Jonathan Franzen e la professione del romanziere nell’era di Netflix
Amen! Ma va bene, va bene così
Vai agli altri titoli della serie “Gli autori bestseller italiani … e non solo italiani”
La professione dello scrittore di romanzi sembra diventato un film dell’horror. Copie invendute, anticipi e ricavi in calo, visibilità evaporata dopo che sono venute meno le tradizionali piattaforme di lancio del libro, status sociale in declino, irrilevanza sui nuovi media, i propri editori sempre più in crisi d’identità, librerie che chiudono. Si vede in giro sempre meno gente con un libro in mano. La narrativa negli USA, in appena 5 anni, ha perso un quinto del proprio valore. Nel Regno Unito, in 15 anni, i ricavi degli scrittori professionisti sono calati del 45% e adesso chi vive di sola scrittura deve chiedere il reddito di inclusione.
Internet gli si è rivoltato contro, le vendite dei suoi libri sono in calo e l’adattamento televisivo del suo ultimo romanzo è in fase di stallo. Ma vuole che sappiate una cosa: non se la prende. Va bene così, dice Jonathan Franzen, uno dei maggiori protagonisti della scena mondiale del romanzo letterario. Lui, solitamente irascibile e per niente incline ad evitare polemiche e zuffe, ci fa sapere che non se la prende. Sarà perché adesso vive a Santa Cruz e non più nella bolgia di Manhattan, sarà perché gli uccelli che osserva, in forza della sua passione per il Bird Watching, gli infondono serenità, darà per altre situazioni, ma Jonathan Franzen non è più l’iroso e scostante scrittore che conosciamo.
Se la sua professione è diventata difficile non è colpa del suo comportamento iroso, è qualcosa che coinvolge tutti gli scrittori. Se la narrativa batte in ritirata, il romanzo letterario è all’ultima spiaggia, sta diventando un numero a una piccola cifra nelle statistiche di vendita della fiction.
Riusciranno gli scrittori di letteratura e di romanzi a salvare la loro professione o almeno ad attuare il piano B, cioè quello riconvertirsi in scrittori di sceneggiature e storie per le serie TV degli operatori di streaming? È una sfida non così facile, anzi… Parola di Franzen.
Se avete la pazienza di non abbandonare la lettura di questo lungo reportage di una giornata trascorsa con Franzen, scritto da Taffy Brodesser-Akner, giornalista del New York Times Magazine e della sezione culturale del New York Times, potrete farvi un’idea di come se la passa uno scrittore professionista, seppur eccentrico e “speciale” come Franzen, e che cosa pensa della sua professione e del mondo che lo circonda.
Buona immersione!
[traduzione dall’inglese di Ilaria Amurri]
Da Manhattan a Santa Cruz
Jonathan Franzen vive in una semplice, adorabile casetta a due piani a Santa Cruz, in California, in una via che sembra identica a tante altre vie americane e che, se si esclude qualche scelta estetica, è praticamente uguale a tutte le altre case del quartiere. Santa Cruz, dice, è “una piccola roccaforte degli anni ’70”. All’interno, la casa è decorata con quadri, disegni e statuette di uccelli. Fuori, sul retro, ci sono uccelli in carne e ossa e un piccolo patio, con un tavolo per quattro in ferro battuto, dietro cui c’è una sorpresa: un largo e profondo dirupo che non ci si aspetta per niente, dietro una casa di queste vie tutte uguali. Eppure c’è. È così grande e ricco di fiori, piante e uccelli (di cui Franzen enumera le specie mentre sfrecciano accanto a noi) che quasi non si fa caso all’oceano sullo sfondo.
All’inizio era riluttante all’idea di trasferirsi qui. Sfidava la pazienza della donna che definisce “l’equivalente di una consorte” (“Detesto la parola ‘compagna’”, aggiunge), la scrittrice Kathryn Chetkovich, dicendo che non ci avrebbe mai vissuto e che piuttosto doveva trasferirsi lei a New York, dove lui viveva nella zona di Yorkville, nell’Upper East Side, dove ha tuttora un appartamento. Non sente la mancanza di Yorkville, che definisce “l’ultimo quartiere piccolo-borghese di Manhattan”, anche se è quasi sicuro che le cose cambieranno dopo l’apertura della Second Avenue, la nuova linea della metropolitana di New York. Stava cambiando tutto, compreso il suo quartiere. I suoi negozi preferiti stavano chiudendo. Il suo ortofrutta di fiducia, gestito da una coppia di greci, era stato rimpiazzato da una banca e il Food Emporium su cui aveva ripiegato di malavoglia aveva ceduto il posto a una catena di supermercati che pareva un centro di razionamento sovietico. Ma dove poteva andare? Nell’Upper West Side? In bocca al lupo! Ogni isolato è lungo mezzo chilometro. “Se devi andare da Central Park a Columbus Avenue ti conviene portarti una tenda canadese e un po’ di provviste”.
