Joy Division Legacy
di Mario Turco (Sentieri Selvaggi)
A quarant’anni dalla morte di Ian Curtis e della fine dell’esperienza dei Joy Division, un ritratto della mitica band inglese e della sua “eredità”
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Joy Division per sempre
Peter Hook ha dichiarato:
“Oggi so che registrare canzoni e suonarle dal vivo sono due cose diverse, ed è proprio questo il bello. Allora ero troppo giovane e volevo solo che non ci fosse differenza tra studio e live. Non volevo che i pezzi suonassero malinconici, non volevo una musica che durasse. Volevo solo far perdere la testa alle persone, come faceva Iggy Pop dal vivo. Me ne fregavo della profondità, eccetera, volevo solo prenderla a calci nei denti, e basta. Ma quella è roba che non dura”.
Nel libro di Jon Savage, uno dei massimi giornalisti musicali esperto della scena inglese, Autobiografia di una band uscito per Rizzoli nel 2019, l’ex-bassista dei Joy Division, col pragmatismo proletario e parolaio che l’ha sempre contraddistinto ha così riassunto la singolare contraddizione che da quarant’anni attraversa la storia della musica rock: come spiegare il culto della band di Manchester ancora oggi?
Una meteora che continua a bruciare
Tre anni appena di attività, due album in studio ufficiali, tanti live ma nessuno memorabile, età media dei componenti 22/23 anni, un sound sicuramente particolare ma non così originale. Inoltre a prima vista nemmeno i numeri dei gruppi Facebook costruiti attorno al mito di Ian Curtis e soci oggi hanno una portata epocale. Gli iscritti delle varie pagine variano da poche a centinaia di migliaia senza mai raggiungere il milione.
Ma basta aderire a qualcuna di esse per rendersi conto che spesso per gli aderenti i Joy Division non solo sono stati la migliore band di tutti i tempi ma un vero e proprio way of life da condividere con pochi altri eletti. Di questa passione con derive totemiche — LP, CD, locandine originali postate come sacre reliquie — è dimostrazione ad esempio un’intelligente pagina Facebook che partendo da sapide prese in giro di alcuni di queste seriosissime auto-rivendicazioni ha sfornato per un paio d’anni una serie di meme fortunatissimi culminati, ovviamente verrebbe da scrivere, a loro volta con la riduzione a merchandising.
La gioia di esplorare
Nati nel 1977 in un periodo di transizione, a ridosso dell’esplosione del punk senza tuttavia abbracciarlo completamente, i Joy Division cercarono comunque di mantenerne vivo lo spirito iconoclasta soprattutto nella loro prima emanazione a nome Warsaw, (in omaggio al brano Warszawa, pezzo strumentale di David Bowie), sfornando un LP tiratissimo come An Ideal For Living. Ecco una delle tante affermazioni programmatiche di Hook sulla modalità d’ingaggio delle loro prime esibizioni:
“Sentite, c’è una serata punk domani, vi va di venire e suonare? Vi paghiamo la benzina. E noi andavamo. Eravamo assolutamente liberi e spensierati”.
Le prime performance erano dunque grezze, tre/quattro minuti al massimo per pezzo e senza sofisticherie particolari. Ma dovettero ben presto, in un ambiente che faceva giù uso massicciamente dell’elettronica — nell’attesa delle sue performance Curtis faceva risuonare gli amati Kraftwerk — superare il mito dei tre accordi ed esplorare altre direzioni.
Dal “Fanculo” al “Siamo fottuti”
Tony Wilson, il talent-scout che li lanciò:
“Sono d’accordo con Bernard (Sumner, ndr) su questo, che il punk ci ha permesso di gridare ‘vaffanculo’, ma che in qualche modo non poteva andare oltre. Era solo una singola, velenosa parola piena della rabbia necessaria per riaccendere il rock’n’roll, ma prima o poi qualcuno avrebbe voluto dire qualcosa di più di ‘vaffanculo’. Prima o poi qualcuno avrebbe voluto dire: ‘Siamo fottuti’, e sono stati i Joy Division i primi a farlo, a usare l’energia e la semplicità del punk per esprimere emozioni più complesse”.
