Joan Baez su Bob Dylan

Il fenomeno che non si lava

Mario Mancini
50 min readJun 12, 2022

Estratto da: Joan Baez, Una voce per cantare. La mia vita, la mia musica, Milano, Bietti Edizioni, 2021

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Vento dei vecchi tempi

Stamattina, benché il cielo si stesse rannuvolando, ho portato fuori il bucato per stenderlo con le mollette colorate. Il mio grosso pastore tedesco e il piccolo shetland mi saltellavano intorno ai piedi, nella speranza che lanciassi loro la palla. Mentre allungavo la mano per prendere una molletta gialla e metterla tra le labbra, i cani hanno rovesciato il cesto della biancheria. Allora li ho rimproverati dolcemente e mi sono chinata a raccogliere da terra asciugamani e calzini. La mia mano si è ritratta di scatto. Era colma di gemme grezze. Mentre raddrizzavo il cesto rovesciato e strappavo alla rugiada la mia gonna di jeans, ho sentito un doloroso groppo in gola al presentarsi di un ricordo da tempo sopito, e le lacrime mi sono scivolate giù per il viso, finendo tra gli smeraldi che scintillavano di luce propria. V’erano anche granati, zaffiri e rubini. E dei diamanti.

Ten years ago I bought you some cufflinks You brought me something We both know what memories can bring They bring Diamonds and Rust

(Dieci anni fa ti comperai dei gemelli,
Tu mi portasti qualcosa
Sappiamo entrambi cosa possono portare i ricordi
Portano diamanti e ruggine)

È accaduto vent’anni fa, non dieci. Mi soffiai il naso, mi alzai e stesi il bucato.

Vidi per la prima volta Bob Dylan nel 1961, al Gerde’s Folk City, nel Greenwich Village. Non dava troppo nell’occhio. Aveva l’aria di un ragazzotto di montagna da poco arrivato in città, con i capelli corti intorno alle orecchie e riccioluti in cima alla testa. Mentre suonava, saltellava da un piede all’altro e la chitarra lo faceva sembrare più piccolo. Portava una giacca in pelle lisa, di due taglie più piccola. Aveva ancora le guance paffute, con eccessive tracce di pinguedine infantile. Ma la bocca ti stendeva: morbida, sensuale, da bambino, nervosa e reticente. Le parole delle sue canzoni, le sputava fuori.

Parole originali e fresche, per quanto brusche e affilate. Era un tipo assurdo, singolare e sudicio oltre ogni dire. Quando finì l’esibizione, lo accompagnarono al mio tavolo e fu lì che avvenne il nostro storico incontro. Stava in piedi, nervoso, bofonchiando qualche parola di cortesia, con aria sorridente e divertita. Sorseggiavo il mio Shirley Temple e mi sentivo un po’ la vecchia matrona della scena folk, e avrei desiderato che Michael sparisse, si dissolvesse nell’aria. Avrei voluto essere libera di complimentarmi con Bobby, ma non potevo, sotto lo sguardo critico e sospettoso di Michael. Non c’era dubbio: quel ragazzo era eccezionale, sapeva toccare il cuore della gente, e aveva appena cominciato a toccare il mio.

Il secondo ricordo che ho di lui risale a un’altra sera, all’uscita del Gerde’s; il suo viso bianco e tondo, sotto il berretto di velluto da ferroviere, che mi domanda dove sta mia sorella Mimi. Ero un po’ gelosa del suo interesse per lei, ma riuscii a ridere e a prenderlo in giro. Sembrava molto piccolo e molto giovane. Avevo solo sei mesi più di lui, ma mi sentivo sua madre.

Di ritorno a Big Sur, certi amici della East Coast mi dissero che Big Albert (Grossman) s’era messo in contatto con Bob: nella scena musicale girava voce che Bob sarebbe diventato «grande». Ero dubbiosa. «Più grande di Elvis Presley» mi avevano detto. «Ma voi siete matti» fu la mia risposta, ricordando quel tipo sciatto e trasandato, che tirava fuori le parole delle canzoni borbottando con voce nasale. «Già» continuò uno di loro, «e sai qual è la prima cosa che Dylan ha fatto, quando hanno cominciato a parlargli di tutti i soldi che avrebbe potuto guadagnare? Si è appartato tutto solo in un angolo e si è messo a scarabocchiare una lista di quelli che erano suoi amici, perché se fosse diventato ricco, avrebbe avuto bisogno di saperlo». Sorrisi, ma non riuscivo proprio a immaginare quel contadinotto dall’aspetto ribelle, con quella giacchetta striminzita, che pensava ai quattrini.

Now I see you standing
With brown leaves falling around
And snow in your hair
Now you’re smiling out the window
Of that crummy hotel
Over Washington Square…

(Ora ti vedo ritto in piedi
in mezzo alle foglie brune che cadono tutt’attorno
e la neve sui capelli
ora sorridiamo, guardando fuori della finestra
di quello squallido albergo
che dava su Washington Square…)

Lo squallido albergo che dava su Washington Square costava dodici dollari a notte. Non c’era servizio in camera e aveva una clientela abituale di drogati, spacciatori, transessuali di passaggio, giovani alcolizzati e altra dubbia marmaglia newyorkese. Mi faceva sentire molto “beat”, mentre Bob pareva starci perfettamente a suo agio. Gli comperai una giacca nera più grande, che era quasi della sua misura. Sulle prime si era mostrato diffidente, ma alla fine aveva ceduto anche a una camicia bianca e — meraviglia delle meraviglie — a un paio di gemelli da polso, con una pietra grezza color viola opaco. Stavo per innamorarmi.

Eravamo seduti nella nostra camera, a rispondere alle domande dei giornalisti sulle nostre rispettive carriere. Forse quel pomeriggio fu la volta che mi sentii più vicina a Bob: i suoi occhi erano antichi come Dio ed era fragile come una foglia d’inverno. Pareva un bambino con gli abiti della domenica, che si dimenava tutto impacciato sul divano, con addosso una giacca troppo grande e i gemelli nuovi ai polsini della camicia, e io che sembravo sua madre. Ma ero anche la sua sorella mistica, la compagna ribelle, il punto di riferimento e, come lui, ero una star della scena musicale underground. Vivevamo un mito, insieme, nei bassifondi del Village. Giravamo per quelle strade ventose e facevamo la prima colazione di pomeriggio in MacDougal Street.

(Il fiato ci usciva dalla bocca in bianche volute,
Che restavano sospese nell’aria…
E, per quanto mi riguarda,
Avremmo anche potuto morire lì, in quel momento)

Bob parlava un pessimo inglese basato su immagini rapide e folgoranti, e quasi tutto ciò che vedeva era a suo esclusivo appannaggio. Le idee di cui faceva partecipi gli altri erano quasi sempre incompiute. Anni prima, passeggiando per i boschi del Massachusetts, m’imbattei in una donna appollaiata sopra uno sgabello, intenta a disegnare furiosamente su un grande album che teneva in grembo con l’altra mano. Ogni tanto alzava lo sguardo e scrutava gli alberi. La salutai e rimasi per un po’ a guardare il suo lavoro. Il foglio traboccava di goblin, mostri, serpenti, occhi in stile Goya sagomati come cappi. Non riuscii a trattenermi e le posi la solita stupida domanda: «Che cosa stai disegnando?». Lei alzò lo sguardo e, indicando gli alberi con un gesto, rispose gentilmente: «Oh, solo quello che vedo». Immaginai che le fantasie più moderate di Bob fossero delle visioni psichedeliche folli, che si susseguivano alla velocità degli astri.

Di rado si mostrava tenero, quasi mai si sforzava di anticipare i bisogni altrui, ma a volte manifestava un tale interesse per qualche altro sbandato, autostoppista o straccione, da fare una deviazione dalla sua strada per assicurarsi che ci fosse qualcuno a prendersene cura. Era commovente e infinitamente fragile. Le sue mani, di un bianco straordinario, si muovevano senza sosta: si portava una sigaretta alle labbra, continuava a tirarsi una ciocca di capelli sul collo e, senza farci caso, si rovesciava addosso la cenere della sigaretta, in una polverosa processione giù per la sua giacca. Stava in piedi a riflettere, muovendo la bocca, flettendo prima un ginocchio, poi l’altro: destro, sinistro, destro, sinistro. Pareva animato dal centro dei suoi pensieri e delle sue fantasie, e come un pazzo ne era anche divorato.

Il suo era un umorismo asciutto, intimo e brillante. A volte si metteva a ridacchiare: poco a poco, le sue labbra, partendo da un sorriso genuino, si arricciavano. Poi, di colpo, si stringevano ancora, finché il breve moto convulso del ridere le riportava al sorriso e, a volte, a un largo sogghigno che sfociava in una sghignazzata. Mi sentivo sempre molto lusingata, quando Bob divideva con me una delle sue bizzarre immagini e mi chiedeva che cosa significasse secondo me. Se indovinavo, lui ribatteva: «Come cazzo fai a saperlo?». Una volta, dietro sua richiesta e per suo divertimento, gli diedi la mia interpretazione personale di tutto un suo brano. Ne parve colpito. Poi disse: «Sai, quando creperò, la gente interpreterà tutte le mie cazzo di canzoni. Interpreteranno ogni fottuta virgola. Loro non sanno che cosa vogliono dire. Merda, non lo so neanch’io».

Sarebbero giunti momenti in cui insieme avremmo cantato, riso, scherzato, chiacchierato, momenti in cui avremmo fatto follie, saremmo andati al cinema, in motocicletta, in cui avremmo dormito insieme. Eppure mai più, dopo quel giorno al Village, avrei riprovato quella naturalezza nello stare semplicemente con lui, sapendo che per qualche tempo niente di quello che facevamo o ci dicevamo doveva essere prima soppesato o ripensato. Da quel giorno in poi, fu come se cominciassimo a spostarci dall’occhio del ciclone verso la turbolenza, con il vento che strappava la sua mano dalla mia fin dal primo passo.

Bobby invitò me, Mimi e suo marito, Dick Farina, ad andare a stare un po’ a casa di Albert Grossman a Woodstock, Stato di New York. Dick e Bob scrivevano, Mimi cantava e faceva la moglie, io mi riposavo tra una tournée e l’altra. Bob aveva una moto, una Triumph 350, che prendevo per girare tra i boschi e per le vie secondarie, a volte con lui sul sellino posteriore. Restammo a Woodstock quasi tutto il mese, Bob sempre alla macchina per scrivere, che stava in un angolo di camera sua, bevendo vino rosso, fumando e pestando senza tregua per ore sui tasti. A volte si svegliava nel cuore della notte, grugniva, afferrava una sigaretta e si dirigeva a tentoni di nuovo verso la macchina per scrivere. Sfornava canzoni al ritmo di una telescrivente e io gliele rubavo appena le aveva scritte.