È un altro mondo, qui a Santa Cruz. È più facile isolarsi, vivere nell’anonimato. Puoi decidere tu quando e come interagire con gli altri. Jonathan e Kathryn giocano a tennis con i loro amici e organizzano serate di giochi a casa. Si allenano due volte a settimana con un personal trainer di nome Jason, che è stato oggetto di una vera e propria adozione inziata negli anni ’80, quando a stento se ne sentiva parlare negli Stati Uniti (cosa che Franzen trova molto interessante). L’allenamento di Jason è “tremendo”, sebbene lo scrittore cinquantottenne ne sia ormai dipendente: sollevamenti col bilanciere e sprint di canottaggio sui 400 metri. Gli piace strimpellare una chitarra che tiene su un supporto in soggiorno (“È molto più di quanto meriterebbe il mio livello rmedio-basso”, confessa), cercando di imparare canzoni di Chuck Berry e Neil Young attraverso i tutorial di YouTube.
Verso la televisione
Due settimane prima aveva ultimato il copione definitivo per l’adattamento televisivo del suo quinto romanzo, Purity. Per tutta la vita aveva avuto un rapporto di amore-odio con la televisione. La prima impressione se l’era fatta guardando “Sposati… con figli”, [sit com trasmetta in Italia da Canale 5 nel 1990–91] ma solo perché aveva una cotta per Christina Applegate (ammette imbarazzato).
Poi, però, aveva cambiato idea. Si era reso conto, suo malgrado, che in quel momento tutti convergevano sulla TV, che i grandi momenti culturali passano molto più spesso per gli schermi che per i libri e che probabilmente è così che funziona l’evoluzione. “Io mi sono ispirato a Dostoevskij e Dostoevskij si è ispirato alle pièce in tre e cinque atti”, spiega. “Per fortuna ho una forte vena populista, quindi non mi spaventa la suspense. Sono antichi piaceri narrativi, allora perché non sfruttarli? Specie in un’epoca in cui il romanzo batte in ritirata e la gente va a caccia di scuse per non leggere i libri”.
Nel 2012 aveva scritto un adattamento del suo terzo romanzo, Le correzioni, per la HBO, ma dopo il lancio dell’episodio pilota la serie non venne commissionata. C’era qualcosa che non funzionava, è lui stesso ad ammetterlo, ma questo era successo prima che si rendesse conto di quanto la TV faccia le cose in grande. Era prima che guardasse e riguardasse “Breaking Bad” e capisse cosa significa tenere qualcuno incollato allo schermo per seguire una storia e come questo scopo si raggiunga in modo diverso che in un romanzo.
Sedeva sul divano, sotto un quadro raffigurante la copertina di un libro di cui è un “noto” ammiratore, Gente indipendente, del Premio Nobel Islandese Halldór Laxness, chiedendosi come passare la giornata. Un salto in ufficio? Un giro nella sua libreria preferita del centro?
Scrivere per la TV e scrivere per i libri
Suonò il telefono.
Si alzò e andò a prendere il suo BlackBerry in cucina. “Ah, ok” rispose dopo un minuto di silenzio, “Ok, va bene, allora”.
Tornò sul divano. Più che starci seduto ne strabordava da tutte le parti, come un quadro di Dalì, con la testa appoggiata in cima allo schienale e le lunghe gambe che fuoriuscivano dal punto in cui di solito si piegano le ginocchia. Incrociò le mani all’altezza dello stomaco.
Era Todd Field, al telefono. Field, che ha scritto un buon 30% delle 20 ore di copione di “Purity” e che avrebbe dovuto coordinare e dirigere la serie, aveva chiamato Franzen per dargli la notizia che la pre-produzione era stata bloccata. Franzen fissava dritto davanti a sé, cercando di rimettere a fuoco il programma della giornata. Fare bird-watching? Nah, lo fa con tutti.
Il telefono suonò di nuovo e lui si rialzò per rispondere. Era Daniel Craig, che era stato incluso fra i potenziali protagonisti della serie. Lo avevano chiamato per un nuovo film di James Bond e non poteva permettersi di aspettare “Purity”. Tuttavia, gli disse, era stata un’esperienza straordinaria. Gli dispiaceva moltissimo che il progetto non andasse in porto. Loro ci avevano provato, vero?
Franzen si sedette e sbatté le palpebre.
Avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto sapere che più grande è la produzione (più gente è coinvolta, più sono le mani attraverso cui passa il progetto) e più è probabile che il risultato finale sia diverso da quello che ti eri prefissato. È questo il vero problema dell’adattamento, anche quando sei pronto a impegnarti al massimo. Ci sono troppe persone che lavorano sulla stessa cosa. Quando Jonathan scrive un libro, fa in modo che la sua visione originaria resti intatta. Lo manda al suo editore e decide se apportare le modifiche suggerite oppure no. Il libro che vediamo sulla libreria è esattamente quello che lui voleva scrivere. Forse è solo così che si può scrivere un libro. Sì, forse il romanzo, costringendoti a stare da solo in una stanza con i tuoi pensieri, è l’unico modo per sfruttare al meglio la propria creatività. Qualsiasi altro tentativo rischia di spezzarti il cuore.
