Isidoro Albertini tra regole, mercati e i soldi degli altri

di Filippo Cavazzuti

Mario Mancini
19 min readApr 28, 2020

Estratto dal libro Il capitalismo finanziario italiano. Un’araba fenice? Racconti di politica economica, Firenze, goWare, 2020

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Introduzione

I ricordi dei miei incroci con Isidoro Albertini sono tutti racchiusi entro l’arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni Settanta ai primi anni Duemila; ma oggi non adotterò un preciso ordine espositivo che rispetti lo scorrere del tempo, sia perché non ho mai tenuto diari, né accumulato agende, sia per il rimbalzo da una legislatura all’altra dei problemi che si affacciarono in quel lasso di tempo.

Tempi segnati dalla legislazione per i mercati finanziari che aveva suscitato attese per l’approdo a un capitalismo finanziario meno familistico e più simile a quello di altri paesi europei; dopo i colpi bassi sferrati, con implacabile scansione decennale, alla fiducia dei risparmiatori e alla tutela degli azionisti di minoranza.

Colpi bassi sferrati dalla nazionalizzazione degli impianti elettrici nel 1962, dal caso Sindona dieci anni dopo, poi dal caso CalviAmbrosiano nel 1982 e infine dal caso GardiniEnimont all’avvio degli anni novanta.

È una legislazione che, nei miei ricordi, il prof Gustavo Minervini definì in più di una occasione «torrentizia», e che il prof. Piergaetano Marchetti ha valutato al pari di una «rottura di un equilibrio senza un disegno di regole organiche».

Dal mio punto di vista, fu un periodo della storia economica dell’Italia su cui azzardo un giudizio che possa aiutare a meglio comprendere l’ambiente economico e finanziario in cui operò Isidoro Albertini.

Chi parla non è un giurista né un giuseconomista, ma un macro economista cui piace esercitarsi nella valutazione del grado di realizzazione degli obiettivi di politica economica sottostanti la legislazione in campo economico e finanziario. Aggiungo che appartengo alla categoria degli economisti «mancatisti», secondo la felice espressione coniata dal prof. Franco Amatori dell’Università Bocconi, che ha voluto e curato con ferrea determinazione l’Annale Feltrinelli dedicato per l’appunto al «mancato approdo» dell’economia italiana ai livelli di sviluppo di altri paesi comunitari.

Le attese erano tante e diffuse. Fu Guido Carli tra i primi a confidare in un nuovo assetto del mercato mobiliare quando nel 1974 argomentò:

L’introduzione di una nuova disciplina delle borse valori e di un organo di controllo risponde a questo intento.

Venti anni dopo, alla vigilia della emanazione del TUF, anche Mario Draghi era parimenti ottimista annotando: «L’obiettivo è la costituzione di un sistema finanziario che massimizzi l’ammontare di risorse indirizzate verso il sistema produttivo».

Oggi, invece, rammento non soltanto il permanere della marginalità della Borsa italiana nei confronti delle altre borse valori europee ma anche il sostituirsi, per capitalizzazione di borsa, nella graduatoria delle prime dieci società quotate alla Borsa di Milano, delle imprese a controllo pubblico a quelle a controllo privato.

Se nel decennio 19611971 erano le società quotate espressione delle grandi famiglie a dominare la Borsa italiana (FIAT, Edison, Pirelli, Snia Viscosa e Montecatini), nel 1981 fu evidente la «bancarizzazione» del listino di borsa con Comit, Credit, Banco lariano, Mediobanca e Banca cattolica del Veneto (controllata da Roberto Calvi) ai primi i posti, e FIAT e Montecatini tra gli ultimi.

Nell’estate 2017, venuta meno la «bancarizzazione» del listino di borsa per effetto delle concentrazioni bancarie (Intesa Sanpaolo docet), dominano le imprese a controllo pubblico: ENI, ENEL, Atlantia (ex Autostrade e Aeroporti), Leonardo (ex Finmeccanica), Telecom, Snam e Terna. Tra le società private, dal sesto posto in poi, figurano FCA, Exxor (holding della famiglia Agnelli che controlla Ferrari). Solitaria Luxottica è tra le prime cinque società quotate, insieme a Generali.