Nella freddezza di un ricordo rapido e selettivo, non sarei mai riuscita a rivelare il traboccante entusiasmo di quel periodo passato con Bobby a Woodstock. Lo ritrovo in una lettera spedita a casa, insieme con un interessante poscritto.

Estate, 1964
Cara Mamma,
meglio non farla vedere al vecchio: l’ha scritta Bobby Dylan. Sono diventata molto amica di Bobby, in quest’ultimo mese. Ci divertiamo molto insieme! Wow, fa perfino il bagno e tutto quanto. Però quando ho detto: «Oggi penso che scriverò a Mamma», ha fatto uno saltello in aria e ha detto che voleva buttar giù lui la lettera, come se fossi io a scriverla e mi ha fatto promettere che l’avrei firmata. È un po’ scurrile, e lui ci ha riso su per un’ora. È molto gentile con me. Mi ha comperato una bella giacca, un abito e degli orecchini, è una gioia stare con lui. Capiamo le esigenze di libertà di ciascuno di noi e non ci sono catene, solo sentimenti positivi, risate e un mucchio d’amore. E adoro il suo genio.
Il disco è pronto, dovrebbe uscire tra un mese, e così pure il libro. Torno a casa sola. È stato un periodo molto divertente, che ho passato quasi tutto con Bobby, ma adesso voglio rimanere sola per un po’ e trascorrere qualche tempo con Ira. La mia casa dovrebbe essere pronta per il mio ritorno. A Denver incontrerò i Beatles. Li trovo adorabili, poi andrò a casa in treno. Sarà bello stare da sola. Bobby è un abilissimo uomo d’affari, e mi ha dato il nome di un consulente finanziario di Los Angeles che mi dovrebbe aiutare con tutti i miei maledetti legali, manager etc. Hanno bisogno di essere spronati. Gli affari di Bobby sono gestiti in modo magnifico. Non lo immaginereste mai. È un tipo sveglio. Tutto procede per il meglio. Mimi e Dick non sono troppo tranquilli, ma va a periodi. Credo che Bobby verrà a stare con me per un po’, se la casa sarà pronta, ma deve andare in tournée l’8 settembre. Di certo vi farebbe piacere vedere quanto ci divertiamo insieme. Lo amo davvero.
Vi voglio tanto
Tanto
Tanto bene -Joanie

. . .

giorno 21, un’ora qualsiasi
cara mamma,
sono io; mi trovo a woodstock da zio alby. bella casa, dovresti essere qui. piscina, roba del genere, sono con-chi-sai- tu. anche dick e mimi sono da queste parti, ma non li vedo molto spesso perché chi-sai-tu mi monopolizza, mamma, devi credermi, avevo intenzione di stare dai foreman come da programma, voglio dire, era tutto organizzato, comunque, quando mimi e io siamo arrivate in città, per prima cosa siamo andate lì. sai, siccome ero stanca ed era già passato mezzogiorno, ho pensato di fare un pisolino, sono andata a letto, ho tirato indietro le coperte e, gesù, indovina chi c’era nascosto sotto la trapunta? sì, proprio lui. non so se mi crederai ma, te lo giuro su dio, stava là tutto raggomitolato come una palla dentro il cuscino, mammina, merda, la prima cosa che ho fatto è stato chiamare mimi.
mimi è corsa subito giù per il corridoio, ma credi forse che sia servito a qualcosa? chi-sai-tu si è alzato lentamente, poi è saltato in terra, mammina, i capelli gli erano cresciuti fin oltre la vita, aveva addosso quell’orrendo maglione che puzzava come se fosse un anno che non si lavava, mammina, era terribile; cioè, perfino alfredo il cubano, poi l’hanno sentito dire: «ay tairdbil» (aye, que terrible), comunque mimi vedendolo ha fatto dietrofront e si è messa a correre, se l’è proprio data a gambe, chi-sai-tu non ha certo perso tempo, lasciamelo dire, mi ha gettato sul letto come fosse un cavernicolo (erano circa quattro giorni che non si rasava, mammina, lo giuro su dio, quattro giorni!), e poi sai come mi stanco facilmente. Intendo dire che non ero in grado di lottare e lui diceva qualcosa, in un modo che non avevo mai sentito, nemmeno nei film, intendo dire che diceva: «ehi, andiamo, ehi, andiamo» e continuava a ripeterlo, e tu mi conosci, cado come fossi avvinghiata a un’incudine, quando succedono cose che non avevo mai sentito prima, non vorrei che tu pensassi che lui (chi-sai-tu) mi abbia influenzata o altro, mammina, sono solo caduta in tutte quelle trappole, forse il secondo strizzacervelli aveva ragione, forse io NON mi conosco come dovrei, forse aveva ragione quando diceva: «Joannie cara, tu non ti conosci», comunque chi-sai-tu, in mancanza di parole migliori, mi ha preso, non era come captain kid che scende di colpo da quel coso, l’albero maestro, ma era lo stesso un po’ strano, mi ha preso un po’ di sorpresa, cioè, che cosa avresti fatto, tu? ho lottato e tutto, mammina, ho lottato a non finire, gli ho dato un morso tremendo al naso, gli ho mollato un calcio là dove fa più male, gli ho artigliato la nuca finché il sangue non gli è colato fino all’ombelico, mammina, e gli ho soffiato così forte nell’orecchio fino a pensare che gli schizzassero fuori gli occhi, ma poi lui ha fatto quella cosa stupida, ovvero continuava a ripetere «ehi, vieni, vieni», ma intanto recitava anche una poesia; mentre io cercavo di graffiarlo e di torcergli il gomito, lui ha cominciato a chiamarmi ramona, ti giuro che in principio credevo fosse uno scherzo, lui continuava a dire cose come «inutile tentare» e parole come «esistere», e mamma, te lo giuro, aggiunse anche qualcosa a proposito di spaccare «musi country», non potevo lottare, non potevo proprio lottare, e così sono svenuta, mi sono svegliata qui, non faccio concerti da un mese, manny chiama in continuazione, victor continua a rispondere al telefono «no, lei non c’è» con una voce buffa, e chi-sai-tu non dice altro che «va tutto bene» e «non importa», be’, adesso devo andare, chi-sai-tu sta facendo questo film e vuole che gli massaggi la testa mentre lui si prepara, comunque credo che sia tutto ok. la casa fa progressi, oh, ho ceduto la mia auto a chi-sai-tu; già, lui ha detto che questo avrebbe eliminato un sacco di preoccupazioni dalla mia testa riguardo le cose che possiedo… be’, io credo che avere la macchina non è che mi causasse tutti questi pensieri, ma lasciamo perdere… chi-sai-tu ha venduto l’auto, dice che è meglio così perché adesso non seccherò più perché mi lasci guidare, mammina, chi-sai-tu è il peggior autista del mondo, ti giuro, e mi viene quasi un accidente ogni volta che mi accompagna dallo strizzacervelli.
Il mio strizzacervelli lo odia, ma questa è un’altra storia e te ne parlerò un’altra volta.
ok, allora addio
maynard solomon dice di salutarti e continua a chiedere quando vieni ok ciao
e non ti preoccupare affatto per me oh,
PPSho dato quella mia piccola foto a chi-sai-tu e lui l’ha attaccata dentro la sua ford station wagon
mamma, sto bene
non ti preoccupare per me, ti prego
tutto passa, tutto cambia
oh, mammina, mammina, ti amo così tanto
oh mammina,
salutami brice e pauline
oh, oh ecco che arriva chi-sai-tu
non voglio che mi sorprenda a scriverti
devo andare
ti voglio bene
Joanie

Bob aveva quel genere di carisma che non gli concedeva mai dei momenti di riservatezza. Tutti volevano fare colpo su di lui, dire qualcosa di brillante che lo facesse ridere, segnare in qualche modo un punto a proprio vantaggio, in modo da poter ripensare più tardi a quel momento e sentirsi speciali. Anche se avevo un legame con lui, godendo perciò di una posizione invidiata dalle crescenti schiere dei suoi fan, provavo anch’io la stessa cosa. Dylan teneva tutti a distanza, eccetto che in qualche raro momento da noi tutti ricercato.

Anche se non avrei mai voluto essere il tipo che si appiccicava a Bob, ero ferocemente possessiva. Una sera eravamo al ristorante con Mimi, Dick e qualche altro amico. Bob attirò l’attenzione di una fan appena giunta in pellegrinaggio, che sedeva all’altro capo del locale e guardava verso il nostro tavolo con aria implorante. Bob le ricambiò l’occhiata e Mimi e io ci mettemmo a chiocciare come due vecchie galline arrabbiate, facendo commenti maligni sul pallore di quella poveretta, sulla sua espressione infelice e un po’ folle, sul suo tipico abbigliamento sbrindellato. Sapevo che quando si ubriacava, Bob s’ingozzava, perciò continuai a riempirgli il bicchiere, finché gli occhi non gli diventarono rossi e annebbiati, poi gli offrii un dolce. Appena finiva un dessert, gliene cacciavo subito un altro sotto il mento; lui allora lo punzecchiava osservandolo con aria sconsolata, come se avesse voluto che sparisse, poi lo mangiava e cercava di mandarlo giù con altro vino e altro caffè. Alla fine la ragazza, a causa delle occhiate sempre più insistenti di Bob, veleggiò attraverso la sala, approdò senza tanti complimenti al nostro tavolo e sprofondò goffamente su una sedia, sempre con gli occhi inchiodati su di lui. Bob era sbronzo, tronfio, disgustoso e villano.

La mia rabbia era duplice. Per il cinquanta per cento ero gelosa dell’attenzione di Bob per la ragazza, per l’altro cinquanta lo ero dell’attenzione della ragazza per lui: mi faceva male constatare che quello sguardo adorante, di solito riservato a me, era concentrato in quel momento su quell’ubriacone che mi sedeva accanto. Andai alla toilette delle signore e diedi in escandescenze. Mimi si arrabbiò con Bob, poi ricordo di essere rimasta fuori, sulla strada, aspettando che lui venisse da me e mi dicesse qualcosa di carino, come: «Scusami. Non so che cosa m’è successo. Come ho potuto essere tanto stupido, quando l’unica cosa che desidero è stare con te». Bob, invece, non faceva che ripetere che i dolori allo stomaco lo stavano uccidendo, continuando a chiedermi che diavolo avesse mangiato, Cristo santo. Gli dissi quello che aveva mangiato, poi cominciai a sentirmi dispiaciuta per lui; aveva un’aria così infelice, con lo stomaco duro come un sasso che sporgeva gonfio sotto la maglietta. Infine lo riportai a casa in macchina, certa che a ogni curva avrebbe vomitato due torte alla crema e una al cioccolato e noci pecan, prima di riuscire a scendere dall’auto. Bob, invece, si addormentò e cominciò a russare. Dovetti svegliarlo e praticamente portarlo a letto, dove piombò subito di nuovo in qualcosa di molto simile al sonno dei giusti.