Si sedette sul banco della cucina, sorseggiando un caffè espresso appena fatto, con i piedi sopra l’isola. Il sole attraversava le tende a doghe, proiettando sul suo corpo quelle che sembravano le sbarre di una cella. Sopra la sua testa pendeva un’opera d’arte fatta di fili attorcigliati a ricordare una telecamera di sorveglianza. Lui e Kathryn l’avevano comprata a Utica, nello Stato di New York, nell’atelier dell’amico di un amico. La sorveglianza è uno dei temi di Purity, mentre una telecamera montata in cucina gioca un ruolo fondamentale ne Le correzioni.
Ritorno al libro
Il fatto che la serie fosse stata cancellata non gli faceva rabbia, disse. L’avevano pagato per fare un lavoro e lui l’aveva fatto. Aveva fatto un buon lavoro (in seguito parlai al telefono con Scott Rudin, che aveva acquistato i diritti di Purity e aveva proposto la produzione alla rete Showtime, e lui mi disse che il copione era “eccellente”). Franzen lo aveva fatto senza alcun attaccamento al risultato. “Vengo dagli anni ’70”, disse, “per me quello che conta è il processo”.
Meglio così, sul serio. Ora poteva concentrarsi completamente sui progetti che avevano continuato a ronzargli in testa per tutti quei mesi di sale, autori, bozze e copioni. Voleva scrivere una storia sugli uccelli marini per il National Geographic. La loro popolazione è diminuita di due terzi dal 1950: “Gli uccelli marini sono fantastici”, disse, “ma sono in grave pericolo”.
Avrebbe avuto altro da dire in proposito, così come per tutti gli altri argomenti di cui abbiamo parlato. C’è da dire che, quando parla, scandisce ogni lettera alla perfezione. È una sua abitudine linguistica e dalla sua bocca emergono intere città, costruite meticolosamente, con tanto di pompieri e stazioni del treno, scuole, caffè e centri ricreativi. Non dice niente che possa essere racchiuso in una frase. Non esprime concetti che possano essere distillati in poche parole rimanendo comprensibili nella loro ampiezza. È l’ampiezza stessa, il concetto.
Ah e poi c’era il nuovo romanzo che voleva scrivere, disse, anche se per il momento ci stava solo pensando. Aveva scelto i nomi di tre personaggi. “Puoi ritrattare qualsiasi cosa, ma una volta che hai un nome”, le sue labbra si allargarono in un sorriso e la sua testa tremò di gioia, ma lasciò la frase in sospeso.
Fuori dal romanzo è il Far west
C’era anche il libro di saggi che il suo agente Susan Golomb voleva vendere (una raccolta pubblicata di recente). Ci sarebbe voluto un sacco di tempo per editarli e persino riscriverne alcuni. Era rimasto piuttosto sorpreso dell’accoglienza che avevano ricevuto. Ad esempio, non si aspettava che quello su Edith Wharton apparso sul New Yorker, in cui faceva riferimento al disagio della scrittrice riguardo al suo aspetto fisico, potesse essere tacciato di sessismo, quando era lei stessa ad essere ossessionata dall’esteriorità (“Il ritratto che stava tracciando di Edith Wharton era talmente meschino e fuori luogo che ho lasciato perdere e ho voltato pagina”, ha scritto Victoria Patterson sulla Los Angeles Review of Books).
Né s’immaginava che l’articolo sullo stato di conservazione degli uccelli, pubblicato sempre sul New Yorker, in cui sosteneva che vi fossero minacce ben più immediate del cambiamento climatico (come la proliferazione di palazzi di vetro che confondono gli uccelli in volo), avrebbe scatenato reazioni al vetriolo (“Non è chiaro cosa abbia fatto la Audubon Society per far incavolare Jonathan Franzen”, ha scritto l’editore dell’Audubon Magazine in risposta al saggio, che a sua volta era una risposta alla Audubon Society). L’avevano letto? Avevano verificato i fatti? In fin dei conti non gli importava. Doveva riprendere in mano quei saggi. Uno scrittore non scrive per essere frainteso.
