Kant. Ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite!

Risposta alla domanda, che cos’è l’illuminismo? (1784)

Mario Mancini
13 min readJan 26, 2020

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Nel periodo forse più intenso della sua attività, tra la pubblicazione della Critica della ragion pura (1781), dei Prolegomeni ad ogni metafisica (1783) e della fondazione della metafisica dei costumi (1783) Kant compose, nel 1784, lo scritto che qui appresso si riporta: Risposta alla domanda, che cos’è l’illuminismo? Di contro alla tesi secondo la quale l’ideale politico illuminista tendeva a concretarsi e ad esaurirsi nello stato di benessere, il filosofo di Konigsberg vi interpreta l’illuminismo come

«l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità»,

l’incitamento a servirsi della propria intelligenza, ad essere autonomo.

Non si tratta di una indiscriminata celebrazione della libertà della ragione: Kant fa anzi una netta distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, sostenendo che, mentre il primo deve essere illimitato e libero sempre, il secondo può essere anche limitato «senza che ne venga particolarmente ostacolato l’illuminismo».

Un ufficiale deve ubbidire agli ordini che gli sono impartiti, un cittadino deve pagare le tasse che gli sono state imposte, un ecclesiastico deve insegnare il catechismo secondo i dettami della sua Chiesa. Ma tutti e tre questi cittadini, in qualità di studiosi, possono discutere, rispettivamente, le operazioni di guerra eseguite, il sistema dell’imposizione dei tributi, determinate forme di credenza religiosa.

Sembrerebbe, perciò, di trovarsi di fronte ad una antinomia tra l’esaltazione del potere della ragione e il proclamato dovere dell’obbedienza allo Stato, ma per Kant è proprio l’esistenza di un solido Stato, che disponga di un forte esercito, che rende possibile, all’interno, il dispiegarsi della ragione nella sua azione volta a far uscire gli uomini dalla minorità. In altri termini il forte stato di Federico II di Prussia può fare ciò che uno stato apparentemente più libero non può permettersi. «Solo colui che, illuminato egli stesso, non ha paura delle tenebre e contemporaneamente dispone a garanzia della pubblica pace d’un esercito numeroso e ben disciplinato, può enunciare ciò che una piccola repubblica non può arrischiarsi di dire:

«Ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite!».

Il passo che si riporta è stato tratto dall’Antologia degli scritti politici di Emanuele Kant, a cura di G. Sasso (Bologna, Il Mulino, 1961, pp. 47–55), fornita di una densa introduzione e di una bibliografia accuratamente scelta. Su Kant politico cfr. anche gli Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu (Torino, U.T.E.T., 1956); N. Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant (Torino, Giappichelli, 1957) e dello stesso autore, Due concetti di libertà nel pensiero politico di Kant, in Studi in onore di E. Crosa (Milano, Giuffrè, i960, 1, pp. 221–35).

Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo.

La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori.

Ed è così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A persuadere la grande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) che passaggio allo stato di maggiorità è difficile e anche pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni. Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori della carrozzella da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano ad essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli. Ora questo pericolo non è poi così grande come loro si fa credere, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi imparerebbero finalmente a camminare: ma un esempio di questo genere li rende paurosi e li distoglie per lo più da ogni ulteriore tentativo.

È dunque difficile per ogni singolo uomo lavorare per uscire dalla minorità, che è divenuta per lui una seconda natura. Egli è perfino arrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità.

Anche chi riuscisse a sciogliersi da essi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più angusti fossati, poiché egli non avrebbe l’abitudine a siffatti liberi movimenti. Quindi solo a pochi è venuto fatto con l’educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorità e camminare poi con passo più sicuro.

Al contrario, che un pubblico si illumini da sé è ben possibile e, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché in tal caso si troveranno sempre tra i tutori ufficiali della gran folla alcuni liberi pensatori che, dopo di aver scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno intorno il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé.