Può essere che al «mancato approdo» in Borsa abbia contribuito, sia la perdurante allergia alla quotazione nel timore delle scalate ostili e del più cogente obbligo del rispetto dei diritti degli azionisti di minoranza («i soldi degli altri», direbbe Brandeis), ma anche quella «ingordigia» (direbbe Isidoro Albertini) che ha comportato un esagerato ricorso all’indebitamento: principale causa della scomparsa dal listino di Borsa di molte imprese.

Indebitamento che a sua volta è stato favorito dall’introduzione in Italia di intermediari bancari polifunzionali, («che facevano di tutto» lamentava Albertini), invece delle «banche di investimento» separate dalla rete delle banche commerciali: sull’onda imitatrice dell’amministrazione Clinton nel 1999 abolì il Glass Steagall Act di rooseveltiana memoria, sostituendolo con il GrammLeachBailey Act, che tutt’oggi si ritiene possa avere innescato la perfetta tempesta finanziaria degli anni successivi.

È un assunto che meriterebbe approfondite ricerche analitiche condotte su solide basi storicostatistiche.

Nella seconda metà degli anni Settanta l’Istituto di Scienze economiche dalla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Bologna, allora diretto dal prof. Nino Andreatta, invitava accademici ed altri specialisti a tenere seminari per gli studenti cui partecipava anche il corpo docente dell’istituto.

Ricordo, scusandomi per le molte omissioni dovute allo scorrere del tempo, Paolo Sylos Labini sull’attualità del pensiero di Adam Smith, Guido Carli sugli squilibri finanziari internazionali, Luigi Pasinetti su David Ricardo, ma anche un collega allora giovane e coetaneo di nome Mario Monti che venne ad esporre l’esito delle sue ricerche d’oltre oceano.

Isidoro Albertini tenne invece un seminario in tema di borsa valori e più in generale sui mercati finanziari. Ascoltandolo, mi incuriosirono alcune considerazioni coerenti più con una formazione da economista industriale che non da intermediario finanziario. Il primo attento ai problemi qualiquantitativi dell’offerta e dei relativi prezzi, il secondo alla modesta propensione delle famiglie ad investire sui titoli quotati, per il cui sostegno molti invocavano incentivi fiscali.

Solo più tardi venni a sapere, da Carlo D’Adda, che Isidoro Albertini proveniva da una famiglia di industriali e non di finanzieri.

La dubbia e scarsa capacità informativa dei prezzi di borsa rispetto al valore delle azioni quotate; la frammentazione dei mercati mobiliari; la modesta capacità delle società quotate di generare autonomi flussi di utili; la carenza informativa dei bilanci societari, furono tutte sollecitazioni che mi lasciarono la convinzione che molto dovesse cambiare per spingere il mercato dei capitali di rischio verso la frontiera dell’efficienza.

Sono temi che ancora oggi meriterebbero approfondite ricerche microeconomiche.

Ricordo anche il richiamo frequente che Albertini fece alla «ingordigia», il che gli consentì di ammonire gli ascoltatori sul fatto che gli intermediari finanziari gestiscono i soldi degli altri e che dovrebbero pertanto dare grande cura alla salvaguardia dei soldi altrui. Lo ricordo poiché fu citato un libro dal titolo invogliante scritto all’inizio del novecento da Louis Brandeis, Other People’s Money: And How the Bankers Use it, su cui tornerò in chiusura di queste note.

È un libro, ora disponibile in lingua italiana, ancora oggi fuori dal coro dei più diversi chierici oranti sulle due sponde del mainstream, che dovrebbe essere alla base non soltanto di ogni iniziativa di educazione finanziaria nelle scuole, ma soprattutto propedeutico ai corsi di «Economia e regolazione dei mercati finanziari» delle nostre Università.