E allo stesso tempo, come replicare? Questi episodi, che sono diventati parecchi, avevano cominciato a precederlo più rumorosamente dei contributi di cui andava più fiero, cioè i suoi cinque romanzi. Questo è un problema, perché se da un lato Franzen (per quanto controverso) è il simbolo (decisamente controverso) del Grande Romanziere Maschio Bianco Americano del XXI secolo, è anche uno che i libri li deve vendere. A tal proposito, la Golomb, figura materna che lui definisce “la fulva leonessa dell’editoria”, ha iniziato a disperarsi perché la gente non sembra comprendere l’autore e le sue buone intenzioni e non capisce perché tutti si siano messi contro di lui. Era il genere di cose che Franzen avrebbe voluto ignorare, ma oltre a credere nel “processo” crede anche nel gioco di squadra. Gli piace adempiere ai suoi obblighi, promuovere i libri ed essere corretto nei confronti del suo editore.
La catastrofe delle vendite
Sta di fatto che le vendite dei suoi romanzi sono diminuite dopo il lancio de Le correzioni, nel 2001. Il libro, che parla della crisi di una famiglia del Midwest, ha venduto finora 1,6 milioni di copie. Libertà, definito un “capolavoro” dal New York Times, ha venduto 1,15 milione di copie, da quando è uscito nel 2010. Mentre Purity, del 2015, che racconta la storia di una giovane donna in cerca di suo padre, di quest’ultimo e delle persone che conosceva, ha venduto solo 255.476 milioni di copie, sebbene il Los Angeles Times lo abbia definito “intenso e straordinariamente commovente”.
Dove aveva sbagliato? Stava lì, con i suoi saggi e le sue interviste, impegnato in sottili dibattiti in qualità di persona informata sui fatti, parlando della vita moderna, di qualsiasi cosa, da Twitter (che boicotta) a come il “politically correct” venga usato come bavaglio (cosa che boicotta), all’obbligo di farsi pubblicità da soli (che boicotta), al fatto che tutte le telefonate finiscano dicendo “ti voglio bene” (cosa che boicotta, perché “ti voglio bene” si dice in privato). Anche se la critica lo adorava e aveva un pubblico devoto, altri stavano usando quegli stessi meccanismi e piattaforme che lui criticava (come internet in generale e i social network nello specifico) per ridicolizzarlo. Post distruttivi, hashtag cattivi, reazioni scocciate alle sue prese di posizione, gente che va a cercare il pelo nell’uovo in tutto quello che dice. Lo accusano di pontificare rifiutandosi di ascoltare, di essere troppo debole per affrontare i suoi accusatori! Lui! Troppo debole!
Allora non vale la pena di dare spiegazioni. Non serve a niente. Ogni frase svuotata, ogni messaggio a senso unico lo riduce a un rompiscatole anti-tecnologico, un hater, uno snob o peggio ancora. Franzen! Uno snob! Lui, che potrebbe darvi una retrospettiva dettagliata di “The Killing” (“Cioè, non piango molto spesso alla fine di una serie, ma questa è davvero struggente”), oppure “Orphan Black” (“Tatiana Maslany mi lasciava sempre a bocca aperta. È fantastica, semplicemente fantastica”), o ancora “Big Little Lies” (“Che diventa prevedibile dopo il terzo episodio, anche se ho amato le scene fra Nicole Kidman e l’analista”) e “Friday Night Lies” (“C’è molta verità in quella serie”). Jonathan Franzen guarda la TV come tutti i comuni mortali e ancora si ostinano a dargli dello snob!
La superiorità del libro
In ogni caso, per ora, la serie di “Purity” non sarebbe andata in porto. Forse non era poi così male, forse era destino. Forse era meglio così, sì. Per un attimo aveva dimenticato la posta in gioco, cioè la superiorità dei libri a qualsiasi altra forma d’arte. “Tieni presente che io sono un partigiano del romanzo”, ha detto, “Da tempo avevo l’ambizione di vedere i miei romanzi resistere ad ogni tentativo di trasporli sullo schermo”.
I romanzi sono complessi, avvincenti. Raggiungono un livello di interiorità a cui la televisione non può arrivare. Il romanzo è compatibile col fatto che le persone non cambiano mai veramente. Inoltre richiede uno sforzo notevole. Chi critica in modo gratuito non è disposto a leggere un libro fino in fondo. “La maggior parte della gente che mi attacca non legge i miei libri”, ha detto. Un romanzo, in particolare un romanzo di Jonathan Franzen, è troppo lungo per essere letto nel mero intento di trovargli qualche difetto. Doveva essere così, questo spiegava tutto. “Una buona parte di me sarebbe molto orgogliosa di non vedere mai realizzato un adattamento dei miei libri, perché se volete un’esperienza vera, c’è solo un modo per averla. Dovete leggere”.
Fuori casa c’è una Toyota Camry ibrida. “È una buona macchina”, disse. È la sua prima macchina nuova in assoluto. All’inizio non era sicuro di voler comprare un ibrido, perché da giovane aveva imparato ad armeggiare con le auto e le ibride lo spaventavano perché non c’erano abbastanza ingranaggi sotto il cofano. È solo una scatola nera, sul serio. Ma le macchine sono cambiate così tanto negli ultimi anni che ormai per lui sarebbero tutte irriconoscibili.