Nell’agosto del 1963 andai in tournée e invitai Bobby a cantare nei miei concerti, seguendo l’esempio di quello che Bob Gibson aveva fatto per me quattro anni prima. In quel momento, riuscivo a richiamare un pubblico anche di diecimila persone, e trascinare sul palco il mio piccolo vagabondo era un grosso esperimento, una scommessa che alla fine — lo sapevo — lui e io avremmo vinto. La gente che non aveva mai sentito parlare di Bob spesso s’infuriava e a volte lo fischiava, quando interrompeva le ipnotiche canzoni della cantante più attraente del mondo, con le sue melodie condite d’immagini crude, indignazione e umorismo. Io rispondevo a quelli che l’offendevano agitando il dito come una maestrina, invitandoli ad ascoltare le parole, perché quel giovanotto era geniale. E loro ascoltavano.

Un pomeriggio, durante la tournée, arrivai nel parcheggio di un albergo e chiesi a Bob di andare alla reception per registrarci. Quando mi avvicinai al banco, venni accolta con calore, ma il gestore guardava Bob con tutt’altro occhio.
«Avete anche una stanza per il mio amico?» chiesi. No, non ce l’avevano.

Bob stava curiosando intorno a un posacenere a colonnina all’altro capo dell’atrio. Se lo si guardava con occhio artistico, aveva l’aria di un poeta, ma a uno sguardo poco avvezzo poteva sembrare un vagabondo. Il mio impeto di rabbia protettiva durò finché la direzione non rimediò una camera anche per lui, cosa che avvenne solo quando dichiarai che me ne sarei andata se non avessero trovato «una bellissima stanza» per Mr. Dylan. Mi scusai con Bob, che però mi rispose che non gliene importava proprio niente. Tuttavia, quella sera, a concerto finito, aveva già scritto un’intera canzone intitolata When Your Ship Comes In. Era un brano indignato, vendicativo, potente e poetico.

Non ho mai sperimentato un carisma come quello che mostrava Bob nelle sue performance anti-artistiche. Al suo entrare in scena, si avvertiva uno straniante senso di desolazione. Anche adesso, che è un esperto musicista rock con oltre vent’anni di esperienza, controlla da solo il management, il pubblico, la security e il personale del palco solo con un cenno o una parola. Quando le luci si accendono e la folla urla eccitata nell’attesa, cerca di arrivare sulla scena dando le spalle al pubblico, giocherellando con un armonica o due. Quando si gira verso gli spettatori, ha l’aria di uno che preferirebbe starsene in un salotto in penombra a giocare a scacchi. E forse in un certo senso è proprio così.

Ogni tanto (come accadde molto più tardi, durante il Rolling Thunder Revue[1], nel 1975) sembrava terribilmente felice. Felice di mettersi un cappello adorno di fiori dai colori accesi, felice di uscire baldanzosamente sulla scena, felice di vedere la folla. (Credo che da lontano non ci veda molto bene. Una delle ultime volte che gli ho parlato, è stato a Berlino, ai bordi di una piscina, durante una tournée. Strizzava gli occhi nella direzione in cui pensava io fossi seduta. «Sono qui, Bob» dissi indicando alcune sedie alla mia sinistra. Lui strizzò gli occhi verso il punto che gli indicavo. «Ma fin dove riesci a vedere?» gli chiesi, mentre lui mi stava davanti in piedi, avvolto in un accappatoio lungo fino al pavimento, con il cappuccio a punta. «Oh, l’oculista dice che i miei occhi stanno migliorando!». «Certo, ma fin dove riesci a vedere, Bob?»). Per qualche tempo, portò sciarpe dai colori vivaci che contrastavano con il suo viso pallidissimo, sorrideva alla sua band, ridacchiava tra sé sotto il trucco e diceva spiritosaggini al pubblico, che cercava di decifrare le sue parole, neanche fossero scaturite dalle tavole dei dieci comandamenti. Secondo me si divertiva moltissimo a prendere in giro tutti quanti, ma non importava. Le canzoni erano formidabili, i musicisti ammalianti e il palcoscenico un folle circo. Durante il Rolling Thunder, non mancai di ascoltarlo una sola sera. Era la sua intensità, credo, e le parole.

Prima che Bob diventasse “elettrico”, c’erano solo lui e la sua chitarra, e le sue splendide, sconnesse, mistiche parole.

Quelle parole, che Bob disseminava sulla pagina bianca come pepite d’oro scivolate fuori dalle sue maniche, mi avrebbero allontanato dalle eteree ma vetuste ballate di un tempo, portandomi nel vivo della scena musicale degli anni Sessanta. Più di una volta, quando per l’emozione mi capitava di fermarmi in piedi sul palco, magari anche a metà di una canzone, dicevo: «Ho qualcosa da dire, ma non so cosa sia… riguarda questo nostro povero vecchio mondo». Poi tornavo a cantare una ballata che parlava di compassione, di affetto e della profondità delle lotte umane, ma in modo così personale da avvertirla lontano dai più pressanti problemi del momento. Bob era con me, la prima volta che cantai With God on Our Side in concerto. Avevo appena finito di memorizzarla e nell’auditorium faceva molto caldo. Il sudore mi colava giù per la schiena e dietro le ginocchia. Ero nervosa, eccitata ed euforica.

Fino a quel momento, le canzoni in cui si integravano la mia musica e le mie profonde preoccupazioni sociali erano Last Night I Had the Strangest Dream, We Shall Overcome e qualche spiritual. Le canzoni di Bob sembravano rivedere i criteri di giustizia e di ingiustizia. E anche quando non parlavano di giustizia, lui ti faceva credere che fosse così, con la sua immagine, il rifiuto dello status quo, il suo atteggiamento contrario alla crescente agitazione nel Paese.

Niente avrebbe potuto esprimere meglio le idee della nostra generazione di The Times They Are A-Changin. Il movimento per i diritti civili viveva il suo periodo più florido e la guerra del Vietnam che avrebbe lacerato gli Stati Uniti, dividendo, ferendo, segnando irreparabilmente milioni e milioni di persone, avanzava verso di noi come un possente uragano. Quando la guerra cominciò, io e altre migliaia di persone l’avremmo combattuta. Bob sarebbe stato meno presente per altre cose ma, prima che il colpo iniziale venisse ufficialmente esploso, aveva già riempito il nostro arsenale di canzoni come Hard Rain, Masters of War, The Times They Are A-Changin’, With God on Our Side e infine Blowin’ in the Wind, brano che ha resistito agli anni Sessanta ed è diventato di tutto: dal canto da intonare attorno al fuoco nei campeggi dei boyscout tedeschi, alla musica per ambienti negli alberghi Hyatt House, fino a essere il più famoso inno della coscienza sociale di tutto il mondo. Il nome di Bob Dylan sarebbe stato così strettamente associato ai movimenti radicali degli anni Sessanta, che lui, più di tutti gli altri ragazzi con la chitarra in spalla e i quaderni scarabocchiati di parole variopinte, sarebbe passato per sempre alla storia come il leader del dissenso e del mutamento sociale, che gli piacesse o meno, e ritengo che in realtà non gliene importasse molto, né in un senso né nell’altro.

Anche ora, negli anni Ottanta, Farewell, Angelina, una graziosa canzoncina d’amore intessuta di immagini strampalate, riesce a riportare i quarantamila spettatori di un festival francese a quei giorni degli anni Sessanta, a fargli respirare ancora per qualche istante l’atmosfera del tempo in cui “tutto accadeva”, la vita sembrava avere uno scopo e ognuno di noi poteva fare la differenza. E questo, mio caro Bob, non è poi così fottutamente male.

Lasciai Woodstock e andai a Carmel Valley, dove anche tu, pensavi di trasferirti dopo un po’. Tu, Mimi e Dick mi guardaste partire; mi hanno poi riferito che tu sei andato direttamente dalla stazione a una cabina telefonica per chiamare Sara. Ignorando perfino che esistesse una Sara, me ne andai tutta felice, carica di ricordi, canzoni, qualche disillusione e una camicia da notte azzurra che avevo trovato in un armadio in casa di Albert e che tu mi avevi detto di tenere. Dodici anni dopo, quando finalmente conobbi Sara e diventammo anche amiche, parlammo per ore di quei giorni in cui l’Original Vagabond divideva il suo tempo tra noi due. Dissi a Sara che Bob non mi era mai sembrato un tipo da fare troppi regali, ma che una volta mi aveva comprato un cappotto di velluto verde, mentre in un’altra occasione mi aveva lasciato tenere una bella camicia da notte che avevo trovato nella casa di Woodstock. 76.

Quando mi raggiungesti nella Carmel Valley, giravamo in macchina su e giù per la costa di Big Sur, prendemmo a frequentare le coffee house di Cannery Row e comperammo un piano verticale da duecento dollari. Tu stavi in piedi, davanti ai finestroni della cucina, con la tua macchina per scrivere posata sopra un ripiano di mattoni rossi che ti arrivava all’altezza della vita e dava sulle colline. Scrivesti Love Is Just a Four-Letter Word e The Lonesome Death of Hattie Carroll, tra le altre cose, e una sera, chiacchierando, mangiasti tutta la carne di uno stufato che avevo cucinato, lasciando agli altri solo la verdura e le patate.

Durante quel mese d’estate, parlammo allegramente del «nostro futuro». Accennammo perfino a un bambino. Credo che gli avessimo anche scelto il nome: Shannon. Ricordo che un giorno, tornato a Woodstock, mi telefonasti e mentre in sottofondo si sentivano dei rumori che parevano di una festa, mormorasti qualcosa a proposito di matrimonio. Ricordo che ti dissi «no». Non era stata una vera proposta. Era il seguito senza impegno dei nostri scherzi, dei nostri giochi, che avrebbero anche potuto portare all’unione senza impegno di due vite in un matrimonio senza impegno. Questo è quanto rammento. Sono sicura che il tuo ricordo sarà un po’ diverso, se non del tutto.