Le società quotate: quante mele marce?

Dieci anni dopo, nella seconda metà degli anni Ottanta, ebbi a disposizione uno smilzo libretto della Consob (senza data) ove si leggeva che, per il Comitato direttivo degli Agenti di cambio di Milano:

L’applicazione degli standard di quotazione generalmente utilizzati all’estero al listino della borsa di Milano: circa 70 titoli andrebbero depennati […] con effetto traumatico […] e sconvolgente sul mercato già ai minimi storici.

Mi era noto che Isidoro Albertini non ambisse a fare parte del Comitato Direttivo degli Agenti di cambio, ma, ricordando anche quel primo incontro a Bologna ed alcuni suoi scritti successivi, sono tutt’oggi convinto che abbia messo mano a quella ricerca ad «effetto traumatico», al pari della lettera inviata ai suoi clienti nel 1986 con cui concluderò queste note.

All’avvio degli anni Novanta, appresi casualmente dallo stesso Albertini dello studio Foglia. Caso volle che in quei periodo mi stessi interessando di privatizzazioni delle imprese pubbliche: tema che era stato oggetto di ampie riflessioni in sede dei lavori della c.d. Commissione Demaria (Commissione economica per l’Assemblea costituente, presieduta dal prof. Giovanni Demaria, Rettore della Università Bocconi).

Fu così che, anche per evitare di scoprire che l’acqua bagna, consultai gli atti della Commissione Demaria e inciampai nell’interrogatorio (sic) in data 20 marzo 1946 di Antonio Foglia (presidente della Associazione Agenti di cambio) che già allora denunciava i molti problemi che affliggevano il mercato mobiliare. Di quelli ne richiamo alcuni:

L’istituto Borsa in Italia funziona assai male […] anche perché in Italia «fra banca e Borsa c’è confusione […] non esistono «dealer specializzati» […] altro problema scottante è quello delle borse minori […] la maggior parte delle quali trascina una vita stentata e misera […] la borsa è un istituto che presuppone la massima concentrazione delle domande e delle offerte […] non esistono «dealer specializzati» e neppure la figura dello «specialist» o del «market maker».

Sono problemi presenti, ma ancora oggi non sempre risolti, che mi riportano ad Isidoro Albertini e alla sua impostazione da economista industriale attento ai problemi di offerta più che di domanda, così come risulta da un promemoria che Albertini inviò nel 1983 alla Commissione di indagine sulla operatività della Consob, su cui tornerò fra breve.

Un documento trascurato e le banche popolari Consob

Nei primi anni ottanta, infatti, partecipando ai lavori della Commissione finanze e tesoro del Senato, ove ancora aleggiava il ricordo dello scandalo CalviBanco ambrosiano e della denuncia che ne fece il ministro Nino Andreatta nel luglio e nell’ottobre del 1982, ebbi modo di interessarmi ai problemi del mercato mobiliare italiano ed alle riforme che non erano più eludibili, di cui si discuteva in parlamento fino dal 1974, anno di istituzione della Consob.

In particolare si dibatteva su come il Caso Ambrosiano avesse attestato, non soltanto la presenza di molte faglie nella regolamentazione, ma anche su come siffatte faglie avessero consentito il modo spregiudicato con cui Roberto Calvi faceva uso della quotazione delle sue banche soprattutto sul mercato ristretto («quanto di più anomalo si possa immaginare», secondo Albertini nel suo promemoria), ma anche su quello ufficiale: secondo momentanea convenienza.

Si ricordava che sul mercato ristretto era stato quotato il Banco Ambrosiano insieme alla Banca Cattolica del Veneto parimenti controllata da Roberto Calvi; che l’altra banca al servizio di Calvi era il Credito Varesino quotato invece alla borsa di Milano; che nel maggio del 1982, anche la Banca Cattolica del Veneto venne ammessa alla quotazione ufficiale a Milano; che queste ultime due erano controllate da Roberto Calvi tramite La CentraleFinanziaria Generale, parimenti quotata alla borsa di Milano.