Una repentina fuga quindi dalle gabbie interpretative visibile sin dalla scelta del nuovo nome Joy Division che all’inizio si attirò gli strali del pubblico per l’ambiguità con cui giocava con l’immaginario nazista. Esso si rifà infatti al romanzo La casa delle bambole di Ka-Tzetnik 135633 (pseudonimo di Yahiel Finer): nel libro la Joy Division è la denominazione delle baracche femminili dei campi di concentramento nazisti in cui le donne venivano sfruttate come prostitute e stuprate dai soldati tedeschi.
Superando queste provocazioni che solo un pubblico sempre prono allo scandalo poteva equivocare, quello che comunque si nota è che la loro musica, a distanza di quarant’anni, rimane ancora più ascoltata sia di quella dei colleghi punk da cui presero le prime mosse (qualche quattordicenne ascolta i Buzzcocks?) sia della darkwave e del gothic che figliarono da loro.
Eppure è vero che anche i poster dei Doors prima e dei Cure dopo, sempre per restare in scia tematica, continuano a venire appesi nelle stanze di adolescenti ed universitari sensibili ma i Joy Division hanno un seguito che travalica perfino il fandom, con sconfinamenti nella ritualità religiosa.
Qualcosa di magico
La prima domanda da sciogliere, l’elefante critico nella stanza musicale, è: questo grande successo in che parte è dovuto alla doppia danse macabre, quella ballata scompostamente sui palchi dei locali e della vita, da Ian Curtis? Cantante dalla voce stranamente baritonale, profonda ma capace anche di piegarsi agli urli rabbiosi — Warsaw e They Walked in Line, pur avendo una struttura derivativa hanno comunque il merito di esplorare toni più aggressivi della sua tonalità –, Curtis era un leader il cui carisma è costruito (quanto consapevolmente? C’è chi ha perfino quantificato l’acqua che il mistero porta al mulino dell’idolo) sulla sua assenza.
O meglio, su una malia altra, lontana dai crapuli eccessi dei comunque ammirati Iggy Pop, David Bowie, Lou Reed e Jim Morrison. E qui bisogna andare al contesto geografico, sociale ed antropologico di provenienza, per cercare di districare la matassa di questa eredità.
Sempre nel libro di Jon Savage, costruito attorno alla montagna di dichiarazioni dei protagonisti dell’epoca d’ora mancuniana, particolare enfasi viene posta su Manchester, città di provenienza di quasi tutti i componenti dei Joy Division, che in quegli Anni Settanta stava vivendo sul proprio tessuto urbano un’involuzione drammatica che però genererà, come spesso piace alla beffarda Storia, una rivoluzione culturale.
Il riflesso del declino di Manchester
Come diceva Liz Naylor, redattrice a quei tempi di una fanzine locale:
“Quello che mi piace dei Joy Division è che sono un gruppo legato al proprio ambiente: quando suonano non pensi a loro come una band, ma come al rumore che qui ti circonda”.
Manchester era stata la culla del capitalismo il secolo precedente, sede di importanti industrie di carbon fossile ma dopo il secondo dopoguerra pian piano ne era diventata la tomba. Quasi tutti gli opifici ottocenteschi cadevano a pezzi dando vita a prodromi scenografici di retrofuturismo: i casermoni abbandonati, alonati dal grigio atmosferico inglese, avevano privato gli abitanti del luogo perfino dei ritrovi di aggregazione proletaria.
Restava la classe media addetta ai servizi, col proprio lavoro magari ben retribuito ma in fondo individualistico, mirato ad una sopravvivenza triste e senza ideali collettivi. Proprio Ian Curtis era l’emblema di questo precoce e inevitabile inserimento nel ciclo produttivo di provincia: sposatosi a vent’anni e subito padre, lavorava all’ufficio collocamento di Macclesfield, sobborgo di Manchester.
La perdita del controllo
Era un funzionario assistente al recupero delle persone fisicamente disabili e con disturbi psichici, incaricato di procacciare loro un lavoro o assicurarsi che gli venissero garantite le tutele statali. Da questa profonda esperienza biografica nasce lo spunto per She’s Lost Control, come dichiarato più volte negli anni dallo stesso Bernard Sumner e che come sempre assumerà un sinistro carattere vaticinatore:
“She’s Lost Control parla di una ragazza che andava al centro e cercava di trovare lavoro. Era epilettica e la malattia stava prendendo sempre più spazio nella sua vita fino a che, un giorno, non si è più presentata al centro. Lui pensava che avesse trovato un lavoro, ma in seguito scoprì che aveva avuto un attacco ed era morta”.
