Illuminismo e mito
colloquio tra Theodor W. Adorno e Karl Kerényi
Radio tedesca, 16 settembre 1952
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [giugno 2020]
Adorno: Il presupposto di questo colloquio è costituito da alcune pubblicazioni. Per quanto riguarda il professor Kerényi, si tratta di La religione antica, Introduzione all’essenza della mitologia e La mitologia dei greci. Dall’altra parte c’è la Dialettica dell’illuminismo scritta da Max Horkheimer e da me, che contiene un capitolo che tratta dell’Odissea e che si occupa essenzialmente del rapporto tra illuminismo e mito. Queste pubblicazioni sono nate del tutto indipendentemente le une dalle altre; Kerényi non conosceva le nostre cose, né noi le sue, ma si sono delineati alcuni punti di contatto, sia in senso positivo che antitetico, che fanno apparire auspicabile almeno sondare il terreno, e vedere fino a che punto le posizioni, che in quei testi vengono prese, sono fra loro commensurabili.
Kerényi: Colgo con piacere l’opportunità di accettare questo confronto, e non certo per un qualsiasi intento bellicoso o polemico. La mia evoluzione nei libri che il professor Adorno ha appena citato mostra una linea verso il concreto, in quella direzione che è ovviamente la direzione del filologo. Si raccolgano innanzitutto i dati di fatto, lì si esponga nel modo più completo possibile, dato che qualunque discussione teorica sui fatti dell’antichità può aver luogo solo sulla base di dati non semplificati. Ma la tradizione ha già abbastanza limitato le nostre possibilità; noi dobbiamo invece, per quanto possibile, tenere tutto presente davanti agli occhi e quindi discutere. Perciò io credo che sia utile tentare di esporre al lettore moderno l’intera mitologia greca, che concerne tanto le storie degli dèi quanto quelle relative all’umanità. E questo punto già acquisito dovrebbe costituire, io credo, anche il punto di partenza per il nostro amichevole colloquio.
Adorno: Posso dire che condivido con tutto il cuore il piacere per questo dialogo, che già il professor Kerényi ha manifestato. A dire il vero io devo, per quanto mi concerne, introdurre una certa limitazione rispetto a ciò che egli ha detto, poiché io non posso pretendere di parlare come filologo classico. Io parlo, se si può dir così, da filosofo. Ma certamente come un filosofo che si considera strettamente legato alle questioni greche e ai problemi della mitologia. E se io non ho l’ardire di parlare come filologo, penso tuttavia che proprio l’intento che il professor Kerényi ha espresso, l’intenzione verso il concreto, mi leghi a lui. In altre parole: io non credo che sia possibile filosofare sulla mitologia per così dire dall’alto, come per esempio è accaduto ancora con Schelling, ma che sia necessario uno sguardo molto paziente e insistente, per penetrare nei contenuti mitici di ciò che è più che mero materiale. E proprio in questo credo che risieda ciò che abbiamo in comune, ciò che ci unisce, cioè una certa insoddisfazione per lo sviluppo della mitologia in termini di mera storia dei contenuti, una insoddisfazione per ciò che si potrebbe chiamare la posizione positivistica nei confronti della mitologia. Tutti e due, io credo, vogliamo comprendere di che cosa qui si tratta, e non solo determinare storicamente come ci si è arrivati e quali momenti pragmatici sono contenuti nei miti. Questo è quindi il fondamento sul quale questo colloquio a nostro avviso può svilupparsi.
Kerényi: Naturalmente.
Adorno: In Lei, professor Kerényi, gioca un ruolo molto importante il concetto di mitologia. Come filosofo io non credo alle definizioni. Ma forse non è sbagliato se cerchiamo di delimitare un poco i concetti almeno provvisoriamente, in modo che si capisca intorno a che cosa noi propriamente discutiamo. L’espressione «mitologia» è scelta da Lei per precise ragioni. Essa infatti, se non mi sbaglio, sta in opposizione o in antitesi da una parte con il concetto di mito e dall’altra con il concetto di epos. E sarebbe bello se Lei volesse dire due parole proprio su questa distinzione così come Lei l’ha ricavata dal materiale.