Salimmo a bordo per andare al New Leaf Community Market (“Detesto Whole Foods”) a prendere il sandwich col tacchino affumicato che gli piace tanto. Girò a destra, uscendo dall’isolato, e prese una strada di curve che scendeva giù per la collina. Arrivati in fondo, accostò a sinistra e mise la freccia per immettersi in un’altra strada.
Il diverbio con Oprah e l’irascibilità
Circolano molte idee sbagliate sul suo conto e lui lo capisce. Quando non cerchi di contraddire quello che dicono di te, è lì che nascono i preconcetti. “La prima diceria che mi viene in mente è che sono una persona irascibile. C’è un fondo di verità, una volta lo ero. Tuttora mi danno molto fastidio i ragionamenti banali. Posso dare in escandescenze quando un pensiero mi sembra stupido, quando manca una riflessione approfondita, quando sento discorsi da gregge. È questo il genere di cose che mi fa arrabbiare, ma nella vita di tutti i giorni non sono un tipo iracondo”.
Si spostò per far passare la macchina che stava arrivando, ma questa si fermò e svoltò a sinistra. “Perché non ha messo la freccia? È a questo che servono”, disse con voce roca. “La gente non ha un minimo di buonsenso”.
Viene da chiedersi che ne sarebbe stato di tutti questi fraintendimenti se non ci fosse mai stato “il diverbio con Oprah”, come lo chiama lui. Dopotutto, quando è uscito Le correzioni, nel 2001, Internet e l’accesso alla rete erano ancora una mezza novità, così come la fama di Franzen quale grande scrittore.
All’epoca aveva già scritto due romanzi, La ventisettesima città, nel 1988, e Forte movimento, nel 1992. Sarebbe difficile definirli pietre miliari della letteratura. Nascevano dal bisogno di esprimere i precetti morali dell’autore e sono andati decisamente bene, anche se non alla grande, e di certo non hanno venduto chissà quante copie. Più o meno in quel periodo, il suo editore del New Yorker suggerì a Franzen che forse era portato per la saggistica. All’improvviso, si rese conto che tutte le discussioni e la critica sociale di cui si faceva carico, con tutte le loro sfumature ed eccezioni, vivevano di vita propria. Non doveva più usare personaggi e plot point come cavalli di Troia con cui camuffare il suo pensiero.
Quando iniziò a scrivere saggi, successe qualcosa di inaspettato: libere dalla spinta educativa, le sue storie divennero non solo migliori, ma eccezionali. Scrisse Le correzioni e Oprah Winfrey lo scelse per il suo Book Club. Il resto sarebbe ormai storia, se non continuasse a tornare a galla così spesso. In alcune interviste, Franzen espresse una certa perplessità riguardo alla pubblicità che Oprah gli stava facendo: temeva che avrebbe allontanato il pubblico maschile, che a lui interessava molto, disse che quella specie di “marchio aziendale” lo metteva a disagio e, a dirla tutta, alcune scelte passate della conduttrice gli erano sembrate “sdolcinate” e “superficiali”. Per tutta risposta, Oprah ritirò il suo invito e Franzen venne criticato da tutti per la sua ingratitudine, la sua fortuna e i suoi privilegi. In breve, divenne tanto famoso per il battibecco con Oprah quanto lo era per i suoi ottimi libri. La gente è disposta a perdonarti un sacco di cose in cambio di un buon libro, ma non ti perdonerà mai per aver mancato di rispetto a Oprah. “Lessi alcuni commenti in rete ed ero molto, molto arrabbiato, perché sentivo che le mie parole erano state estrapolate dal contesto”, ha detto.
Cominciò il romanzo successivo, Libertà, ma si accorse che scrivere era faticoso, perché stava strumentalizzando la storia. Lo faceva sempre, scriveva per vendicarsi. Una volta scrisse una lettera di sei pagine a interlinea singola per Terrence Rafferty, che aveva smontato La ventisettesima città sul New Yorker (e come se non bastasse il giornale si era rifiutato di mettere tutte le maiuscole al titolo). “Ho passato la maggior parte della mia vita a cercare di non essere come Gary Lambert”, il fratello maggiore ne Le correzioni, quello che cova la rabbia, “‘Più ci pensava, più si infuriava’. Non volevo trovarmi sveglio alle tre del mattino pensando a come formulare le mie accuse in quattro frasi taglienti con cui ribattere e non solo demolire i giudizi negativi, ma possibilmente ferire nel profondo chi li ha espressi. È una brutta sensazione”.
Lo scrittore non è un prodotto
Quando aveva iniziato a scrivere, uno scrittore poteva semplicemente presentare il suo lavoro al mondo senza tante spiegazioni. Per Franzen fare promozione non è mai stato un problema. Ama il pubblico e gli piace parlare del suo lavoro, ma prima non era obbligato ad avere un sito web o collegarsi via Skype con i book club. Di sicuro non doveva mettersi a twittare. Adesso, però, essere uno scrittore, specie se interessato al favore del pubblico, implicava anche questo. Dovevi partecipare, essere presente sui social network, che lui detesta (li ha temuti fin dall’inizio, sapeva che sarebbe finita così).