Si faceva notare quanto il caso CalviAmbrosiano fosse difficile da districare anche per le diffuse carenze nel sistema dei controlli sugli intrecci del sistema bancario con quello societario e, più in generale, sul funzionamento del mercato di borsa alquanto frammentato per distribuzione geografica e per regolamentazione.

Le carenze nei controlli eranoaggravate dalla indisponibilità del bilanciò consolidato di gruppo, per cui, come noto, si rese necessaria la quotazione d’imperio del Banco Ambrosiano sul mercato ufficiale al fine di poter esercitare i poteri previsti dalla legge n. 216/1974 e imporre le comunicazioni obbligatorie relative anche al bilancio consolidato di gruppo. Seguirono violente ondate di vendita che portarono alla cancellazione dal listino del Banco Ambrosiano. Sono ricordi che consentono di apprezzare quanto scrisse nel 1983 Isidoro Albertini nel suo promemoria:

La vicenda del Banco Ambrosiano sta a dimostrare a quali disastri possa portare la pratica di acquisto di azioni proprie per sostenere il prezzo.

Giudizio condiviso da Paolo Baffi che aveva sostenuto nel corso della sua audizione parlamentare che: «Le banche riescono, utilizzando il fondo acquisto titoli o con ordini incrociati tra banca e banca, a manipolare i prezzi».

Oggi, senza malintesi riferimenti a casi recenti, nel contesto della nuova legislazione siffatte prassi si configurerebbero al pari di abusi di mercato per manipolazione operativa dei corsi azionari e fors’anche informativa a danno degli azionisti di minoranza. È però vero che il salvataggio delle banche venete con l’intervento di Intesa Sanpaolo, può apparire come la replica del salvataggio del Banco Ambrosiano da parte di una banca privata, che poi si chiamerà anch’essa Intesa Sanpaolo.

Curiosa è l’avventura del «promemoria» inviato da Albertini rispetto ad altro documento inviato da Ettore Fumagalli, presidente del Comitato direttivo degli Agenti di cambio della Borsa di Milano, con data 12 gennaio 1984.

Mentre entrambi furono raccolti nel fascicolo delle fotocopie, numerati a mano, stampati in offset ma senza data, negli atti parlamentari che raccolgono i resoconti stenografici delle successive audizioni figura soltanto quello di Ettore Fumagalli in data 12 gennaio 1984.

Purtroppo non conosco la ragione per cui Isidoro Albertini non venne audito in Commissione, malgrado la disponibilità comunicata al presidente della Commissione Giorgio Ruffolo. Può essere che non gli abbia giovato il riconoscimento dato a Nino Andreatta, che nel 1981 operò come Ministro del Tesoro «per riportare sotto controllo la drammatica situazione della borsa dell’estate 1981». Come noto, il ministro Andreatta era caduto in disgrazia nella DC per la sua coraggiosa denuncia del coinvolgimento dello IOR nel caso Calvi Ambrosiano. Può essere dunque che l’oscuramento di Andreatta abbia oscurato anche Albertini.

Il «promemoria Albertini» merita di essere ricordato, sia per la sottostante e rara conoscenza dei mercati internazionali e delle loro borse valori, sia per la lucida esposizione dei problemi allora irrisolti, sia per gli obiettivi posti fin dal 1983, pur nella consapevolezza che, con linguaggio che a me suona ancora tipico dei militanti del partito d’azione:

Sono obiettivi che richiederanno uno sforzo tenace di molti anni e, al pari della storia della SEC […] battaglie durissime combattute con alterne vicende da uomini motivati e coraggiosi, vinte quando troveranno il necessario consenso politico.

Oggi mi limito ad estrarre dal «sommario» del promemoria la «battaglia durissima» che a mio avviso, meglio segna l’indipendenza di giudizio di Isidoro Albertini dalla abituale vulgata sull’indipendenza e professionalità dei vertici. Per Albertini, la Consob non avrebbe raggiunto i suoi obiettivi se:

Gli uomini ad essa preposti non saranno […] disposti ad affrontare confronti anche violenti. Nella scelta dei candidati, è preferibile puntare sulla formazione giuridica ed economica in senso lato, più che sulla professionalità specifica lasciando spazio a esperti ed alle consulenze esterne.