Ai giovani lavoratori come Curtis, Hooke e Sumner non restava altro che chiudersi in un pub e andare, quando si poteva, ai concerti.
L’epifania: il concerto dei Sex Pistols
Qui viene posata la prima pietra angolare della mitologia costruita attorno alla band: l’epifania musicale avviene la sera del 4 Giugno del 1976 quando i 4 giovani assistono all’esibizione dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall. La musica non è più appannaggio degli artisti, dei professionisti o anche solo di chi sa suonare uno strumento ma di tutti quelli che vogliono fare rumore con una base minima di suoni. Bernard Sumner:
“Quando sono arrivati loro, i Sex Pistols, hanno spazzato via tutto. La lezione era questa: non ti servono tutte quelle stronzate, bastano tre accordi, fidati. Impara tre accordi, scrivi una canzone, metti su un gruppo”.
Nasce proprio quella nottata, almeno a leggere la personale versione di Peter Hook nel libro Unknown Pleasures — Inside Joy Division (edito in Italia nel 2014 come Joy Division — Tutta la storia) la decisione a livello subliminale ed inconscio di formare su un gruppo cercando dichiaratamente l’emulazione di Rotten e compagni.
Così anche il primo incontro con Curtis, forse con qualche forzatura cronologica, può essere fatto risalire a quel fatidico live:
“La prima volta che ho incontrato Ian è stato sulle scale dell’Electric Circus. Avevo questo tipo davanti, che aveva sulla schiena la scritta HATE fatta con del nastro adesivo bianco così che al mattino, quando andava al lavoro, poteva staccarla”.
La personalità di Ian Curtis nel film Control
Interessante, a questo proposito, puntualizzare come la nota porti già in superficie la doppiezza esistenziale di cui poi lo stesso cantante sarà preda nell’arco della sua breve vita. È stato il cinema a focalizzarsi su questo lato psicologico della personalità di Curtis portando in sala due ritratti che, al netto della precisione biografica a cui entrambi rispondono con amplia esegesi di testi e testimonianze dei protagonisti dell’epoca, estendono di molto il discorso con la differenza dei propri punti di vista.
Control del 2007, di Anton Corbijin e tratto dal libro di Deborah Curtis Così vicino, così lontano pubblicato in Italia da Giunti, girato in un bianco e nero composito ed espressionista, si concentra esclusivamente sulla vita di Ian raccontando in special modo il dramma borghese del suo matrimonio prematuro e della sua fine per il sopraggiunto amore per l’impiegata all’ambasciata belga Annik Honoré. Corbijin, fotografo di fama mondiale che aveva già lavorato a suo tempo coi Joy Division dopo il successo del loro primo album e che è stato loro molto vicino fino allo scioglimento, mette al centro il dilaniamento interiore di Curtis.
Nel suo film il frontman, interpretato da un mimetico Sam Riley, è silenzioso, trattenuto, timido fin quasi all’autismo, dilaniato da una malattia che si pasceva di precedenti storico/letterari fascinosissimi e che portava in sé quel retrogusto Sturm und Drang del quale egli stesso era imbevuto.
I tributi letterari
Si vedano, tra i tanti esiti di questo crepuscolarismo esistenziale, i funerei testi di Dead Souls, brano incluso nella raccolta Still, che già dal titolo richiama Le anime morte di Nikolaj Vasil’evič Gogol, e quello di Atrocity Exhibition, anche questo riferimento diretto all’omonimo libro di J.G. Ballard.
Sul lato delle ispirazioni letterarie il ricordo si è negli anni allargato a dismisura con sovrainterpretazioni che dimenticano l’età del ragazzo e di come in ogni caso fossimo pur sempre davanti un mancuniano addetto ai servizi sociali. Sulla vicinanza letteraria con Ballard e sul suo futuro da scrittore data l’impossibilità dettatagli dall’epilessia di esibirsi con forti luci e suoni violenti può chiarire qualcosa questa sua stessa dichiarazione in merito alla scelta del testo di una delle loro canzoni più famose:
“In realtà no, avevo scritto il testo prima di leggere Atrocity Exhibition e stavo semplicemente cercando un titolo, perché spesso non riesco a pensare a un buon titolo. A ogni modo, appena ho visto questo suo libro ho pensato che si adattasse molto bene alle idee espresse nel testo”.
