Jones: Freud e il Mosè di Michelangelo
Un caso di identificazione
di Ernest Jones
Il Mosè di Michelangelo, come vedremo in seguito, riveste un particolare interesse per gli studiosi della personalità di Freud. Il fatto stesso che questa statua lo commovesse più profondamente di qualsiasi altro capolavoro a lui noto, dà a questo saggio un particolare significato.
Ciò che affascinava Freud nel Mosè era proprio il mistero dell’emozione che esso scatenava in lui. Che cosa significava questa statua o meglio che cosa aveva in realtà voluto ritrarre lo scultore?
Freud lesse parecchio sull’argomento e rimase ancora più perplesso nell’apprendere quante interpretazioni e quanto differenti tra loro erano già state avanzate. Nel saggio egli dette quindi un breve riassunto delle principali, trovandole tutte insoddisfacenti tranne una.
La statua ritrae Mosè in un atteggiamento particolare, in una tremenda espressione di rabbia, dolore e sdegno. L’intenzione di rappresentarlo in un momento particolare della sua vita è evidente, e molti autori ritengono infatti che egli sia raffigurato nel momento in cui, scendendo dal monte Sinai con le tavole della legge sotto il braccio, scorge gli ebrei, ricaduti nel peccato, danzare intorno al vitello d’oro.
A questo punto le interpretazioni divergono. Freud segue il suo solito metodo di scavare più a fondo, non attraverso l’impressione generale dell’insieme, bensì attraverso una ricerca di indizi minimi e apparentemente casuali. Così egli osserva — prima di ogni altro — che le tavole sono tenute rovesciate e che la mano destra, avvinghiata alla maestosa barba, presenta alcuni interessanti particolari.
La conclusione alla quale Freud perviene è che la statua non fosse destinata a rappresentare Mosè sul punto di alzarsi e di punire il popolo disobbediente ai suoi piedi, come tanti commentatori sostengono. Al contrario, secondo Freud essa può intendersi solo se si ammette che il movimento sia stato precedente, non successivo.
Mosè era effettivamente stato sul punto di levarsi ad accusare la plebaglia, e aveva anche fatto qualche mossa in tal senso, poi però accorgendosi che le preziose tavole stavano per scivolargli di mano, si era trattenuto con un potente sforzo. Il desiderio di preservare le tavole si era dunque dimostrato più forte della sua rabbia (contrariamente alla versione biblica).
«In tal modo egli (Michelangelo) ha aggiunto qualcosa di nuovo e di sovrumano alla figura di Mosè, di modo che la gigantesca figura, con la sua tremenda potenza fisica, diviene l’espressione concreta della più alta conquista psichica possibile per l’uomo, quella di combattere vittoriosamente contro una passione interiore, per la causa alla quale si è dedicato.»
Vi son tutte le ragioni per credere che la grandiosa figura di Mosè, dagli studi biblici giovanili all’ultimo libro che scrisse, abbia avuto per Freud un grandissimo significato. Rappresentava forse la formidabile Immagine Paterna, ovvero Freud si identificava con Mosè?
Forse entrambe le cose, in periodi diversi. La storia dell’interesse di Freud per questa statua è assai lunga. Egli ne conosceva probabilmente la riproduzione, nonché la copia in gesso dell’Accademia Artistica di Vienna, molto prima di vederla a Roma, ed è forse degno di nota il fatto che egli non avesse mancato di andarla a vedere in S. Pietro in Vincoli, dove essa si trova, fin dalla sua primissima visita a Roma, nel 1901.
In una cartolina spedita alla moglie da Roma, raccontò di aver veduto la statua (il quarto giorno dopo esservi arrivato), e aggiunse tra virgolette1 quattro enigmatiche parole che tradurrò, più estesamente, cosi:
«Sono giunto a capire il significato della statua contemplando l’intenzione di Michelangelo.»
E certo, tuttavia, che non fu quella l’interpretazione definitiva che adottò in seguito, poiché raccontò che, guardando lungamente la statua, gli era parso che Mosè dovesse alzarsi da un momento all’altro.
Durante queste prime visite — (tornò più volte nella chiesa) — egli sfuggì lo sguardo irato della statua come se avesse fatto parte della marmaglia disobbediente degli ebrei.
Da questo si può dedurre che Mosè rappresentava per lui un’irata immagine paterna, probabilmente dotata del terribile sguardo di Brücke. Va anche ricordato che il 1901 fu l’anno nel quale Fliess, sostituto padre di Freud, lo ripudiò sdegnosamente malgrado ogni tentativo di riconciliazione.
Nell’estate del 1912 Freud mi parlò del suo interesse per il significato della statua e della propria interpretazione, ed in settembre scrisse alla moglie, da Roma, di essere andato a contemplare il Mosè tutti i giorni.
Tornato a Vienna, si immerse nella vasta letteratura sull’argomento e in ottobre riuscì ad avere il libro inglese, particolarmente desiderato, che forniva l’interpretazione più vicina alla sua.
Nella stessa epoca gli mandai da Firenze le fotografie di due statue che si trovano nel Duomo, una delle quali, di Donatello, si suppone che abbia ispirato a Michelangelo la sua grande opera.