Poiché chi vi parla è stato a suo tempo Commissario Consob, devo astenermi da ogni commento a siffatte parole.

Suggestioni di politiche di intervento

Le linee di intervento privilegiano le condizioni dell’offerta, segnalando che occorre far muovere il mercato verso:
a) la qualità sia dei prodotti finanziari offerti, sia quella dell’informazione finanziaria prodotta dall’offrente, sia la chiarezza dei bilanci societari;
b) la trasparenza della contrattazione, del mercato e della formazione dei prezzi di borsa;
c) il controllo del sistema di intermediazione, ed in particolare il contenimento dei conflitti di interesse tra intermediario e cliente, come nel caso in cui l’intermediario operi per conto proprio in contropartita diretta con il cliente.

Se da allora passi avanti sono stati fatti, molta strada è ancora da percorrere, come dimostrano i fatti e i misfatti delle recenti crisi finanziarie.

Più avanti, ragionando sugli assetti proprietari, introducendo il tema spesso da molti eluso, della riforma del diritto societario ancora oggi parzialmente irrisolto, nel promemoria Albertini si legge:

Il nostro diritto societario è a mio giudizio un esempio […] di come le leggi possano essere piegate nell’intento di raggiungere obiettivi discutibili. Valgano due esempi: a) il proliferare di holding finanziarie […] attraverso le quali si è raggiunto lo scopo di assicurare ad alcuni gruppi il controllo di società che, in termini di capitalizzazione coprono buona parte del listino di borsa.

Annoto da «mancatista», che anche nei tempi recenti numerose società quotate sono rinchiuse in gruppi piramidali la cui capitalizzazione di borsa sfiora quasi il 47% del totale. Si aggiunga il rilevante peso dell’industria finanziaria (3637%) in prevalenza costituita da istituti di credito e dei servizi (2526%) rispetto alle società industriali. Nel 2014 la capitalizzazione di borsa di queste ultime rappresentava circa il 3738 per cento della capitalizzazione totale e molte di loro, come già detto, sono imprese pubbliche privatizzate a decorrere dal 1992.

Anche in questo caso ricerche più approfondite potrebbero contribuire a meglio delineare gli effetti sulla trasparenza del mercato degli assetti proprietari delle società quotate, insieme ai potenziali conflitti di interesse a danno degli azionisti di minoranza, ovvero dei «soldi degli altri».

Infine una nota personale. La rilettura del promemoria Albertini mi ha fatto apprezzare la preoccupazione:

L’involuzione del mercato […] è il risultato di scelte politiche e finanziarie del passato, la cui correzione richiederà comunque tempi lunghi.

E così, in attesa degli effetti che verranno, mi sono felicemente sentito in compagnia, seppure a sua insaputa, di un potenziale «mancatista» d’antan come Isidoro Albertini.

Nascono le SIM

Pochi cenni per ricordare il disegno di legge (A.S. 933) presentato dal Ministro del Tesoro Amato il 23 maggio 1988 recante disposizioni sulla «Costituzione di società abilitate alla intermediazione in borsa», che divenne, dopo i lavori del Senato e della Camera dei Deputati, la legge 2 gennaio 1991, n. 1; «Disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei mercati mobiliari». Più nota come legge sulle SIM.

Allora tutti ritenevamo che con siffatta legge fosse stata chiusa un’era, che se ne aprisse un’altra e che con il recepimento delle direttive comunitarie sui servizi di investimento, i mercati finanziari fossero spinti verso la frontiera dell’efficienza. Ciò anche grazie alla legge che sempre nel 1991 sanzionò l’insider trading, la cui portata innovativa fu tale da far commentare in modo anonimo sulla stampa internazionale che siffatta legge:

Fa temere che possa danneggiare gravemente un mercato che prosperava sui rumori e sulla informazione privilegiata.