Si trattava quindi ancora d’una appropriazione da scolaro, da epigono con la voglia di trovare la propria strada autoriale ed è proprio questo fascino dell’adombrato, del potenziale non espresso per via di una scelta tragica e di una ineludibile tendenza all’autodistruzione il fulcro di Control e dell’intera vicenda terrena di Curtis.
Ancora un film sui Joy Division
Il secondo film che sviluppa la vicenda dei Joy Division è invece il sulfureo 24 Hour Party People (2002) di Michael Winterbottom. Dopata ricostruzione delle vicende della Factory Records, etichetta discografica fondata dal giornalista della Granada Television, Tony Wilson che fu fondamentale per la registrazione e il lancio dei due album dei Joy Division, nella prima parte racconta con uno stile goliardico quasi gli stessi eventi ripresi poi da Control.
Qui la narrazione corale ben si confà ad una visione d’insieme del contesto storico dove Unknown Pleasures rappresentava sì la punta di diamante di quell’incredibile intero movimento musicale ma fu anche il fortunato prodotto di un gruppo di lavoro unico.
Le copertine
A partire proprio dalla celebre copertina dell’album che divenne da subito una delle più famose della storia del rock moderno. La minimale immagine del tracciato di cento impulsi consecutivi emessi dalla prima pulsar mai scoperta (CP 1919), presa dal libro The Cambridge Encyclopedia of Astronomy e realizzata dall’utopista Charles Fourier nel XIX secolo, è stata scelta e rielaborata dal grafico Peter Saville per essere oggi visibile su una quantità smodata di tazze, t-shirt e schiene assortite.
Ed ascrivibile al direttore artistico inglese è anche la scelta di apporre come immagine per il secondo album Closer, uscito due mesi dopo la morte di Curtis benché fosse stato terminato quando egli era ancora in vita, la foto in nero su sfondo bianco della tomba della famiglia Appiani scattata nel cimitero monumentale di Staglieno a Genova e che sarà salutata dai fan di tutto il mondo come il definitivo testamento alla bruciante carriera dei Joy Division.
Il lavoro sul sound
Oltre a Rob Gretton, manager della band a cui si devono alcune delle intuizioni di commercializzazione più spudorate e riuscite, impossibile non ricordare anche il lavoro di produzione di Martin Hannett, interpretato nel film di Winterbottom da un gigionesco Andy Serkis. Unico vero genio riconosciuto da tutto l’ambiente tanto da far dire a Richard Boon, manager dei Buzzcocks, riguardo ad Unkown Pleasures:
“Ho pensato che fosse un grande disco di Martin Hannett. Loro dal vivo mi erano sempre sembrati un po’ forzati, la voce di Ian era troppo impostata, un filo scontata. Avevo la sensazione che la sua intensità fosse costruita, che non fosse naturale. Martin ha dato una vera forma alla band: è stato il loro Svengali, molto più di Wilson o di Gretton. Le sonorità che sono riusciti a esprimere gliele ha tirate fuori lui, il disco è venuto fuori molto naturale, non era così formale e forzato come invece mi erano sembrati loro”.
Il suo lavoro sul sound della band fu fondamentale per dargli le tipiche coloriture elettroniche attraverso l’utilizzo magistrale dei primi synth e idee pazzesche come quella riportata da Bernard Sumner nel libro di Jon Savage:
“Per She’s Lost Control Martin ha avuto un’idea fighissima: ha fatto chiudere Steve in una cabina insonorizzata e gli ha fatto suonare le parti di charleston facendogli usare una bomboletta spray. Sfortunamente, quel cazzo di spray era una roba tipo insetticida e ha quasi ucciso Steve (immaginate far psssst-psssst per tutta la durata di un pezzo). Povero Steve, è chiaro che Martin ce l’aveva con lui”.
Ma, si sa, la storia della musica per diventare divulgazione di massa deve espungere le figure di contorno e concentrarsi sul carisma dei pochi, in questo preclaro caso di chi ha tarantolato il proprio dolore davanti a tutti sul palco senza nessun freno inibitorio.
