 1943.

[37] Id., Universal Capitalism or Regìonal Planning?, in «The London Quarterly of World Affairs», gennaio 1945; trad. it. Capitalismo universale o pianificazione regionale?, in La libertà in una società complessa cit., p. 142

[38] Id., Il pensiero sovietico in transizione, in «Nuova presenza», V, 5, 1962, p. 41 (traduzione da un originale inglese inedito).

[39] Id., nota inedita citata in Kari PolanyiLevitt, Karl Polanyi and CoExistence, in The Life and Work of Karl Polanyi, a cura di K. PolanyiLevitt, Black Rose Books, Montréal 1990, p. 261.

Tratto da Karl Polany, Europa 1937. Guerre esterne e guerre civili, trad. it. di Michele Cangiani, 1995, Donzelli editore, Roma.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.