Al riguardo è singolare vedere il pubblico, tenuto prima da essi sotto questo giogo, obbligarli poi a rimanervi, quando fosse stato liberato da quel giogo da quelli tra i suoi tutori che fossero essi stessi incapaci di ogni lume. Tanto è pericoloso seminare pregiudizi! Essi infatti finiscono per ricadere sui loro autori o sui successori dei loro autori. Forse una rivoluzione potrà bene determinare la caduta di un dispotismo personale e porre termine a un’oppressione avida di guadagno o di potere, ma non provocherà mai una vera riforma del modo di pensare: piuttosto, nuovi pregiudizi serviranno al pari dei vecchi a guidare la gran folla di chi non pensa.

Senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: — Non ragionate! — L’ufficiale dice: — Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. — L’impiegato di finanza: — non ragionate, ma pagate! — L’uomo di chiesa: — Non ragionate, ma credete! — Non vi è che un solo signore al mondo, che dice: — Ragionate fin che volete e su quel che volete, ma obbedite (i).

Qui è dovunque limitazione della libertà. Ma quale limitazione è d’impedimento all’illuminismo? Quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve esser libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare l’illuminismo tra gli uomini: mentre l’uso privato della ragione può anche più spesso essere strettamente limitato, senza che ne venga particolarmente ostacolato l’illuminismo. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come studioso davanti all’intero pubblico dei lettori.

Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata. Ora, per molte operazioni che si compiono nell’interesse della comunità, occorre una certa meccanicità, per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo per concorrere ai fini comuni o almeno per non contrariarli, armonizzando la loro condotta con l’opera del governo. Qui senza dubbio non è permesso di ragionare, ma si deve obbedire. Ma in quanto questi membri della macchina governativa si considerano nello stesso tempo membri di tutta la comunità e della stessa società generale degli uomini, e quindi nella qualità di studiosi che cogli scritti si rivolgono a un pubblico nel senso proprio della parola, allora essi possono certamente ragionare senza ledere con ciò l’attività che spiegano come membri passivi del governo. Così sarebbe molto deplorevole che un ufficiale, a cui fu dato un ordine dal suo superiore, volesse in servizio pubblicamente ragionare sulla opportunità e utilità di questo ordine: egli deve obbedire.

Ma non è giusto impedirgli in qualità di studioso di fare le sue osservazioni sugli errori commessi nelle operazioni di guerra e sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti e un biasimo inopportuno di tali imposizioni, che devono essere da lui eseguite, può venire punito come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a un rifiuto generale). Tuttavia egli non opera contro il dovere di cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull’iniquità di queste imposizioni.

Così un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo la confessione della Chiesa da cui dipende, perché egli è stato assunto a questa condizione: ma come studioso egli ha piena libertà ed ha anche il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri, che un esame severo e coscienzioso gli ha suggerito circa i difetti di tale confessione, e di fare le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa.

E non vi è nulla in ciò che potrebbe offender la coscienza, poiché ciò che egli insegna in conseguenza del suo ufficio, come funzionario della Chiesa, egli lo espone come qualcosa intorno a cui non ha la libertà di insegnare secondo quello che a lui sembra giusto: egli ha il compito di insegnare secondo ciò che gli è stato prescritto e nel nome di un altro. Egli dirà: la nostra Chiesa insegna questo o quello: queste sono le prove di cui essa si vale. Egli mostrerà allora tutta l’utilità pratica che alla sua comunità religiosa deriva dai princìpi che egli stesso non sottoscriverebbe con piena convinzione, ma al cui insegnamento egli può però impegnarsi, anche perché non è punto impossibile che in essi non si celi qualche verità, e comunque non vi è almeno in essi nulla che contraddica alla religione interiore.

Ché, se credesse di trovarvi qualcosa che vi contraddica, egli non potrebbe esercitare la sua funzione con coscienza e dovrebbe dimettersi. L’uso pertanto che un insegnante ufficiale fa della propria ragione davanti alla sua comunità religiosa è solo un uso privato, poiché tale comunità costituisce sempre una riunione domestica, per grande che sia; e sotto questo rapporto egli, come prete, non è libero, e non può neppure esserlo, poiché esegue un ordine che gli viene da altri.