Era già titubante riguardo all’interazione digitale ancora prima di recensire Essere digitali di Nicholas Negroponte sul New Yorker, nel 1995. “Era talmente estasiato dalla prospettiva di un futuro in cui non si compra più il vecchio, noioso New York Times”, racconta Franzen, “Accedi via web a un servizio chiamato ‘Daily Me’, in cui trovi solo le cose che ti interessano e che combaciano con il tuo modo di pensare. Il che è esattamente quello che abbiamo adesso. La cosa pazzesca è che secondo lui questo era fantastico, addirittura un’utopia”. Per lui, invece, era assurdo che qualcuno potesse celebrare la mancanza di un confronto fra punti di vista diversi.
“Non ho mi approvato il fatto che la società sia dominata dal consumismo, ma avevo finito per accettare la realtà”, ha detto, “Però, quando è venuto fuori che ogni individuo deve essere anche un prodotto da vendere e che i ‘mi piace’ sono di primaria importanza, tutto questo mi è sembrato preoccupante sul piano personale, come essere umano. Se uno vive nel terrore di perdere quote di mercato per sé, in quanto persona, sta affrontando la vita con la mentalità sbagliata”. Il concetto è che se il tuo obiettivo è ricevere like e retweet, forse stai creando il tipo di persona che pensi potrebbe ottenere queste cose, indipendentemente dal fatto che quella persona assomigli o meno a chi sei veramente. Il lavoro dello scrittore consiste nel dire cose scomode e difficili da semplificare. Perché uno scrittore dovrebbe trasformare se stesso in un prodotto?
Perché la gente non capiva quello che lui voleva dire sul possibile impatto sociale di tutto questo? “Sembra che lo scopo di Internet sia distruggere le élite, distruggere i centri di controllo dell’informazione”, dice. “La gente ha tutte le risposte. Porta quest’affermazione fino in fondo e quello che ottieni è Donald Trump. Cosa ne sanno gli insider di Washington? Cosa ne sanno le élite? Cosa ne sanno i giornali come il New York Times? Aprite le orecchie, la gente sa cosa fare”. Così gettò la spugna.
Si tirò fuori da tutto questo. Dopo la promozione de Le correzioni, decise che non avrebbe più letto niente che lo riguardasse: niente recensioni, articoli d’opinione, storie, stati o tweet. Non voleva sentir parlare delle reazioni ai suoi lavori. Non voleva vedere la miriade di modi in cui veniva frainteso. Non voleva sapere che hashtag giravano.
“Era veramente sgradevole. Allora mi resi conto che non ero costretto a leggere quelle cose. Smisi di leggere le recensioni perché mi accorsi che ricordavo solo le critiche. Anche il benché minimo piacere derivante da un elogio verrà totalmente spazzato via per il resto della tua vita dal ricordo spiacevole delle osservazioni negative. Noi scrittori siamo fatti così”.
Solitudine e rabbia
Ci può stare che un romanziere faccia l’eremita. Thomas Pynchon ha appena ricevuto un premio di $100.000 e nessuno era sicuro che si sarebbe presentato a ritirarlo (infatti non ci è andato), ma c’era qualcosa di irritante nell’atteggiamento di Franzen. Forse il fatto che scrivesse anche saggi? Che sembrasse non aver mai preso parte a tutto ciò che deplorava? La sensazione che criticasse senza accettare a sua volta le critiche? Non voleva saperlo e non lo vuole tutt’ora.
Circa un anno fa, non si è fermato a uno stop e ha dovuto seguire un corso online di sei ore sulla sicurezza stradale per non perdere punti della patente. Il corso includeva un questionario dal titolo “Soffri di rabbia al volante?”, “E io pensai, non soffro di rabbia al volante. Mi altero un po’, tutto qui. Risposi ‘non so’ o ‘sì’ a sette domande e mi resi conto che in effetti soffrivo di rabbia al volante”.
Venne reindirizzato ad alcune letture su come aggirare il problema e scoprì una soluzione molto semplice: partire prima. Se parti prima, non sei in balia dei ritardi degli altri o di un semaforo rosso che non vuole cambiare colore, così arrivi rilassato e senza il minimo fastidio. Sa che ci vogliono otto minuti per arrivare in città da casa sua, ma potrebbe mettercene sei, come dieci. Se si concedesse dodici minuti, potrebbe sfruttare il tempo per ascoltare KPIG “La migliore stazione radiofonica del Paese”, che trasmette prevalentemente roots, country e blues, ma a volte capita di sentire anche qualche pezzo di Elvis Costello. Negli intermezzi trasmettono finte pubblicità “demenziali ed esilaranti” che gli tirano fuori qualcosa di molto simile a una risatina. Un prodotto chiamato “Trump-Away”, per chi non può fare a meno dei tweet del Presidente. Oppure “‘Soffri di sonnambulismo e saccheggi il frigorifero anche sotto sonniferi? Prova il nuovo Paninol”. Oppure l’antidepressivo Dannazzitol, “‘Per i giorni più tranquilli, prova la versione leggera, Mannaggitol’ ”. Potrebbe andare avanti all’infinito!