Così come ci si attendeva che, dopo l’emanazione del TUF, fosse scomparso il ricorso ai c.d. fondi civetta per attirare il risparmio delle famiglie. Oggi sarebbe manipolazione informativa del mercato: ma non è certo che ai giorni nostri la «civetta» non abbia indossato altre vesti.

Analogamente si confidava che sarebbe restato soltanto un ricordo tramandato dalla storia orale della piazza milanese, la prassi operativa dei c.d. «accreditati» di cui si narrava che si riunissero in piazza affari tutte le mattine per concordare le operazioni sui titoli quotati da effettuare il giorno dopo.

Può essere che nuove figure abbiano sostituito gli «accreditati» insieme alla nuova «civetta».

Che la nuova era si sia dischiusa innanzi a noi può essere oggetto di approfondita ricerca da parte di giovani studiosi fuori dal coro e liberi da qualsivoglia mainstream, e tenendo ben in conto il libro Other Peoples Money e le suggestioni ivi racchiuse per leggere il presente.

Non è difficile immaginare che nel corso dei lavori per l’emanazione della legge sulle SIM, il Comitato direttivo degli agenti di cambio della borsa di Milano, presieduto da Attilio Ventura, sempre accompagnato da altri agenti di cambio, avesse modo di informare la Commissione finanze e tesoro del Senato sulle ragioni delle loro aspettative rispetto alla loro professione.

Non così si comportò, quanto meno nel mio caso, Isidoro Albertini che, sempre solo, in occasione dei nostri incroci non mostrava grande interesse per il futuro degli agenti di cambio, preferendo confrontarsi sulla più generale architettura del mercato dei capitali di rischio, sulla opacità della intermediazione finanziaria, sul potenziale conflitto di interessi tra banca polifunzionale, intermediario finanziario e assetto proprietario di quest’ultimo.

Su quest’ultimo punto Albertini guardava lontano, data la prassi ancora oggi assai diffusa del c.d. interloking degli amministratori e del loro intreccio con gli assetti proprietari. In Italia, infatti, nel caso delle maggiori 1517 Società di gestione del risparmio di matrice bancaria e assicurativa sono assai numerosi gli incroci tra i consigli di amministrazione delle SGR e quelli della società capogruppo. Si aggiunga che le maggiori SGR appartengono proprio ai maggiori gruppi bancari e assicurativi.

Le SGR rischiano in tale contesto di doversi comportare al pari del braccio operativo (captive) della società bancaria capogruppo che, a sua volta, svolgendo sia le funzioni della banca d’investimento, sia quelle della banca commerciale, cumula, salvo gli esiti di ricerche più approfondite, sul proprio patrimonio i rischi di entrambe le funzioni.

Nelle settimane passate, riprendendo alcuni degli emendamenti che presentai in Senato, ne ho ritrovati alcuni che, se ben ricordo, nacquero anche da incontri con Isidoro Albertini. Ad esempio, quello che sollecitava una riflessione per rafforzare le c.d. «muraglie cinesi» negli intermediari polifunzionali, rispetto alle semplici contabilità separate, ove tutti facevano di tutto; oppure quello di imporre maggiore trasparenza alla gestione delle società fiduciarie e alla loro gestione dei valori mobiliari della clientela.

Se ricordo bene non ebbi alcun successo.

Ingordigia in borsa

Da quando, nella prima metà degli anni Duemila, ripresi il pieno insegnamento nella mia facoltà di Bologna, non ebbi più occasione di incrociare Isidoro Albertini. Mi avvio dunque a concludere queste note con alcune considerazioni relative a ciò che avvenne quando:

A maggio in una lettera scritta ai suoi clienti, e poi resa pubblica contro la sua volontà, aveva previsto in anticipo il crollo del listino e da allora molti non gliel’hanno perdonata.