40 anni dal suicidio di Ian Curtis
Così il recente quarantennale del suicidio di Ian Curtis, impiccatosi il 19 maggio del 1980 a ventitré anni nella casa dei genitori al 77 di Barton Street a Macclesfield con The Idiot di Iggy Pop sul giradischi e La ballata di Stroszek di Werner Herzog in TV, ha rinfocolato la fiamma del ricordo attraverso una serie di omaggi portati avanti anche dagli stessi ex-componenti. Bernard Sumner e Stephen Morris, rispettivamente chitarrista e batterista del gruppo, hanno partecipato ad un appuntamento online il 18 maggio, “Moving through the silence: celebrating the life & legacy of Ian Curtis”, insieme a Brandon Flowers dei Killers, agli Elbow, ai Kodaline e molti altri che nel corso delle oltre due ore e trenta di durata — il live è ancora adesso visualizzabile sul sito di United We Stream e su Facebook — ha celebrato l’eredità artistica del cantante suicida ma anche portato avanti uno scopo benefico: l’evento è stato legato ad una raccolta fondi a supporto di alcune organizzazioni che si occupano di salute mentale nel Regno Unito come Manchester Mind.
Anche Peter Hook per finanziare l’associazione The Epilepsy Society ha offerto in streaming per 24 ore sulla pagina Facebook e YouTube dei Joy Division e della sua band, i The Light, So This Is Permanent, il concerto del 2015 alla Christ Church di Macclesfield in cui suonò tutte le canzoni del suo primo gruppo.
Altri omaggi
Già, perché anche se Sumner, Hook e Morris, ottemperando alla promessa fatta in vita a Curtis, hanno proseguito il loro percorso musicale chiudendo quell’esperienza e fondando i New Order, le influenze dei Joy Division si sono riversate su almeno tre generazioni successive di musicisti.
Pescando nel sempre ribollente calderone degli omaggi si può partire da quello esplicitato degli U2 verso Curtis sin da A Day Without Me, primo singolo del loro album di esordio, proseguire con la cover dei Nine Inch Nails di Dead Souls presente nella soundtrack de Il corvo — e lo stesso James O’Barr, autore del fumetto originale, voleva già dividere la sua opera in capitoli che si sarebbero dovuti intitolare come le canzoni dei Joy Division — arrivare ai Radiohead degli esordi con il rifacimento ossequioso di Ceremony, per concludere con la pompata cover fatta da Moby della splendida New Dawn Fades presente, e non certo a caso considerando l’orecchio del regista, in Heat, di Michael Mann.
Omaggi in Italia
In Italia gli omaggi hanno generato risultati alterni, si veda la versione di Shadowplay, presente nel tributo Something About Joy Division affidato alle band dell’etichetta indipendente Vox Pope e pubblicato nel 1990, fatta in versione acustica dagli Afterhours di un Manuel Agnelli ancora zoppicante con l’inglese ed il lavoro compiuto da Giorgio Canali che invece riuscì a colorare d’acido senza snaturarle molte loro canzoni in uno show itinerante applaudito anche dai fan più intransigenti.
La Cold Wave
Naturalmente il credito esercitato dai Joy Division non si limita al lato epidermico delle cover (anche se ne è comunque un buon segno, considerati i nomi citati e quelli tralasciati) ma si ramificò da subito su vari generi musicali. L’intero movimento della Cold Wave, conosciuta in seguito come Gothic, ha preso spunto dalla struttura musicale e dai campionamenti dei Joy Division, con band della portata di Bauhaus, Birthday Party, Killing Joke, Sisters of Mercy, per arrivare ai soffertissimi Anni ’90 con Radiohead, Nirvana, Ellioth Smith che hanno preso invece in prestito e in alcuni casi esacerbato lo spleen dei testi.
Ma anche nel Nuovo Millennio, nonostante il rock abbia visto altri tragici suicidi (sì, pensiamo proprio a Kurt Cobain) i Joy Division hanno funzionato da tappeto sonoro per le interpretazioni/appropriazioni di Michael Gira degli Swans con Love Will Tear Us Apart e Ceremony degli sperimentali Xiu Xiu, per non parlare dell’ultima stella del firmamento pop, Billie Eilish, che ha reso ancora più accessibile ad orde di adolescenti la mancata accettazione del sé di Ian Curtis.