È così che si gestisce la rabbia, evitandone le cause. Devi conoscere il terreno su cui ti muovi. E quella lettera di sei pagine a Rafferty? Le risposte assassine di quattro righe preparate nel cuore della notte? È acqua passata. “Quello era un Jonathan più giovane e polemico. A un certo punto devi solo smettere di provare a smentire ogni cosa falsa che viene detta su di te e dedicarti a ciò che puoi controllare, cioè la tua scrittura”.
Il bird watching, allegoria dello scrittore
Alla fine siamo andati a fare bird-watching come fanno tutti. Era stato avvistato un colibrì di Anna albino all’arboreto universitario di Santa Cruz, non lontano da casa sua. Franzen lo aveva visto, ma io no (e se lo avessi visto non me ne sarei accorta oppure non avrei guardato), quindi risalimmo la strada. Era un mercoledì pomeriggio, un’ora prima della chiusura e il luogo era gremito di appassionati che dicevano di aver visto o meno il colibrì. Qualcuno aveva piazzato le telecamere sui treppiedi nella speranza di immortalarlo. Un fotografo ci era riuscito e tutti si riunirono attorno a lui per vedere l’immagine digitale. “È la cosa più incredibile che abbia mai visto”, disse il fotografo. Guardai la foto, era un uccello bianco.
Franzen mi diede un binocolo. Mi disse di cercare un uccello fermo a occhio nudo, per trovare un punto di riferimento riconoscibile sull’albero. Lo feci e trovai un codibugnolo americano, il più piccolo uccello canterino del Nord America. Non avevo niente da dire a riguardo, il che mi fece sentire demoralizzata e ingiusta, quindi feci un commento sul suo naso. “Becco”, mi corresse Franzen. “Giusto, il becco”, dissi io.
Fissando il codibugnolo in mezzo al verde, in quel posto così calmo, dissi a Jonathan: “Vorrei riuscirci anch’io. Mi piacerebbe conoscere gli uccelli e andare a cercarli”. Si tolse il binocolo dalla faccia e mi guardò compiaciuto. Poi disse allegramente “Beh, mi fa piacere”. Mi disse che, se dicevo sul serio, lui sapeva che la sede Audubon dalle mie parti era piuttosto solida e che probabilmente mi avrebbero portata a fare un’escursione in zona per cominciare.
Ma non era questo che intendevo. Volevo dire che mi piacerebbe riuscire a vivere in un limbo di pace, nella natura, fare allenamento con un personal trainer due volte a settimana (o anche solo sapere cosa farò la prossima settimana), guardare in su e attorno a me, anziché solo avanti e in basso. Secondo Franzen, uno scrittore non può fare bene il proprio lavoro (cioè scrivere qualcosa che sia “intenso e straordinariamente commovente”) senza costruire una barriera attorno a sé, per controllare gli stimoli con cui entra in contatto e riuscire a pensare senza essere esposto alle resistenze continue di chiunque lo incontri o senta parlare di lui o manifesti interesse nei suoi confronti. Imponendosi di non pensare, almeno per un minuto.
L’interazione digitale non serve
Questo non vale solo per chi scrive, ma per tutti. Gli scrittori sono solo il caso estremo di un problema con cui tutti devono fare i conti. “Da un lato, per andare avanti, devi credere in te stesso e nelle tue capacità e trovare un’enorme fiducia in te stesso. Dall’altro, per scrivere bene o anche solo per essere una brava persona devi essere in grado di metterti in discussione, di considerare la possibilità che stai sbagliando, che non puoi sapere tutto, e di comprendere le persone che hanno stili di vita, convinzioni e punti di vista molto diversi dai tuoi”. Internet doveva servire anche a questo, ma non è stato così. “Questa ricerca di equilibrio”, fra la sicurezza di sé e la consapevolezza poter sbagliare, “funziona solo, o funziona meglio, se ci si riserva uno spazio personale in cui realizzarla”.
Sì, ok, ma evitare l’interazione digitale al giorno d’oggi significa tagliarsi fuori dalla vita sociale. Se uno vuole assumere il ruolo di intellettuale e scrivere romanzi sulla condizione moderna, non dovrebbe esserne partecipe? È possibile parlare lucidamente di una realtà in cui non si è calati in prima persona? Non bisognerebbe passare la maggior parte del tempo a sopportarla e detestarla come tutti noi?