Fu un duro colpo per Freud, poiché si profilava la possibilità che la posizione del Mosè fosse dovuta a motivi puramente artistici, anziché a particolari significati ideologici. Gli mandai anche due fotografie da Roma e, su sua richiesta, fotografai anche alcuni particolari del bordo inferiore delle tavole.
Per quasi un anno non accadde null’altro, forse a causa dei dubbi di Freud circa l’esattezza dell’interpretazione. Nel settembre successivo egli tornò a Roma, e naturalmente il suo interesse si risvegliò.
«Ho visitato di nuovo il vecchio Mosè e mi sono convinto dell’esattezza della mia interpretazione, però una parte nel materiale comparativo che Lei ha raccolto per me ha scosso la mia sicurezza e non le permette ancora di ristabilirsi.»
Poi a Natale (1913) Freud decise di scrivere il saggio, e nello scriverlo si senti vieppiù sicuro sul suo terreno. Lo scritto fu terminato nel giorno di Capodanno del l9l4, però Freud voleva aspettare prima di pubblicarlo, e quando finalmente lo fece, adottò la forma anonima.
Noi tre protestammo e gli facemmo notare che il suo stile l’avrebbe immediatamente tradito, ma Freud era irremovibile e fini per irritarsi con Ferenczi che insisteva su questo punto. I motivi della sua decisione sembrano tuttora alquanto inconsistenti.
«Perché screditare Mosè apponendo il mio nome al saggio? È uno scherzo, anche se forse non di cattivo genere.»
Ad Abraham dette tre ragioni:
1. «È solo uno scherzo», 2. vergogna per l’evidente carattere dilettantistico del saggio, 3. «Infine perché i miei dubbi circa le mie conclusioni sono più forti del solito: è solo per le insistenze di Rank e Sachs che ho acconsentito a pubblicarlo.»
II mese successivo Freud consultò un artista per ben due volte, ma i colloqui con lui non dettero altro risultato che un’esposizione dei princìpi artistici generali.
Nessun parere fu emesso circa l’interpretazione. Fu solo nel 1924, quando si stamparono le Gesammelte Schriften, che Freud acconsentì a rinunciare all’anonimato.
Tredici anni dopo Freud pubblicò una Nota supplementare a proposito della statua di Mosè, basata su una riproduzione che gli avevo mandata, di un Mosè scolpito da Nicolas di Verdun nel XII secolo.
La caratteristica interessante di questa statua era che essa raffigurava Mosè, fino nel particolare della mano che si attacca alla barba, proprio nella posa che, secondo quanto Freud aveva supposto, avrebbe dovuto precedere l’atteggiamento in cui Michelangelo lo aveva raffigurato nella sua famosa opera d’arte.
Freud affermò che questo confermava la sua interpretazione per cui il Mosè di Michelangelo rappresentava «la calma dopo la tempesta».
L’inverno 1913–14 che segui il disgraziato congresso di Monaco del settembre segnò il periodo peggiore del conflitto con Jung. Il Mosè fu scritto nello stesso mese dei lunghi saggi Narcisismo e Storia del movimento psicoanalitico, nei quali Freud precisò la gravità delle divergenze tra le proprie vedute e quelle di Jung, dalla cui defezione egli si sentiva in quell’epoca amaramente deluso.
Poiché gli costò non poco controllare le proprie emozioni in modo sufficiente da poter dire pacatamente quello che sentiva di poter dire, non si può fare a meno di concludere, in modo alquanto ovvio, che in quel periodo e forse anche prima Freud si identificò con Mosè e si sforzò di emulare la vittoria sulle proprie passioni che Michelangelo aveva ritratto nella sua stupenda opera.
La plebaglia neghittosa era per lui rappresentata dai numerosi sostenitori del passato che ora lo avevano disertato e che avevano ripudiato il suo lavoro degli ultimi quattro anni, cioè Adler ed i suoi amici, Stekel e ora anche gli svizzeri.
Egli stesso espresse questo pensiero in una lettera scritta a Ferenczi all’epoca della separazione da Stekel. «La situazione che vige a Vienna in questo momento mi rende più simile al Mosè storico che a quello michelangiolesco.»
Sopra a tutte le emozioni stava il bisogno prepotente di salvare qualcosa del lavoro di tutta la sua vita, cioè la psicoanalisi, proprio come Mosè aveva impegnato tutta la forza della sua volontà per salvare le preziose tavole.
Alcuni dubbi circa l’interpretazione, che continuarono a tormentare Freud in modo che ci sembra davvero eccessivo, possono attribuirsi alla sua incertezza circa l’esito dei suoi sforzi per ottenere quell’autocontrollo, che erano riusciti al Mosè di Michelangelo.
Venti anni dopo, quando il saggio fu tradotto in italiano, Freud scrisse al traduttore:
«I miei sentimenti per questo lavoro sono simili a quelli che si provano per un figlio prediletto. Nel settembre 1913, durante tre solitarie settimane, ho sostato ogni giorno davanti alla statua, l’ho studiata, l’ho misurata, ne ho fatto alcuni schizzi, finché ne ho afferrato il significato, che tuttavia ho osato esprimere nel saggio solo in veste anonima. Solo molto tempo dopo ho legittimato questo mio figlio non analitico.»
Da Ernest Jones, Vita e opere di Freud, vol. 2, Gli anni della maturità (1901–1919), Garzanti, Milano, 1977, pp. 437–441