A dispetto di ciò che accadde o non accadde quell’estate, facemmo comunque progetti per cantare insieme in un breve tour per gli Stati Uniti nel marzo e nell’aprile del 1965. Manny si occupò della locandina, che dovevamo approvare entrambi.

Il peso dei nostri nomi in cartellone doveva essere identico e alla fine ci accordammo per un disegno di Eric Von Schmidt, con la testa di Bob un po’ più alta della mia e con il mio nome un po’ più alto del suo, in modo che, almeno a prima vista, nessuno dei due avesse maggior risalto.

Insieme eravamo una sorta di fenomeno; facevamo il tutto esaurito nei locali e ottenevamo recensioni entusiastiche. Lo spettacolo si divideva esattamente in due parti. Aprivamo insieme, io cantavo per quaranta minuti, poi c’era un intervallo, Bob cantava per quaranta minuti e chiudevamo insieme. È stato divertente. Viaggiavamo molto in auto, avevamo un gran successo e ci portarono anche a conoscere i Beatles.

(Una lettera a casa)
Carissimi,
certe volte sono così fortunata, che si rasenta il ridicolo. C’erano almeno diecimila persone che avrebbero dato volentieri il braccio e la gamba destra pur di toccare, parlare o anche magari stare soltanto nella stessa stanza con uno dei “Beautiful Beatles”. Devo dire che mi sentivo più o meno allo stesso modo. E poi è successo che i giornalisti mi hanno portato alla loro conferenza stampa. Loro avevano saputo che c’ero anch’io e hanno chiesto di vedermi e così è finita che ho visto il loro concerto dal palcoscenico, dopo averli aiutati a sistemarsi cravatte, polsini, capelli etc., poi sono andata via con loro in limousine con le sirene della polizia, le motociclette etc., fino all’albergo; sono salita nella loro suite per quello che immaginavo sarebbe stato un party terribilmente rumoroso, ma loro hanno cacciato tutti gli altri e siamo rimasti solo noi cinque a ridacchiare, a fare gli scemi e a cantare fino alle tre del mattino.

Amavo la celebrità, l’attenzione del pubblico e mi piaceva cantare assieme a Bob, ma ben presto le nostre sostanziali differenze vennero a galla e cominciarono a condizionare il nostro rapporto. Una volta gli chiesi come fosse arrivato a scrivere Masters of War. Mi rispose che l’aveva fatto perché sapeva che avrebbe venduto bene. Non mi bevvi quella risposta allora e non lo faccio neanche oggi; credo però che il suo impegno concreto per il progresso sociale si limitasse allo scrivere canzoni. Che io sappia, non ha mai partecipato a una marcia. E di certo non ha mai compiuto gesti di disobbedienza civile, almeno per quel che ne so io. Ho sempre avuto la netta sensazione che semplicemente non volesse assumersi delle responsabilità. Una volta, parlando dei ragazzi fra il pubblico che chiedevano a gran voce Masters of War, mi disse: «Credono che io sia qualcuno che non sono». Poi fece qualche battuta in proposito e mi disse di stare attenta a loro e a «tutta quella roba». Gli risposi che avrei fatto del mio meglio.

Eravamo fuori, da qualche parte. Strappavo dei fili d’erba, preoccupata all’idea che le nostre strade si stessero separando, prendendo direzioni molto diverse. Gli chiesi che cosa ci rendesse differenti e lui rispose che era semplice: io pensavo di poter cambiare le cose, mentre lui sapeva che nessuno poteva farlo. La sua osservazione m’inquietò. Forse, sarebbe diventato il Re del rock and roll, accanto alla mia Regina della pace.

Un giorno andammo a mangiare un boccone insieme, prima dello spettacolo. Bob aveva lasciato appesa a un attaccapanni in camerino quella che io chiamavo la sua «vomitevole giacchetta». Avevo cercato (una delle mie migliori qualità) di convincerlo a mettersi qualcosa che non fosse quella rivoltante, striminzita, logora, orribile giacchetta da orfanello inglese, che lui amava con tutto il cuore. Dovevo aver riportato una temporanea vittoria perché, quando uscimmo per andare a prendere gli hamburger, s’era infilato addosso qualcos’altro. Al ritorno, la sua giacchetta era sparita. Mi sentii malissimo e Bob si mise a urlare con la faccia paonazza al nero del servizio di sicurezza, un omone alto uno e novanta, di «andare a farsi fottere fuori di lì». La guardia sgattaiolò via. Bob allora si rivolse a me, sempre strepitando. Aveva i lineamenti del viso alterati, le vene sporgenti e gli occhi orlati di rosso. Mi feci forza e gli dissi di non rivolgersi con quel tono né a me né a nessun altro al mondo e che, quando fosse stato pronto per le prove, mi avrebbe trovato nel mio camerino. Uscii, un pilastro di forza per chiunque mi guardasse, ma dentro di me ero un mucchietto di gelatina. Bob fu molto carino durante le prove e la sua parte del concerto fu stupenda. Dopo lo spettacolo feci la brillante osservazione che avrebbe dovuto arrabbiarsi più spesso, perché aveva cantato anche meglio del solito; s’infuriò di nuovo, urlando che non era arrabbiato e che non lo era mai stato. Quando partimmo per l’Europa, ormai conoscevamo abbastanza l’uno dell’altra. Bob mi aveva invitato ad accompagnarlo in quel tour in Europa e io ero molto eccitata.

A volte penso che durante quella tournée in Inghilterra, nella primavera del 1965, tu ti sia allontanato del tutto dalla realtà. Venivi coperto di lodi, inseguito da fan isterici, suscitavi l’entusiasmo di liberali, intellettuali, politici, giornalisti ed eri sinceramente adorato da pazzi come me. Penso che da allora tu non ti sia mai veramente ripreso. Mi avevi invitata, e io credevo che fosse per cantare con te. Hai idea di come sarebbe stato meraviglioso per me? Io ti avevo fatto conoscere negli Stati Uniti; non solo sarebbe stato più che naturale che mi restituissi il favore in Europa, ma mi avrebbe dato la spinta perfetta di cui avevo bisogno prima della mia tournée personale, che partì subito dopo la tua. Ma evidentemente non era destino.

Quando atterrammo all’aeroporto di Heathrow, decisi di non starti tra i piedi, perché quello era senz’altro il tuo momento. Desti una tipica conferenza stampa alla Bob Dylan: mentre giocherellavi con una lampada da tavolo, confondevi i giornalisti con le tue non risposte, alcune delle quali erano piuttosto divertenti. In mezzo alla calca, ti avviasti verso la porta e per un secondo ti guardasti in giro, mi vedesti e mi tendesti la mano. Quell’attimo e quel gesto implorante, li ho immaginati? Avevi un’aria così vulnerabile e selvaggia. Stavi per essere inghiottito dai tuoi fan, ma pensai che sarebbe stato sbagliato afferrarti la mano in quel momento, così mi sono tirata indietro, scuotendo la testa con un sorriso d’incoraggiamento, mentre tu sparivi in mezzo a giacche di tweed e impermeabili. Pensavo che più tardi avremmo parlato, quando tutto sarebbe stato più calmo e tu avresti desiderato solo una tranquilla tazza di tè.

Quel momento di calma non arrivò mai. E perché diavolo avresti dovuto desiderare ancora una tazza di tè con la sottoscritta? Loro erano convinti che tu fossi Dio. Pensavo che tu fossi mio amico, volevo salire sul palcoscenico con te, condividere il successo e l’emozione. Tu invece volevi quel tour tutto per te e, se non fossi stata così distrutta da perdere il bene dell’intelletto, me ne sarei tornata subito a casa, dopo aver tranquillamente passeggiato sul London Bridge, che a quel tempo stava ancora in Inghilterra .

Bob, non fu l’amore a rendermi intrattabile per tutta la durata del tour (anche se sono sicura che non ti rendevi affatto conto della mia infelicità); fu la disperazione. Per la prima volta nella mia carriera — breve ma colma di successi –, qualcuno mi aveva sottratto il fragore degli applausi da sotto il naso. Non facevo che girellare qua e là sentendomi a disagio. Se non fosse stato per Neuwirth, un nostro comune amico che faceva da compagno di viaggio per te e da centro anti-suicidio per me, avrei avuto un crollo completo. Una notte entrai nella camera di Neuwirth piangendo. Lui mi abbracciò, mi asciugò un fiume di lacrime dalle guance e dal mento e mi pregò di fare i bagagli e di abbandonare il tour.
«Ma Bob mi ha chiesto di venire. Me lo ha chiesto lui» protestai.
«Lo so, ma ora non capisce più che cosa sta succedendo, non vedi? E là fuori, preso nel vortice, e vuole farlo da solo».

Una mattina, tutto il nutrito seguito di Bob si stava ammassando sulle limousine per dirigersi alla volta di Liverpool. Non sapevano mai dove sedersi, e lui non invitava mai nessuno. Io ero preoccupata per un ospite nuovo, al quale Bob aveva chiesto di accompagnarlo e mi azzardai a dirgli: «Bob, non pensi che il tal dei tali oggi dovrebbe sedere in auto con te?».

La faccia di Bob si rannuvolò come per una seccatura improvvisa.
«Dovrebbe sedersi qui? Dovrebbe sedersi qui? Non m’importa un cazzo di dove si siedono. Che ci pensino loro a se stessi». E infilò la testa nella limousine, lasciando che quell’orda se la sbrigasse da sola. Lo seguii in macchina. Prese il pacco dei quotidiani e cominciò a leggere gli articoli che lo riguardavano. Gli capitò sotto gli occhi una frase detta da me. In un momento inopportuno, qualcuno mi aveva chiesto come fosse il vero Bob Dylan.

Per un fugace istante mi ero gingillata con l’idea di dare a quel tipo una risposta sincera, ma poi avevo deciso che era meglio non farlo e avevo risposto semplicemente:
«Bob è un genio».
«Che cazzo è questo?». L’umore di Bob si stava incupendo.
«Che cazzo è che cosa?».
«Qui riporta che hai dichiarato che sono un genio. Che cazzo vuol dire?».

All’apparenza ero calmissima.
«È quello che si dice quando non ti viene in mente nient’altro, Robert.»
«Come t’è saltato in mente di chiamarmi genio?».
«Avresti preferito che dicessi loro quello che penso davvero?».