La risposta di Franzen è no, per niente. Puoi anche perderti un meme e non farà nessuna differenza. Possono chiamarti debole, ma tu sopravviverai. “Sono praticamente il contrario di fragile. Non ho bisogno di apparire su internet per rendermi vulnerabile. C’è già la vera scrittura a rendermi vulnerabile, come per chiunque altro”.
La gente può pensare cose di te che non sono vere e fa parte del tuo lavoro correggerle. Ma se cominci a farlo, le correzioni divoreranno la tua intera esistenza e allora che ne sarà della tua vita? Cos’hai ottenuto? Non sei tenuto a rispondere alle critiche che ti vengono rivolte. Non sei nemmeno tenuto ad ascoltarle. Non sei costretto a restringere le tue idee nello spazio di una citazione solo perché il tuo carattere ti spinge a farlo.
Se l’interazione diventa fragilità
Nessuno ha mai riflettuto sul fatto che l’interazione stessa è fragilità? Che lasciar decidere ad altri come passiamo le nostre giornate e cosa c’è nella nostra testa (un flusso passivo e postmoderno di pensieri altrui) significa essere fragili?
In quel preciso istante, desiderai così tanto di avere ciò che aveva lui che sarei stata disposta a bere il suo sangue lì, nell’arboreto, per ottenerlo.
Ecco un’altra stranezza degli uccelli: non gliene frega niente delle persone. Non interagiscono con loro, eppure sono come sismografi che indicano con grande precisione il comportamento degli esseri umani. Ci rispecchiano senza avvicinarsi minimamente a noi.
A marzo, un anno dopo il nostro primo incontro, mentre il mondo era alle prese con gli oltraggi e i tradimenti dei social media (ed io, con un amico, avevo iniziato a tenere traccia delle persone che aggiornavano costantemente Twitter sulle pause sabbatiche che si erano prese da Twitter), Franzen ha pubblicato una storia sugli uccelli sul National Geographic per inaugurare l’“Anno degli uccelli” indetto dalla rivista, in occasione del quale il programma televisivo “CBS This Morning” è andato con lui a Santa Cruz per fare bird-watching. Franzen spiegò alla reporter come trovare gli uccelli, tenendo gli occhi sull’animale e portando il binocolo al viso per rimetterlo velocemente a fuoco. La giornalista lanciò un grido di gioia alla vista di due gufi addormentati e Franzen sorrise, come fa occasionalmente quando qualcuno sembra comprendere. Le raccontò che la prima volta che lo avevano portato a fare bird-watching anche lui aveva reagito allo stesso modo. “Ho cominciato a vederci chiaro”, disse, “Era come essere stati iniziati al sesso”. Un’ora dopo, “The Cut” pubblicò un trafiletto dal titolo “Ci duole informarvi che Jonathan Franzen ha paragonato il bird-watching al sesso”.
Ma Franzen non l’ha mai visto. Era a Santa Cruz, nella sua dimensione sospesa nel tempo. Stava preparando la raccolta di saggi che uscirà a novembre con il titolo “La fine della fine della Terra”. Era di nuovo in trattativa con Showtime per girare la serie di “Purity” in versione ridotta.
In più stava finalmente scrivendo il suo sesto romanzo, di cui non ha voluto dirmi niente, tranne che sarà l’ultimo: non crede che qualcuno possa avere più di sei romanzi pienamente realizzati dentro di sé. Kathryn gli ricorda prontamente che anche Libertà doveva essere il suo ultimo libro, così come Purity. “Magari mi sbaglio”, risponde lui, “ma sento che questo potrebbe essere davvero l’ultimo”.
Era tornato agli anni ’70, al processo. Il processo non ti deluderà mai, anche quando rimani deluso da tutto il resto. È qualcosa che puoi controllare: il modo in cui ti presenti, le scelte che hai fatto. Sì, dopotutto è come in un romanzo: i personaggi non sono cambiati più di tanto, ma forse ora il lettore può capirli abbastanza da entrare in empatia con loro e magari identificarsi un po’ di più.
La vita di Franzen continuerà: il personal trainer Jason, il pranzo con il sandwich al tacchino affumicato al New Leaf, il doppio misto con Kathryn e i loro amici quando fa bello, cioè sempre, la tranquillità del suo ufficio. A fine giornata spegnerà il computer e chiuderà la porta dello studio per tornare alla sua cara vecchia Camry e andarsene a casa a riguardare “Silicon Valley”. In macchina, l’amata KPIG manderà bella una canzone. Forse la canticchierà: “Un vero amico ha provato a dirmi ‘vecchio mio, con tutto il rispetto, questa roba è passata di moda da un pezzo’”. Forse andrà a casa e cercherà di imparare gli accordi. È una canzone di Rodney Crowell, si chiama “I Don’t Care Anymore”.
Traduzione dall’inglese di Ilaria Amurri