Invece, come studioso che parla con gli scritti al pubblico propriamente detto, cioè al mondo, l’ecclesiastico, nell’aro pubblico della propria ragione, gode di una libertà illimitata di valersi della sua propria ragione e di parlare in persona propria. Che i tutori del popolo nelle cose spirituali debbano a loro volta rimanere sempre minorenni, è un’assurdità che tende a perpetuare altre assurdità.

Ma una società di ecclesiastici, quale sarebbe una assemblea ecclesiastica o una «classe venerabile» (come da sé si chiama presso gli Olandesi), non avrebbe il diritto di obbligarsi per giuramento a un certo simbolo immutabile per esercitare in tal modo sopra ciascuno dei suoi membri e, a loro mezzo, sul popolo una tutela continua e anche di eternarla? Io dico che ciò è affatto impossibile. Un tale contratto, che finirebbe per impedire per sempre ogni ulteriore progresso illuministico dell’umanità è assolutamente nullo e di nessun effetto, anche se dovesse essere sanzionato dal potere sovrano, dai parlamenti e dai più solenni trattati di pace.

Un secolo non può impegnarsi e giurare di porre la generazione successiva in una condizione che la metta nella impossibilità di estendere le sue conoscenze (soprattutto se tanto necessarie), di liberarsi dagli errori e soprattutto di progredire nell’illuminismo. Ciò sarebbe un crimine contro la natura umana, la cui originaria destinazione consiste proprio in questo progresso, e quindi le generazioni successive sono perfettamente nel diritto di respingere quelle convenzioni come non autorizzate ed empie. La pietra di paragone di ciò che può imporsi a un popolo come la legge è nella questione: se un popolo potrebbe imporre a se stesso una tale legge.

Ora ciò potrebbe anche essere possibile, nell’attesa di una legge migliore, temporaneamente e per stabilire un certo ordine, purché si lasci libero ogni cittadino, soprattutto l’uomo di Chiesa, nella sua qualità di studioso, di fare le sue osservazioni pubblicamente, cioè mediante scritti, sui difetti della istituzione vigente. Frattanto l’ordinamento costituito si manterrà sempre in vigore, fino a che le nuove vedute in questa materia non abbiano raggiunto nel pubblico tanta diffusione e credito, che i cittadini coll’unione dei loro voti (anche se non di tutti) siano in grado di presentare al sovrano la proposta di prendere la difesa di quelle comunità che fossero d’accordo per un mutamento in meglio della costituzione religiosa secondo le loro idee, senza pregiudizio di quelli che intendessero rimanere nell’antica costituzione.

Ma concertarsi per mantenere in vita una costituzione religiosa immutabile, che nessuno possa pubblicamente porre in dubbio, anche solo entro i limiti della durata di vita di un uomo, e con ciò arrestare per un certo periodo di tempo il cammino dell’umanità verso il suo miglioramento e renderlo vano e per ciò stesso dannoso alla posterità, non è assolutamente permesso.

Un uomo può certamente per la propria persona e anche solo per un certo tempo differire di illuminarsi su ciò che a lui incombe di sapere: ma rinunciarvi per sé e più ancora per la posterità, è violare e calpestare i sacri diritti dell’umanità. Ora, ciò che un popolo non può decidere per sé, lo può ancor meno un monarca per il popolo, poiché la sua autorità legislativa si fonda sul fatto che egli riassume nella sua volontà, la volontà generale del popolo. Purché egli provveda a che ogni vero o presunto miglioramento non contrasti con l’ordinamento civile, egli può per il resto lasciare i suoi sudditi liberi di fare quel che credono necessario per la salvezza della loro anima. Ciò non lo riguarda affatto, e solo deve preoccuparsi di impedire che l’uno non ostacoli con la violenza l’altro nel lavorare con tutti i mezzi che sono in suo potere in vista dei propri fini e per soddisfare alle sue esigenze.

Egli reca offesa alla sua stessa maestà intervenendo in queste cose e sottoponendo al controllo del governo gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee, sia che egli ciò faccia invocando il suo potere sovrano ed esponendosi al rimprovero: Caesar non est supra grammaticos, sia, e ancor più, se egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale di qualche tiranno nel suo Stato contro tutti gli altri suoi sudditi.