A volte pensavo di essere la sola a rendersi conto di quello che gli stava davvero accadendo. Stava diventando maledettamente viziato, durante quel suo primo tour. Attaccava foto alle pareti del Savoy Hotel, ordinava mucchi di cibo, che poi lasciava ammassati attorno a sé. A pagare i conti era Albert, e la stanza di Bob era sempre piena di leccapiedi pronti a elogiare ogni nuova riga che spremeva fuori dalla sua macchina per scrivere.

Non capivo che in fondo ero anch’io una lacchè. Ero ancora disperatamente aggrappata alla speranza che mi chiedesse di cantare. Tuttavia, nonostante le petizioni che i ragazzi inglesi mandavano a Bob per sentirmi cantare (probabilmente non gli furono nemmeno consegnate dallo staff, piuttosto protettivo nei suoi confronti), lui non me lo chiese mai. Ero una regina ferita, ma ancora piena di energia, una regina detronizzata da tempo, ma che si attaccava con i denti ai propri sogni di gloria. Il tour finì con Bob a letto, malato, dopo un’improvvisata puntata in un ristorante esotico per cena.

Diedi il mio concerto personale a Londra. Fu un successo, con il tutto esaurito, ma stavo troppo male per potermene rallegrare, dato che quasi tutto il resto del nostro entourage era rimasto in albergo con Bob. Era il primo di una lunga serie di concerti in Europa, ma allora non potevo saperlo. Avevo dimenticato di avere una carriera, di avere un enorme seguito, di avere una voce tutta mia. Non mi venne mai in mente che molti miei fan inglesi ed europei mi seguivano ormai da oltre cinque anni e che a loro, a conti fatti, non importava proprio niente dell’Original Vagabond, del fenomeno che non si lavava.

Non ero stata invitata in camera sua, ma andai comunque a cercargli un regalo. Mio padre e mia madre, venuti a Londra per assistere al mio debutto alla Royal Albert Hall, mi accompagnarono. Gli comperai una camicia griffata Viyella color blu scuro e, trepidante, andai a bussare alla sua porta, senza essere stata prima annunciata o invitata. Venne ad aprirmi Sara, che non avevo mai visto prima e che era appena arrivata in aereo per prendersi cura di Bob. Tutti avevano evitato accuratamente di dirmelo. Sara mi prese il pacchetto di mano, con un’aria paziente e uno sguardo interrogativo sul suo bel viso, sbatte gli occhioni neri, mi ringraziò a bassa voce e richiuse la porta.

Da: Joan Baez, Una voce per cantare. La mia vita, la mia musica, Milano, Bietti Edizioni, 2021, pp. 91–110

Rennaldo e chi?

Bob indossava delle sciarpe, un cappello di feltro grigio a tesa larga adorno di fiori, camicie a righe con il colletto alla coreana, gilet, blue jeans e stivali da cowboy. Faceva uno spettacolo di due ore, con la band e gli amici. Altre persone si esibivano in vari momenti dello show. C’era una chiromante anoressica, tale Scarlet Rivera, con una gran chioma di capelli neri lunga fino alla vita: portava un rossetto marrone, suonava un violino zigano e ondeggiava avanti e indietro, avvolta in piume e lustrini, occhieggiando di tanto in tanto Bob. C’era un angioletto di nome David Mansfield, che suonava la steel guitar, il violino e il piano. Aveva un bel viso bianco incorniciato di riccioli e un giorno le signore del Rolling Thunder lo vestirono con un paio di ali, un’aureola e nient’altro, a parte dei pantaloncini, e lo fecero suonare per noi. C’era un albino piuttosto alto, del Sud, di carnagione chiarissima e con delle occhiaie evidenti, il quale cantava una canzone di sette minuti che parlava di una ragazza giapponese che, mi pare, faceva harakiri. Roger McGuinn cantava Chestnut Mare e all’ultima nota veniva preso al lazo da Ramblin’ Jack Elliott, che una notte si mise a correre tra le roulotte completamente nudo. Kinky Friedman si precipitava in scena con un gran cappello da cowboy e gambali di cuoio e cantava Asshole From El Paso. Ronee Blakley, che pareva un incrocio tra Greta Garbo e una prostituta del Midwest, tutte le sere si metteva al piano e cantava una canzone lunga e triste, con un ritornello straziante che si ripeteva di continuo, come l’ululato di un lupo. Teneva sempre un broncio alla Marilyn Monroe, come se si aspettasse che qualcuno le infilasse una cannuccia nello spazio tondo tra le labbra e le offrisse un frullato. Le dissi che le avrei dato cento dollari, se l’avessi beccata con la bocca chiusa.

E c’era Neuwirth, fonte di risate e di follia (era stato il mio salvatore durante il tour di Londra di tanti anni prima. Per la verità, ero amica di Neuwirth ancora prima di conoscere Bob. Veniva spesso a trovare Mimi e me, quando stavamo a Belmont, vicino a Boston, e ci faceva sempre fare un sacco di matte risate). Neuwirth si truccava il volto da clown, con il nasone rosso, la testa calva e ciuffi di capelli di nailon verde, e saliva sul palco a cantare Where Did Vincent van Gogh? con Bob, il quale indossava una maschera di plastica trasparente che lo faceva sembrare una copia in cera di se stesso. Vedendo che tutti si travestivano, anche Ronee si mise degli occhiali a forma di fiamma, pieni di strass, e un basco, poi si dipinse dei cuoricini rossi sulle guance e mise un paio di baffoni neri finti sul suo bel labbro superiore.

Il capobanda, Rob Stoner, un bel ragazzo ambizioso dagli occhi sexy e dal viso butterato, recitò molto nel film che Bob girò durante il tour. Si diceva che questo film, a differenza di Don’t Look Back, il documentario girato durante il tour inglese del 1964, avrebbe avuto una trama, dei personaggi, delle scene e una vera recitazione. Girava voce che io avessi rifiutato di prendervi parte. Vi partecipavano tutti: chitarristi, batteristi, tecnici audio e delle luci. Così un giorno mi misi una parrucca di riccioli rossi, una maglietta stretta in vita da una cintura, stivali alti, mi schiaffai in faccia del trucco (compresi due enormi nei di bellezza), misi in bocca un chewing-gum verde, e ancheggiando, masticando e facendo schioccare la lingua, uscii sul balcone dell’albergo, dove stavano girando una scena. L’affascinante Stoner era tutto in tiro, con una camicia nera da cowboy con i lustrini, acconciatura alla pompadour e occhiali scuri. Mi avvicinai, mi appollaiai sulla ringhiera del balcone, intrecciai le gambe attorno a Stoner, mi tolsi la gomma verde dalla bocca e gliela appiccicai sulla guancia. Poi afferrai il suo bel faccino butterato e lo baciai alla francese. Fu così che feci sapere a tutti che anch’io volevo stare nel film.

Un giorno mi ritrovai ad arrancare sulla neve con Dylan, in una fattoria nel Canada, per girare una “scena”. Avevo impiegato mezz’ora per incollarmi un paio di ciglia finte e in testa avevo una lunga parrucca nuova, tutta a riccioli neri. Naturalmente facevo la parte di una puttana messicana — le donne del Rolling Thunder facevano sempre la parte delle puttane. La scena cominciava con Bob che mi spingeva sulla neve, verso una capanna. Per la verità non c’era né trama né sceneggiatura, per cui i personaggi “si sviluppavano” man mano che si girava. Dentro la baracca, mi sedetti con circospezione accanto all’eroe, Harry Dean Stanton, l’unico vero attore tra noi. Era stato fatto venire apposta da Hollywood per recitare la parte del buono e lui e io dovevamo cantare insieme Cucurrucucu Pdoma, parlare spagnolo, innamorarci e infine baciarci. A quel punto, con nostro sommo orrore, all’improvviso faceva irruzione nella capanna Dylan (o forse era Jack Elliott, non ricordo) e io, imbaldanzita dalla presenza del nuovo eroe al mio fianco, lo accoglievo a insulti, con il mio pesante accento messicano. Era una giornata gelida e io mi stavo chiedendo cosa diavolo ci facessi coinvolta in quel progetto di una stupidità monumentale e se Dylan lo prendesse davvero sul serio. C’era Sam Shepard, che avrebbe dovuto dirigere il film o scriverlo, ma non venne mai scritto né tanto meno diretto. Bob si metteva dietro la cinepresa e, ridacchiando tra sé, faceva correre tutti a destra e a manca, per farci recitare i suoi film mentali. Le riprese si riducevano a tante piccole allegre situazioni, rappresentazioni di ciò che Dylan aveva sognato la notte precedente.

Un giorno, in un albergo di Portland, nel Maine, Allen Ginsberg lesse una poesia in una sala da ballo piena di gente che giocava a Mahjong. La cinepresa filmò la sua performance e la reazione sbalordita della comunità ebraica. Non sapevano come reagire davanti a quella celebrità della letteratura mondiale dalla lunga barba, che aveva esordito con toni moderati, finendo poi per mettersi a urlare di vagine barbute, con gli occhi dietro le lenti sempre più strabuzzanti e folli.

Un altro giorno, salimmo su degli autobus e andammo a trovare Arlo Guthrie in un locale di proprietà di uno zingaro, nel nord dello Stato di New York. Era un ristorante con bar e, mentre tutti stavano seduti a bersi un ponce caldo e Bob cercava disperatamente di fare accadere qualche scena interessante, una vecchia zingara mi individuò in mezzo agli altri e mi disse che dovevo salire di sopra con lei, nella sua stanza. Lì, mi mostrò un cuscinetto ricamato, tutto sporco, con cui dormiva e che conteneva le ceneri del defunto marito. A suo dire, per non sentirsi mai sola. Sul letto giaceva un vestito da sera sdrucito, di raso bianco con le perline. Era lungo alla caviglia e sul bustino aveva delle spalline di pizzo. Accanto all’abito, c’era una vecchia borsetta da sera in raso e un girocollo di perle finte e di strass.
«Metti l’abito» mi disse allegramente, e cosi feci. Mi calzava a pennello. L’anziana si asciugò una lacrima dalla guancia rugosa e scosse saggiamente la testa: sapeva che quel giorno sarei arrivata, anche se non aveva idea di chi fossi, e aggiunse che vestito, borsa e collana erano miei. Poi mi baciò e mi disse di scendere di sotto e unirmi alla folla. Mentre scendevo giù per le scale, mi sentivo circondata da un’aura di magia positiva. Tutti mi notarono e ci fu un gran coro di «ooh» e «aah», quindi Bob decise di fare una “scena” con me. Prima di cominciare, scendemmo sulla riva di un laghetto. Era una fredda giornata autunnale, con un sole opaco nel cielo grigio. Ero scalza. Bob e io ci fermammo sotto un albero a parlare tranquillamente (non ricordo di cosa) come due persone qualsiasi. Per qualche minuto, fu come tornare indietro nel tempo, a quando avevamo diciannove anni, con le foglie marroni che cadevano attorno a noi e la neve che si posava sui nostri capelli… Sapevo che la magia sarebbe svanita non appena ci fossimo voltati, ma non m’importava. Tornammo sulla collina a girare. Davanti alla cinepresa, presi a dire tutto quello che mi passava per la testa. Chiesi a Bob perché non mi aveva mai detto di Sara e che cosa pensava sarebbe stato di noi, se in quel tempo lontano ci fossimo sposati. Non era molto bravo a improvvisare, perciò risposi da sola alle mie domande. Dissi che non avrebbe funzionato, perché io ero troppo politicizzata e perché lui diceva troppe bugie, e Bob rimase lì, con la mano sulla cinepresa, a sorridere imbarazzato, perché non sapeva che altro fare, anche se quello che avevo detto non doveva essere certo una novità, per lui.