Oggi, per non accreditare la supposta capacità divinatoria di Albertini (per altro da lui stesso non accreditata, ma trascurata dall’intervistatore) è necessario tenere in conto la sperimentata conoscenza di cui il supposto oracolo di Delfi, in trasferta a piazza affari, disponeva per la valutazione del funzionamento dei limiti operativi della Borsa, dei comportamenti degli investitori e di coloro che procedevano alla sollecitazione del pubblico risparmio (la gallina dalle uova d’oro, come ricorderò tra un istante).

Il brano che segue è la conferma di una lucida analisi dei fatti ovviamente disgiunta da stravaganti capacità divinatorie.

In Borsa c’era il denaro dei risparmiatori e tutti si sono precipitati, era una corsa a chi arrivava prima a metterci sopra le mani. Ci sono state società che hanno varato il secondo aumento di capitale quando non era finito il primo […]. Poi c’è stata la stagione dell’ingordigia dei grandi gruppi che hanno pensato di rastrellare fino all’ultimo soldo e che adesso sono tutti ingolfati.

Sono considerazioni che inevitabilmente richiamano alla memoria Louis Brandeis che, con riferimento al mercato finanziari degli usa nei primi anni del 1900 scrisse che:

La gallina dalle uova d’oro è sempre stata considerata un bene di grandissimo valore. Ma ancora più proficuo è il privilegio di poter prendere le uova d’oro depositate dalla gallina altrui.

Non è arbitrario ritenere che Albertini avesse in mente queste parole per descrivere con proprie parole la caccia alla «gallina altrui» nella borsa italiana dell’anno 1986.

La lettera Albertini

Avviandosi alla conclusione del suo lungo manifestointervista del 22 febbraio 2009 Isidoro Albertini, ragionando questa volta sulle cause della perfetta tempesta finanziaria esplosa nel nuovo contesto della globalizzazione e alimentata dal cd. shadow banking, annota:

Solo ora […] ci accorgiamo che la decadenza è totale […]. L’ingordigia è alla base di tutto, una spinta che alla fine ha rotto gli argini» […] ma quello che tutti vedevano bene è che il banchetto continuava e nessuno aveva interesse a interrompere la festa […] l’errore è stato piuttosto quello di abbandonare la separazione tra banche d’affari e banche commerciali.

Oggi, tenute ferme siffatte analisi è più agevole valutare il sottostante analitico alla lettera del maggio 1986. Ne riprendo i passi a mio avviso più significativi della moralità dell’autore non disgiunta dal professionale rispetto dei soldi altrui.

Dopo avere informato i propri clienti che nel maggio del 1986 il rialzo dell’indice di borsa si aggirava nell’intorno del +195%, con riferimento all’anno precedente, aggiunse con onestà intellettuale:

In queste condizioni noi non ci sentiamo in grado — salvo per qualche raro titolo — di formulare giudizi seri circa l’attendibilità dei prezzi espressi dalla Borsa. Così come non sapremo mai in anticipo «quando» questa irripetibile bolla di euforia collettiva si fermerà […] Le azioni si trasformano in francobolli rari […] Noi possiamo solo ricordare che gli utili non realizzati sono solo dei numeri scritti sulla carta.

A commento di questa lettera mi piace pensare che, ricorrendo a espressioni come «euforia collettiva» ed «azioni che si trasformano in francobolli rari», Isidoro Albertini volesse alludere per i suoi clienti ai fatti disastrosi causati dalla famosa crisi dei bulbi di tulipano che, nell’Olanda del 1636, vennero scambiati a prezzi d’asta multipli di mille fiorini, portando alla rovina coloro che non erano usciti per tempo da quel mercato speculativo.

È una lettera di cui Isidoro Albertini non mi fece mai cenno, anche se la sua esistenza mi era nota a causa dei richiami pubblicati sulla prima pagina del Corriere della sera il 20 maggio del 1986 con titolo «Borsa in quattro mesi quotazioni raddoppiate».