Inoltre la struttura atipica del loro sound ha rappresentato forse l’innovazione più replicata, almeno per i gruppi mainstream: la predominanza del basso che dava spesso la linea melodica, la chitarra non utilizzata in chiave solista ma da strumento ritmico e le poliritmie della batteria di Morris hanno rinnovato i modi di creazione di una canzone da hit-parade che fino a lì erano ancorati al classicismo Seventies.
Il tributo del mondo audiovisuale
Ed il mondo audiovisuale, viene ora da chiedersi, come ha reagito di fronte alla bruciante avventura dei Joy Division? Se la loro carriera, come scritto, è stata oggetto di due biopic posizionati quasi agli antipodi, film e serie TV negli ultimi dieci anni hanno visto un recupero fortissimo delle loro canzoni.
Temporalmente sentiti come parte dell’immaginario Ottanta così anche i Joy Division si sono trovati a essere fagocitati da questa operazione di recupero nostalgico che ha attraversato longitudinalmente vari media.
La prima presenza importante in un film di una certa caratura è la cover dei NIN di Dead Souls nel funereo Il Corvo, seguita da In a Lonely Place, scritta da Curtis e suonata dai Bush nel successivo episodio della saga diretto da Tim Pope.
Dopo la vertigine di New Dawn Fades, rifatta da Moby in Heat, di Michael Mann, forse il primo film che inaugura e indirizza la tendenza malinconica della riesumazione dei Joy Division è Donnie Darko, di Richard Kelly.
Con la sua ambientazione retrodatata al 1988 e l’aura d’amor mortifero che si respira durante le disavventure del protagonista, Love We Tears Us Apart ne diventa il perfetto specchio sonoro.
E così da quel 2001 la canzone più famosa dei Joy Division sarà deputata in decine e decine di opere audiovisuali a mettere il cappello alla rottura di un rapporto problematico: da commedie come Un amore all’improvviso, di Robert Schwentke e Modern Life Is Rubbish, di Daniel Jerome Gill a episodi di serie TV insospettabili come Cold Case Delitti irrisolti e perfino serie d’animazione dissacranti come American Dad!.
Più ovvie ma non per questo meno significative del recupero in atto invece le apparizioni in serie dal forte impatto come Tredici, che prende il via proprio dal suicidio di un’adolescente, e in opere esteticamente dark come Gotham e Peaky Blinders.
L’altro grande pezzo apparso in molti film è Atmosphere che col suo incedere marziale spesso si configura come presa d’atto della fine di un’epoca intera. In questo senso lo utilizza ad esempio, nonostante la profusione di colori pastello,
Sofia Coppola nel suo Marie Antoinette ma anche Jaume Collet-Serra nel suo sottovalutatissimo horror La maschera di cera. Ma la lista potrebbe continuare ancora a lungo e comprende serie diventate subito capisaldi di un nuovo modo di intendere la narrazione seriale come Glow, Stranger Things e American Horror Story.
Il tributo del mondo dei videogame
Anche il settore videoludico non è rimasto insensibile all’aura dei Joy Division e se le scatenate Warzone e Interzone appaiono rispettivamente in Tony Hawk’s Underground 2 e Tony Hawk’s Project 8 mentre l’utente è chiamato ad eseguire i tricks dell’eponimo campione di skateboarding, ha il carattere dell’easter egg l’utilizzo di Love Will Tear Us Apart in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Hideo Kojima in questo episodio della serie come non mai esplicita la sua cultura pop e inserisce una serie di canzoni che Snake può trasbordare nel suo iDroid durante lo svolgimento delle varie missioni.
Girando accovacciato per il campo centrale afghano ed entrando nella tenda giusta, il mercenario più famoso dei videogiochi troverà uno stereo che trasmette la hit dei Joy Division, potrà allocarla nel suo Music Tape e ascoltarla in loop mentre pianifica la fuga. Un amore che in questo caso farà a pezzi gli altri soldati, si direbbe.
Tratto da “Sentieri Selvaggi”, n. 7, settembre-novembre 2020, pagg. 58–65