In treno, Sara si sedeva sulle ginocchia di Bob. I bambini erano sparpagliati qua e là tra i sedili: i quattro Dylan, Gabe e Iggy, un suo amico. Non ero gelosa di Sara come avevo creduto. Anzi, mi sentivo protettiva nei suoi confronti. Pareva troppo fragile per essere una mamma. Aveva la pelle bianca e trasparente e due enormi occhi neri. Tutto nel suo viso pareva fragile: le occhiaie, le rughe di espressione sulla fronte, che andavano su e giù a seconda dell’umore, i capelli sottili e soffici come quelli di un angelo nero, le labbra imbronciate, il nasino perfetto e le sopracciglia ben arcuate. D’inverno Sara aveva sempre freddo. Pareva non avesse sufficiente energia. Ci sorridevamo a vicenda e un giorno arrivammo a parlarci di tutto, cioè di Bob, ovviamente. Sara era molto cauta. Era leale. Ma avevo come la sensazione che avessimo stipulato un patto di sopravvivenza contro suo marito.

Bob e Sara non erano ben equipaggiati per affrontare i problemi pratici della vita quotidiana. Stavo in continuazione a porgere loro asciugamani, tazze di caffè e bicchieri d’acqua, ad accendere loro le sigarette, a badare ai loro bambini, cercando di farli sedere allo stesso tavolo per la cena. Non so che cosa significassi io per loro. A volte avevo l’impressione di rappresentare la figura maschile o forse ero la custode di due creature eteree, venute da un altro spazio e da un altro tempo, due esseri bizzarri che si muovevano lentamente, pallidi come i lupi d’inverno, che gli dei avevano messo insieme perché provvedessero a se stessi.

Sara aveva timore di stare sui ponti costruiti sopra acque ferme. Quando me lo disse, pensai che in fondo la sua fobia era assai più poetica della mia, che avevo paura di vomitare, così scrissi per lei una canzone intitolata Still Waters at Night.

Un giorno mi vestii come Bob, con tanto di cappello, fiori e sciarpa abbinati, gilet e camicia, sigaretta in bocca, barba dipinta e stivali da cowboy. Entrai nella stanza dove stava girando il suo film, mi avvicinai a una guardia di sicurezza e, imitando la voce di Bob, dissi: «Dammi una tazza di caffè». Il caffè comparve in un millesimo di secondo.
«Dammi una sigaretta». Et voilà! Una sigaretta accesa si materializzò davanti a me, a rispettosa distanza.
«Ti è piaciuto?» chiesi alla guardia con la mia voce, sorridendogli.
«Cristo! Sei tu, Joan?».
«Uhuh. Non è da sballo?».

Perfino Bob rimase impressionato. Così facemmo una buffa scena, che finiva con me, che cantavo come Bob Dylan la canzone che avevo scritto per Sara. Bob faceva la parte di un cantante sconosciuto venuto a proporre a Dylan i propri brani, mentre io interpretavo Dylan e mi comportavo villanamente con lui. Sara entrò per caso nella stanza, piegò la testa da un lato, poi la scosse e si mise a ridere, infine si sedette a guardarci con quel suo sguardo velato ma curioso. Finii la mia canzone, feci qualche secca osservazione in stile Dylan e la scena finì.
«Okay» affermò Bob, «ci siamo».
«Bisogna rifarla» dissi con la sua voce. Era furioso.
«Ehi, andiamo. Stronzate, era ottima, magnifica».
«Ehi, andiamo. Stronzate, che scena del cazzo è questa? Non andava bene per niente, bisogna rifarla». Buttai un po’ di cenere di sigaretta per terra, mi arruffai i riccioli della parrucca e assunsi un atteggiamento antipatico. Rifacemmo la scena. Tutta soddisfatta, tornai nella mia stanza, indossai un turbante bianco e mi esercitai a imitare Sara.
«Hai intenzione di cantare quella tua canzone sulle uova di pettirosso e i diamanti?» mi chiese Bob, il primo giorno di prove.
«Quale?».
«Lo sai, quella sugli occhi azzurri e i diamanti…».
«Ah» esclamai io, «vuoi dire Diamonds & Rust, la canzone che ho scritto per mio marito David, quando stava in prigione».
«Per tuo marito?».
«Già. Perché, di chi pensavi che parlasse la canzone?» ribattei, dura come un muro.
«E che cazzo vuoi che ne sappia?».
«Non importa. Be’, sì, la canto, se ti va».

A Montreal avrei dovuto fare di nuovo la parte della puttana. Con una parrucca nuova, nuove ciglia finte, un corpetto rosso fuoco e giarrettiere e pizzi neri, stavo nella mia stanza, a fumare e bere vino rosso, preparandomi a compiere un altro passo verso la celebrità sullo schermo cinematografico, quando Bob mi chiamò e mi disse che aveva cambiato idea: io avrei interpretato Sara e lei invece la puttana. Gli suggerii che io avrei potuto fare lui e lui Sara, ma Bob disse che non lo trovava divertente. Era in preda a una frenesia creativa, immaginandosi la scena con noi tre. La costumista mi portò degli abiti di Sara, un turbante bianco, un cappotto invernale e dei guanti. Stavo provando la parte per conto mio, vicino a un divano nell’atrio, quando sentii una vocina che mi chiedeva qualcosa. Non era Gabe, ma uno dei bambini di Bob e Sara che mi confidava i suoi piccoli crucci. Restando di schiena, borbottai una risposta, poi gli dissi di correre via, che mi stavo concentrando. Il piccolo si allontanò senza dubitare che fossi sua madre. Compiaciuta con me stessa, rimasi nel personaggio e mi apprestai a fare quello che la scena richiedeva. Sara era in sottoveste, indossava una lunga parrucca ondulata e si stava sbaciucchiando con Bob sul letto. Avrei dovuto sorprenderli sul fatto e fare una scenata. Con mia grande delusione, continuavano a fermare le cineprese e a dirmi di cambiare ora questo ora quello. Pareva che nelle vesti di Sara dessi loro la pelle d’oca e, siccome non ero in grado di cambiare personaggio con quella velocità, la scena finì peggio del solito.

Il primo tour del Rolling Thunder si concluse al Madison Square Garden, il 9 dicembre del 1975. Con il consenso di Bob, la costumista mi vestì di tutto punto con un cappello nuovo, fiori e i suoi abiti, poi mi truccò il volto di bianco e mi dipinse la barbetta. La seconda parte dello spettacolo si aprì con due Dylan dotati di chitarra, abbigliamento, voce e gesti identici; l’unica differenza visibile, a guardarci dai posti alla decima fila o da quelli più indietro, era rappresentata dal fondo dei nostri blue jeans; i miei, infatti, avevano il didietro sporgente.

Durante lo show, mi esibivo per venti minuti, durante i quali ballavo al suono della vecchia Dancing in the Streets di Martha & The Vandellas e naturalmente cantavo Diamonds & Rust.

Il secondo tour del Rolling Thunder non cominciò bene. Ero furiosa, perché ritenevo che il mio status nello show e il mio compenso dovessero essere cambiati in mio favore. Bob aveva il chiodo fisso che mi dovevo lasciare ricrescere i capelli lunghi, come li portavo all’inizio. Una volta mi disse che avrei ricominciato a vendere dischi, se mi fossi fatta ricrescere i capelli. Ma tra le due tournée del Rolling Thunder me li ero tagliati cortissimi, perciò, quando entrai nella sala prove di Jacksonville, Florida, appena Bob mi vide, esclamò: «Ma che cazzo ti sei fatta ai capelli?».
«E tu che cazzo ti sei fatto alla faccia?» gli risposi e misi il broncio. Bob non voleva provare con me e nemmeno fissare un orario per farlo più tardi. Mi venne il raffreddore e me ne andai a letto sguazzando nell’autocommiserazione, poi scrissi una stupida canzone su Bob. A un certo punto diceva: «Non abbiamo molto in comune, eccetto il fatto che ci somigliamo molto». Era questa la cosa più strana. Non avevamo e non abbiamo niente in comune, eccetto il fatto che lui era il mio fratello mistico; eravamo stati fratelli di strada, legati dai tempi e dalle circostanze.

Me ne stavo a letto arrabbiata, con il naso che colava, proprio come quando ero andata in Inghilterra dieci anni prima. Louis, uno dei bravi e fedeli lacchè di Bob, un magnate ebreo dell’industria del pesce, che collezionava per hobby auto d’epoca, venne a vedere che cosa poteva fare per la Reginetta. Louis era un po’ depravato ma, nei momenti di crisi, con me si mostrava sempre gentile e premuroso. E quello era un momento di crisi, perché il primo concerto sarebbe stato due giorni dopo, e intanto non avevo fatto nemmeno una prova con Bob e minacciavo di andarmene a casa.

Venni riportata alla ragione e al tour con facilità. Bob venne da me e fu perfino quasi carino. Appena se ne fu andato, arrivò Neuwirth saltando nella mia stanza e urlando con accento italiano: «La Regina è viva! La Regina è viva!». Spalancò le finestre e lo gridò a tutta l’area esterna di quell’enorme complesso alberghiero. Mi sentii di colpo bene, ma anche un po’ imbarazzata per il colore che mi era affluito al viso e perché non riuscivo a smettere di ridere.