Se ora si domanda: — Viviamo noi attualmente in un’età illuminata? — dobbiamo rispondere: — No, bensì in un’età di illuminismo. — Come stanno ora le cose, la condizione in base alla quale gli uomini presi in massa siano già in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è ancora molto lontana. Ma abbiamo evidenti segni che essi abbiano aperto il campo per lavorare a emanciparsi da tale stato e che gli ostacoli alla diffusione del generale illuminismo o all’uscita da una minorità a loro stessi imputabile diminuiscono a poco a poco. Sotto questo aspetto questa età è l’età dell’illuminismo, o il secolo di Federico.

Un principe che non crede indegno di sé dire che considera come un dovere di nulla prescrivere agli uomini nelle cose di religione, ma di lasciare loro in ciò piena libertà: che quindi respinge da sé anche il nome orgoglioso della tolleranza, è lui stesso illuminato e merita dal mondo e dalla posterità riconoscente di essere lodato come colui che primo emancipò la specie umana dalla minorità, almeno da parte del governo e lasciò libero ognuno di valersi della sua propria ragione in tutto ciò che è affare di coscienza. Sotto di lui venerandi ecclesiastici, senza pregiudizio del loro dovere d’ufficio, possono liberamente e pubblicamente, in qualità di studiosi, sottoporre all’esame del mondo i loro giudizi e le loro vedute, anche se deviano qua e là dal simbolo tradizionale; a più forte ragione può fare ciò ogni altro che non è limitato da nessun dovere d’ufficio. Questo spirito di libertà si estende fuori, anche là dove esso deve lottare contro ostacoli esterni suscitati da un governo che fraintende se stesso. Poiché Federico offre un chiaro esempio che non vi è nulla da temere dalla libertà per la pace pubblica e la concordia della comunità. Gli uomini si adoprano da sé per uscire a poco a poco dalla barbarie, purché non si lavori intenzionalmente a mantenerli in essa.

Io ho posto particolarmente nella materia religiosa il punto culminante dell’illuminismo, che rappresenta l’uscita degli uomini dallo stato di minorità che è a loro stessi imputabile, poiché in fatto di arti e di scienze i nostri reggitori non hanno alcun interesse a esercitare la tutela sopra i loro sudditi. Oltre a ciò la minorità in materia religiosa è fra tutte le forme di minorità la più dannosa ed anche la più umiliante. Ma il modo di pensare di un sovrano che favorisce la libertà religiosa va ancora oltre, poiché egli vede che, anche nei riguardi della legislazione, non si corre pericolo a permettere ai sudditi di far uso pubblico della loro ragione e ad esporre pubblicamente al mondo le loro idee sopra una migliore costituzione, criticando liberamente quella esistente. Noi abbiamo di ciò uno splendido esempio, e anche in ciò nessun monarca ha superato quello che noi veneriamo.

Ma è pur vero che solo colui che, illuminato egli stesso, non ha paura delle tenebre e contemporaneamente dispone a garanzia della pubblica pace d’un esercito numeroso e ben disciplinato, può enunciare ciò che una piccola repubblica non può arrischiarsi di dire: — Ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite! — Si rivela qui uno strano, inatteso corso delle cose umane. Considerato questo corso in grande, tutto in esso appare quasi paradossale. Un più alto grado di libertà civile sembra favorevole alla libertà dello spirito del popolo, ma pone però ad esso limiti invalicabili.

Un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito un campo in cui esso può svilupparsi con tutte le sue forze. Quando dunque la natura ha sviluppato sotto questo duro involucro il germe di cui essa prende così tenera cura, cioè la tendenza e la vocazione al libero pensiero, allora questa tendenza e vocazione reagiscono sul modo di sentire del popolo (per cui questo diventa a poco a poco sempre più capace della libertà di agire) e da ultimo anche sui princìpi del governo, che finisce per comprendere che è per lui vantaggioso trattare l’uomo, che ormai è più che una macchina, in modo conforme alla sua dignità.

Fonte: Rosario Romeo e Giuseppe Talamo (a cura di), Documenti storici. Antologia, vol. II L’età moderna, Loescher, Torino, 1966.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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