Ma ancora di più mi era nota per l’eco che ebbe in Parlamento a seguito di una iniziativa di alcuni parlamentari di opposizione (Valensise ed altri) che proposero una «inchiesta» sui fatti di maggio, presentata il 13 giugno, anche a seguito della caduta in quei giorni dell’indice dei corsi di borsa: per esattezza da 2035 a 1516. Il che spiega meglio di qualsiasi parola l’insostenibilità nel tempo delle quotazioni di borsa su quell’eccezionale livello.

Anche oggi è utile, a fini comparativi, riprendere dalla relazione introduttiva alla «Proposta di inchiesta parlamentare» dei deputati di opposizione, il testo di un giudizio espresso dal ministro Goria sulla lettera di Albertini.

La lettera di Albertini è un documento che mi auguro possa avere la massima circolazione, diffusione stampa e la più grande conoscenza presso il pubblico poiché essa esamina in maniera ineccepibile i rischi che sta correndo la borsa italiana.

Se la dichiarazione del lunedì 28 maggio 1986 è stata del tutto politicamente imprudente, seppure a difesa di Albertini del ministro Goria, assai curiosa è stata la sua ripresa, il giorno successivo, in un articolo che inopinatamente imputa la «bolla», e successivo crollo, ai «borsini» di provincia. Come ricorda Alberto Albertini:

Era d’uso allora chiamare in causa «la provincia» quando c’erano dei crolli: erano le cosiddette «mani deboli» rispetto alle supposte «mani forti» dei grandi (!) investitori (speculatori) di Milano. Erano proprio altri tempi!

Prosegue poi il documento dell’opposizione osservando che:

Negli stessi giorni e subito dopo, la Borsa crollava segnando un robusto meno in un solo giorno del 10 per cento facendo scrivere di <giovedì nero>con allusione al giorno 29 maggio 1986.

Lo ricordo perché ben diversa fu la ricostruzione che ne fece la Consob nella relazione annuale per il 1986, ove con mano che potrebbe essere ricondotta a quella del Conte zio di manzoniana memoria:

Il forte incremento dell’indice, che ha portato ad un raddoppio delle quotazioni nei primi quattro mesi ed il successivo parziale, seppur brusco, ridimensionamento nei due mesi successivi, sono stati caratterizzati da ampie e anomale variazioni giornaliere.

E così il riferimento al «giovedì nero» è stato degradato a un semplice «seppur brusco ridemsionamento».

Singolare fu anche un’altra risposta che ancora oggi è narrata nella tradizione orale: ovvero che la lettera causò al suo autore la rampogna del presidente della Consob di allora (Franco Piga) che, indifferente per le sorti del mercato, si rivolse all’agente di cambio nel modo che segue «Albertini, lei manda questa lettera proprio alla vigilia del congresso DC». È uno sprazzo di luce significativo della considerazione che la politica aveva del mercato di borsa in sostituzione, o forse nel timore, delle «battaglie durissime» che Isidoro Albertini sollecitava.

Certo è, e concludo, che se la legislazione «torrentizia», così chiamata dal prof. Gustavo Minervini, avesse colmato il vuoto del «disegno organico» lamentato dal prof. Piergaetano Marchetti, e contribuito a realizzare gli obiettivi di politica economica sottostanti, forse la storia sarebbe stata diversa. Ma il tempo è passato in difetto di quelle «battaglie durissime» auspicate da Isidoro Albertini fin dal lontano 1983.

È altrettanto certo che se tutto ciò fosse accaduto, chi parla non sarebbe ancora oggi un economista «mancatista»; peraltro in ambita compagnia di un «mancatista» d’antan come Isidoro Albertini.

Ma con i «se» non si riscrive la storia.

Bibliografia

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Filippo Cavazzuti professore ordinario dell’Università di Bologna, senatore della Repubblica (1983–1986), sottosegretario al tesoro (1996–1999), commissario Consob (1999–2003). Autore di libri e saggi in tema di debito pubblico, privatizzazioni, regolazione dei mercati finanziari, politica di bilancio. Opinionista di Firstonline.

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Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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