Cacciai fuori la testa, come una talpa a primavera. Davanti all’alloggio di Bob, una ragazza con i capelli colorati con l’henné e un vestito dell’Esercito della Salvezza stava camminando su una corda tesa tra due grossi tronchi muschiosi. Praticava la sua meditazione religiosa con discrezione ed era un tipo molto concreto. Rimase con noi fino alla fine del tour. C’erano musicisti dappertutto. Ormai Bob, al posto del suo bel cappello da cowboy, portava uno shmata e tutti quanti gironzolavano con delle bandane o delle strisce di lenzuola strappate intorno alla testa. Io cedetti solo verso la fine del tour, e anche allora solo con una sciarpa di seta rossa spagnola, lunga due metri e mezzo, avvolta a turbante e adorna di una vistosa spilla in mezzo alla fronte, nel punto in cui i raja mettono i loro gioielli regali. A questo giro, il Rolling Thunder non si mostrò né divertente né interessante, e io cominciavo a rendermi conto che mi stavo seriamente limitando dal punto di vista musicale, spirituale, politico e in qualsiasi altro modo.

Sara si fece vedere tardi, al tour, sbarcando da un aereo come una pazza, i capelli scarmigliati e gli occhi cerchiati, carica di ceste piene di abiti gualciti. In un paio di giorni, recuperò quelli che io definivo i suoi “poteri”. Bob la ignorava e si era scelto una certa Mopsy, una ragazzetta del posto dai capelli ricci, che si appollaiava sul pianoforte durante le sue prove in una sala da ballo vicino l’ingresso principale dell’albergo. Sara si presentò sull’uscio della hall con aria disinvolta, indossando un abito di pelle di cervo, con la sua collana di smeraldi e un profumo pesante e dolciastro. Mi salutò con un riservato «ciao» e si mise a parlare con indifferenza del più e del meno, tenendo d’occhio la porta chiusa della sala da ballo. Avevo l’impressione che stesse esercitando i suoi poteri magici su quella stanza e che qualsiasi progetto avesse in mente Bob fosse destinato a naufragare. La porta del salone si aprì e ne ruzzolò fuori Mopsy.

«Chi è?» domandò Sara, guardando in tralice la ragazza, con i suoi grandi occhi pigri e sospettosi.
«Una groupie. Non piace a nessuno» le risposi, ed era vero.

Avevamo tutti simpatia per la funambola, che spariva silenziosamente quando c’era Sara in giro. Ma Mopsy era un’intrusa senza freni e io mi resi conto di quanto parteggiassi per Sara.

Il mio ricordo successivo è nel backstage dello spettacolo di quella sera. Attraverso la porta di un camerino, stranamente spalancata, dietro le luci al neon, vidi Sara, con il suo vestito in pelle di cervo e i suoi olii profumati, su una sedia a schienale diritto. Il marito era davanti a lei, chino su un ginocchio, a testa scoperta e apparentemente sconvolto. Pareva un film muto, con Bob con il viso truccato di bianco e l’eye-liner alla Charlie Chaplin, Sara tutta ghiaccio, rimmel e rossetto. Quella sera cantai Sad-Eyed Lady of the Lowlands, e la dedicai a Sara.

Arrivò il compleanno di Bob e diecimila persone gli cantarono in coro gli auguri in uno stadio sotto la pioggia. Rimase con la testa incollata all’amplificatore finché la canzone non finì, poi attaccò con A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Quella sera improvvisammo una festa per lui, con tanto di torta, ma Bob si ubriacò e pareva stanco morto. Decisi di accompagnarlo fino alla sua camera. Lui cominciò a corteggiarmi lievemente, allora gli dissi di aspettarmi lì dov’era, filai in cerca di Sara e gliela recapitai sul posto. Entrambi si misero a ridere timidamente, con aria leggermente compiaciuta. Dissi «buon compleanno» e me ne andai in camera mia, abbastanza fiera di me stessa.

La tournée si concluse in modo piuttosto inglorioso da qualche parte nel Nord-ovest. Cominciava a fare freddo. Non mi piaceva la mia stanza, provavo nostalgia di casa e avevo la sensazione di stare sprecando la vita in una gabbia di matti. In definitiva, avevo visto ben poco Bob, perciò mi stupii quando venne al tavolo dove stavo cenando con altri membri dello staff. Voleva convincermi a prolungare il tour, dicendo che non dovevamo fare altro che continuare a fissare concerti lungo la West Coast e poi ovunque volessimo andare. Disse che eravamo il più grande spettacolo itinerante mai visto. Gli risposi che volevo tornare a casa.
«Perché? Cosa c’è a casa che manca nel Rolling Thunder?».
«Mio figlio e il mio giardino. E un sacco di cose da fare».
«Davvero? E quali?».
«Cominciare a rinsavire, per dirne una».
«Non vorrai venirmi a raccontare che a casa tua sei meno pazza che qui, dai!». Stava ingollando qualcosa da un bicchiere del bagno dell’albergo e cominciava a barcollare.
«Possiamo prenderci un sacco di cameriere, insegnanti, tutori e roba del genere e starcene in giro per sempre. E magnifico per i bambini. Diventerebbero una piccola banda. Sarebbe grande anche per Gabe. Non posso farcela senza di te, Joanie».

Suonava eccitante… Continuò con un’incredibile tirata su quanto io fossi meravigliosa e speciale. Anzi, ero «l’unica» e tutti gli altri non avevano mai contato niente. Non significavano un cazzo di niente.
«Sei tu che conti» decretò, annuendo con aria definitiva.
«Grazie, Bob. E tu sei ubriaco».

Continuò ancora per un po’ su quel tono, poi fini su un ginocchio, frugandosi in tasca in cerca di un temperino, sostenendo che dovevamo diventare fratelli di sangue. Aveva fatto scattare in fuori la lama del coltellino e cercava inutilmente d’incidersi il polso. Gli dissi di aspettare un momento e mi feci dare dal cameriere un coltello da bistecca ben affilato e pulito, lo immersi nello scotch e feci due taglietti sulla nostra pelle, profondi abbastanza perché ne uscisse qualche goccia di sangue, poi unimmo i nostri polsi. Bob annuì, felice e sbronzo, e affermò che era per la vita.
«Che cosa è per la vita, Bob?».
«Tu e io» rispose lui, serio.

A dispetto di tutto, le tournée del Rolling Thunder erano state un successo, almeno musicalmente. Suppongo sia stato proprio per questo che più tardi pensai che anche Europe 1984 avrebbe funzionato. Ogni tanto, nel corso degli anni, Bob e io avevamo parlato di organizzare un tour in Europa. Immaginavo che avrebbe voluto partire solo se fosse stato del tutto conveniente e se avesse potuto farci un mucchio di soldi. Sollecitata dal nostro promoter europeo, gli proposi di fare un breve tour insieme, ma lui disse di no, assolutamente. Doveva andare in America latina con Santana, perché «era facile e laggiù la gente non sapeva niente di niente», il che significava, credo, che non gli avrebbero fatto pressioni sui brani da proporre e che sarebbe stato libero di fare come credeva.

Il mio promoter, Fritz Rau, e il suo socio, José Klein, sognavano ormai da quindici anni di organizzare una grande reunion Dylan/Baez in Europa. Perciò, circa un mese dopo la mia conversazione con Bob a proposito dell’America latina, mi richiamarono e mi dissero: «Lo farà! Vuole farlo!». Ne conclusi che dovevano avergli fatto un’offerta tanto buona da indurlo a considerare la cosa. Io, però, ero un po’ sospettosa, perché la tournée era già stata organizzata come un tour Dylan/Santana.

Insistetti sull’approvazione di tutti i particolari: l’ordine e le dimensioni dei nomi sulla locandina e nelle pubblicità, l’ordine e la durata delle esibizioni. Insistetti soprattutto affinché Bob e io avessimo un posto uguale in cartellone, ci esibissimo insieme a un certo punto dello show e affinché fosse Santana ad aprire lo spettacolo.
Grandi promesse.
Niente di scritto.
Tutto veniva accennato, presupposto o semplicemente auspicato.

Per settimane prima dell’inizio della tournée, cercai di parlare con Bob, ma lui non era mai disponibile. Inchiodai José.
«Devo avere la garanzia che Bob intende cantare con me».
«Oggi gliene parla Bill Graham».
«E la faccenda dell’ordine delle esibizioni?».
«E già tutto sistemato per Francoforte e immagino che anche gli altri andranno allo stesso modo».

Un manager personale mi avrebbe tirato fuori dallo show, a quel punto, ma non ne avevo più avuto uno da quando lasciai Manny, nel 1978.

Dietro richiesta di Fritz e di José, tenni una conferenza stampa, nel corso di un programma rock in TV, e alcune interviste speciali per promuovere il grande evento Dylan/Baez. Come Fritz e José, mi stavo avventurando in quel progetto alla cieca e con crescente entusiasmo. Riuscii a mettermi in contatto con Bob solo due giorni prima del primo spettacolo. Il mio tentativo per raggiungere al telefono il mio fratello di sangue andò pressappoco come segue.
«Salve, sono Joan. Vorrei parlare con Bob».
«Oh, salve, Joan. Ehi, non so dove sia Bob. Era qui in giro un minuto fa. Ti faccio richiamare».
«No, vorrei parlargli adesso. Posso aspettare al telefono».
«Già, uhm. L’ho appena visto da qualche parte…».

Un’altra voce.
«Ciao, Joan. Sono Stanley. Che cosa posso fare per te?».
«Probabilmente nulla, Stanley, visto che non ti conosco. A meno che tu non riesca a passarmi Bob…».

Vari click e mani sul ricevitore. Alla fine, capendo che non poteva proprio liberarsi di me, Bob si degnò di rispondere.

Aveva una voce spaventosa, ma io cercai di blandirlo, dicendogli che ho saputo che il concerto di apertura tenuto a Venezia è stato grandioso. Lui non faceva che borbottare. Aggiunsi che avremmo potuto provare un paio di canzoni per lo show. Ebbe una reazione terribile e così mi resi conto che è allergico alla parola «provare». Alla fine disse che potevamo «ripassare qualcosa».

Volai ad Amburgo per incontrarmi con lui e «ripassare qualcosa», ma scoprii che non alloggiava più nello stesso albergo e che sarebbe tornato in città solo l’indomani. Di fatto, sarebbe arrivato con il suo aereo personale appena in tempo per salire sul palco ed esibirsi.

Cominciò così l’operazione mediatrice di Fritz e José tra l’organizzazione di Bill Graham e la loro Schmetterling (un affettuoso soprannome che mi ha dato Fritz: significa farfalla). E così ebbe inizio anche una delle più demoralizzanti serie di peripezie che abbia mai attraversato nella mia vita. Paragonabili solo al Girotondo intorno al Congresso e all’uragano Agnes.

In qualche modo, il primo concerto mantenne la fragile apparenza di tutto quello che mi era stato promesso. Carlos Santana, che sia benedetto, gettò il suo ego dalla finestra e aprì lo show. Il mio concerto ebbe un grosso successo, sia pure in uno stadio pieno solo a metà, sotto l’acqua. Durante una pausa nello spettacolo di Bob, mi accostai a lui. Fino a quel momento era stato del tutto inavvicinabile, circondato com’era dalle sue guardie del corpo. Finalmente lo trovai da solo, in piedi, con le dita nel naso.
«Ciao, Robert» cominciai.
«Dobbiamo fare qualcosa insieme?» chiese lui.
«Già. Credo dovremmo proprio fare qualcosa insieme. Credo che se lo aspettino».
«Merda. Questa fottuta schiena mi uccide». Smise di frugarsi nel naso e cominciò a massaggiarsi il fondo della colonna vertebrale. Barcollò, con una smorfia sul viso. Capii che ero stata io a procurargli quel terribile mal di schiena, ma essendo ancora convinta che avremmo fatto qualcosa insieme, gli dissi che sarei uscita sul palco e mi sarei unita a lui e a Santana, per cantare Blowin’ in the Wind, come Bill Graham aveva disperatamente suggerito.
«Ma certo, se ti va» disse il povero Bob.

I risultati furono pietosi. Il mio tour manager, Big Red, iniziò una campagna per separarci. Ben presto persi la battaglia per comparire dopo Santana, anche lui proprietà di Bill Graham, e mi venne destinata l’apertura degli show. Non ero nella situazione finanziaria adatta a piantare in asso otto concerti ben pagati, ma ogni nuova retrocessione mi distruggeva.

Una sera, a Berlino, Fritz e José cercarono di convincermi a cominciare la mia esibizione un quarto d’ora prima dell’inizio del concerto. C’era un problema di coprifuoco, dissero. La band locale cominciò e finì e mezz’ora prima del previsto, così diciassettemila tedeschi bagnati fradici se ne restarono in piedi sotto la pioggia, incolpando me per il loro disagio. Andai in scena dieci minuti dopo l’ora dello show e trovai un pubblico zuppo, sbronzo, scontento e incattivito. Più tardi, al calare della notte, smise di piovere e andai a vedere lo spettacolo di Bob. C’era un cielo pieno di stelle scintillanti e sul palco un gioco di vivide luci colorate. Ormai avevo smesso da un pezzo di tormentarlo perché cantassimo insieme. Il coprifuoco non lo disturbò per niente e continuò come al solito a cantare per due ore filate. Quella notte, a letto, sentivo dolori dalla testa ai piedi, soprattutto alla gola, dietro gli occhi e allo stomaco. Alle tre del mattino mi alzai, uscii e camminai per le strade di Berlino fino alle sei.

La mia suite aveva una finestra panoramica che dava su un enorme acero. Allineai i cuscini del divano sul pavimento, cosi da potermi sdraiare e guardare le foglie dell’albero che si muovevano con dolcezza, come le pagine di un libro abbandonato, con le due facce di una tonalità un po’ diversa. Entrai fra quei deliziosi rami e riposai tra le gentili braccia di quell’acero per quattro ore, sonnecchiando lievemente, guarendo lentamente.

A mezzogiorno mi alzai, decisa a salvare almeno i concerti francesi. Chiamai José e gli feci promettere che avrebbe controllato di persona i manifesti e la pubblicità dei tre concerti che dovevamo tenere in Francia. Chiesi parità in cartellone, altrimenti non avrei cantato. Lui promise. Probabilmente ci provò. Fallì. A Vienna, in una sauna, vidi sulle bianche e ossute ginocchia di una distinta signora austriaca una pubblicità su un numero di «Libération», un quotidiano parigino. A caratteri appena leggibili, Joan Baez veniva indicata ancora come guest star.

Chiamai Bill e gli dissi che non sarei andata a Parigi. Lui pensò che volessi più soldi. No, non era questo. Volevo ancora cantare con Bob? No, dissi, è troppo tardi. Probabilmente non avrei mai più voluto cantare con lui. Riagganciai appena Bill cominciò ad alzare la voce. Mi sentivo come se avessi fatto un bagno di vapore, un’immersione fredda, un massaggio al viso, la manicure e poi fossi andata a una riunione quacchera. Ero in pace con me stessa per la prima volta da quattro settimane a quella parte. Arrivò una valanga di telefonate, telegrammi e minacce. Mandai un telex alla stampa francese presentando le mie diplomatiche scuse per la spiacevole cancellazione del mio spettacolo parigino. Il promoter di Parigi indisse una sua conferenza stampa e annunciò che Madame Baez avrebbe sicuramente partecipato al concerto e che tutte le voci contrarie erano false.

Per fortuna, una volta tanto la nostra negligenza giocò a mio vantaggio. Non avevamo un contratto vincolante con Bill Graham. Quando fu chiaro che non stavo minacciando a vuoto, il promoter parigino disse che, se Miss Baez non si fosse presentata, era solo perché era troppo impulsiva: voleva snobbare il pubblico parigino e non avrebbe mai più cantato a Parigi.

Lui vinse la battaglia delle pubbliche relazioni. Io persi il sonno, ma rimasi pulita. Andai in Italia. Bill prese un aereo dalla Spagna per convincermi a cambiare idea. Ero lusingata. Da come ero stata trattata, pensavo che, se avessi lasciato lo show, nessuno se ne sarebbe accorto. Bill le provò tutte, dalle preghiere all’adulazione, dandomi a intendere che c’era la possibilità di un’azione legale, dicendo cose come: «Vorrei che tu pensassi di essere capace di uscire su quel palcoscenico» e «Certo, non c’è mai stata la garanzia che avresti cantato con Bob, era solo una speranza». Quando finalmente rinunciò, gli ordinai un’enorme coppa di gelato con quattro gusti, perché non era abituato a perdere le sue battaglie e aveva bisogno di una specie di compensazione. Alla fine, gli pagai una penale, come mi aspettavo. Ma pagare dei soldi era niente in confronto alla frustrazione subita dal mio ego e dal mio spirito per oltre un mese.

L’ultima volta che ho visto Dylan, è stato dietro le quinte, a Copenaghen. Quella sera avevo fatto un’esibizione straordinaria e stavo ascoltando un po’ del concerto di Santana, prima di prendere l’aereo per l’Italia, dove avevo in corso una mia personale tournée di grande successo. Bill si avvicinò e mi spiegò che aveva sentito dire che me ne andavo.

Gli acciacchi di Bob cominciarono a materializzarsi.
«Se te ne vai sul serio, Bob vorrebbe parlarti».
Risi. «E se invece faccio finta di partire, no?».
Quando ti dicono «Bob vuole parlarti», significa che tu devi andare da lui. Non è mai lui che viene da te.
«Eccomi qui» dissi allegramente.
«È in camera sua, dopo la scala…».
«Se per caso passo davanti alla sua stanza mentre esco, acciuffatemi al volo. Me ne vado tra dieci minuti, ho molta fretta».

Le guardie del corpo sostavano tra me e la stanza sacra e, mentre passavo, si precipitarono su di me.
«È qui dentro» indicarono e mi scortarono attraverso la porta, mantenendo un riverente silenzio, neanche stessimo entrando in una cattedrale.

Bob era sul divano, con la testa rivolta verso la porta; sembrava indossare un abito da sera. Teneva gli occhi chiusi e i piedi su un bracciolo del divano. Aveva sussultato, quando ero entrata, così capii che era sveglio.
«Non ti alzare» scherzai. Lui non si mosse, si limitò ad alzare gli occhi verso di me, mentre mi avvicinavo.
«Oh, si, già. Sono stanco, proprio stanco».
«Be’, non hai l’aria così malandata. Ti sei preso cura di te?».

Mi chinai a baciarlo sulla fronte sudaticcia, coperta di biacca. Come dicono gli inglesi, sembrava che fosse stato trascinato all’indietro attraverso una siepe.

Si guardò attorno con aria assonnata.
«Credo di avere sognato di vederti in TV. Almeno, credo che fosse un sogno. Difficile notare la differenza. Portavi questa sciarpa azzurra, insomma, una qualche sciarpa».
«Non è stato un sogno, Bob. Era una trasmissione da Vienna».
«Merda, stai scherzando. Devo essere più stanco di quanto pensassi».

Bob cominciò a infilarmi una mano sotto la gonna, nell’incavo del ginocchio su per la coscia.
«Ehi, hai delle gran belle gambe. Dove ti fai questi muscoli?».
«Provando. Sto in piedi e provo per un bel po’ di tempo». Gli tolsi la mano da sotto la mia gonna e gliela poggiai sul suo petto.
«Allora» fece lui, stiracchiandosi le braccia con un brivido felino, «te ne vai già?».
«Sì, me ne vado».
«Come mai?».
«Devo prendere un aereo. È quel genere di aereo che bisogna andare a prendere. Non è lui che viene a prendere te».
«Non ti andrebbe di restare in giro per un po’, che poi facciamo qualcosa insieme?».
«Intendi dire cantare?».
«Già, fare qualcosa insieme».
«No, non credo proprio, Bob. Non a quel modo. Volevo farlo, lo sai, ma non ha funzionato. Chissà, forse un’altra volta. Adesso devo andare».
«Peccato. Ti sei divertita?».
«Certo, Bob. È stata la più bella tournée del mondo». Lo baciai di nuovo e me ne andai.

Addio, Bob. Avevi un’aria felice a Farm Aid. Pensavo che forse non avrei dovuto scrivere tutte queste cose su di te, ma in fondo si parla comunque di me, no? Non ti farà male. La morte di Elvis ti ha fatto male. Ma di questo non ho fatto cenno.

Da: Joan Baez, Una voce per cantare. La mia vita, la mia musica, Milano, Bietti Edizioni, 2021, pp. 281–297

Note

[1] Nel 1975, Bob Dylan riunì una serie di artisti della scena musicale dell’epoca per uno spettacolo itinerante, dal forte sapore circense del vaudeville, che chiamò Rolling Thunder Revue. Fra i partecipanti, oltre Joan Baez, Bob Neuwirth, Ramblin’ Jack Elliott, Scarlet Rivera, Eric Andersen, Joni Mitchell, Robbie Robertson, Rick Danko dei The Band, T Bone Burnett, Roger McGuinn, il poeta Allen Ginsberg, Arlo Guthrie e Richie Havens. II tour debuttò i! 30 ottobre, a Plymouth, e si concluse a Salt Lake City, il 25 maggio dell’anno successivo [NdC].

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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