Kerényi : Io non posso nascondere la mia contrarietà a parlare in generale di «mito». E questo proprio per la ragione che abbiamo or ora ascoltato. E cioè che la scienza non può fare a meno di operare con oggetti precisamente definiti o almeno precisamente descritti. Ma che cosa sia mito, non è così facile dirlo, in modo particolare per lo storico. Non solo per la ragione che questa parola nelle epoche tarde, e fino al presente, è stata così spesso usata a sproposito, ma anche perché già i significati antichi di questa parola sono molteplici. Se noi quindi non partiamo da questa parola, ma per così dire da una frase o da una parte di frase che esprime un’azione, allora giungiamo a ciò che Platone dice sulla attività del raccontare miti, egli la chiama μύθους λέγειν, da cui viene derivato μυθολογία. Quando io dico μυθολογία, intendo con ciò una determinata attività e il genere che è scaturito da essa; una modalità creativa che si differenzia di fatto da ciò che è ignoto o malconosciuto, e che costituisce il presupposto di questa attività — e questo è ciò che per conto mio si può chiamare mito ma che si differenzia anche dalla dichiarata attività poetica. Forse posso indicare alcune differenze che distinguono l’attività poetica, l’arte poetica, — alla greca possiamo dire la ποίηεσις — dalla μυθολογία. L’arte poetica, la ποίηεσις, e ciò che ne scaturisce, la poesia, ποίημα, il poema, non possono essere comprese senza una formulazione letterale definitiva. È impossibile citare una poesia con altre parole, come se fossero le parole del poeta. Così come sarebbe impossibile, per esempio, parlare di un poeta dicendo: adesso vi mostro le illustrazioni della sua poesia, così potrete misurare il suo valore poetico. Se nella mitologia le cose stanno così, che l’attività del mitologo ogni volta si differenzia un poco, siamo di fronte a una sorta di variazione ininterrotta, dove solo il tema rimane uguale. Il medesimo tema viene sempre narrato con parole diverse ma, — e questa è una differenza decisiva — è anche possibile sviluppare interi racconti mitologici, mitologemi, attraverso le immagini. La circostanza, che gli etruschi pur non parlando il greco abbiano ripreso la mitologia greca, ci fa capire che gli artisti etruschi — infatti la mitologia etnisca è arte, tramandata in forme artistiche –, con ogni verosimiglianza, hanno lavorato seguendo testi illustrati greci, dove erano scritti solo i nomi. E tuttavia si può perfettamente riconoscere, su un vaso etrusco o su un’urna etrusca, di quale mitologema si tratti. E si possono, si debbono accogliere queste varianti, che sono esposte solo in immagini, nella storia della mitologia. La mitologia viene così caratterizzata attraverso questo carattere immaginifico, cosa che non vale per la poesia. Ma al di là dell’immagine la mitologia è sempre racconto. Nella mitologia non possiamo risalire dietro i racconti, anche se sappiamo che questi racconti hanno certi presupposti. Quindi se volessi dare una sorta di definizione, su basi greche, io direi: la mitologia è l’arte di raccontare intorno agli dèi.
Adorno: Se ho capito bene, la Sua tesi è che il mito costituisce il presupposto della mitologia, ma che esso è qualcosa di simile a quello che in filosofia è il vecchio problema della cosa in sé, nel senso che noi non sappiamo niente del mito indipendentemente dalla mitologia. E viceversa Lei direbbe che l’epopea costituisce una oggettivazione della mitologia, nella quale già l’autonomia dell’opera d’arte che poggia su se stessa si è imposta contro l’immediato vincolo cultuale, che invece si può dimostrare nei mitologemi. Ora, dal punto di vista della filosofia, questa differenza mi sembra straordinariamente importante. E ciò per la ragione che io tenderei a vedere nei tre gradi, che Lei qui distingue, anche i gradi di un processo storico, che forse si possono distinguere l’uno dall’altro. Se ben ricordo il filologo classico inglese Gilbert Murray ha mostrato per esempio, nella sua interpretazione di Omero, con procedimenti filologici, che i mitologemi che stanno alla base dell’epos sono stati sottoposti a una sorta di censura, e che quindi gli elementi propriamente barbarici, se così si può dire, hanno subito una sorta di epurazione; e in questo senso egli — seguito poi in ciò da molti altri — ha confermato l’epos omerico come uno stadio, per dir così, di demitizzazione ovvero di illuminismo in rapporto ai mitologemi originari. Ora io posso forse ricollegare a questa costruzione, sulla quale anche Lei concorda, una questione che forse ci conduce nel centro del tema sul quale dobbiamo propriamente confrontarci. E cioè: Lei ha mostrato nei suoi scritti con grande enfasi l’invarianza, la stabilità del mitologico. D’altra parte è anche vero che da un lato la mitologia stessa costituisce uno stadio storico distinto nei confronti del mito, e dall’altro lato l’epos costituisce a sua volta uno stadio storico distinto nei confronti della mitologia. Quindi anche Lei si imbatte nel momento dello sviluppo, in un senso molto centrale. Ciò che io ora vorrei chiederle, è proprio questo: se questo concetto dello sviluppo, che ci deriva proprio dalle categorie fondamentali dalle quali Lei è partito, non sia inconciliabile con la rappresentazione della invarianza del mitologico, di una immagine originaria sempre ritornante, immobile, che noi così facilmente associamo con il concetto del mitologico o del mito. In altre parole: il mio sospetto dilettantesco-filosofico è semplicemente se qui in realtà la storia non sia presente con una portata molto più ampia di quanto non faccia apparire la fede nella eternità del patrimonio mitologico. E forse Lei avrà la gentilezza di esprimersi su questo sospetto dilettantesco del non-filologo.
Kerényi: Le sono molto grato per questa domanda, che non ritengo affatto dilettantesca. Tuttavia come filologo devo qui introdurre una distinzione. Lo sviluppo della epopoiiVa omerica — o, come potremmo anche dire, della concezione omerica del mondo da una più antica concezione mitologica, è fuor di dubbio. Ma io non seguirei i livelli che Murray ha individuato — perché essi non si sono affermati e contengono una semplificazione dei fatti che oggi non è più consentita. Vorrei ora mostrarlo brevemente proprio in quel punto, nel quale io concordo pienamente con Lei, signor Adorno. Il punto è questo: indubbiamente il modo di pensare omerico sta col modo di pensare mitologico in un rapporto — io non direi solo di illuminismo, sebbene non abbia nulla contro di ciò, — ma in un rapporto come quello della Riforma nei confronti del cattolicesimo, dove il fondamento della religione viene conservato e tuttavia ha luogo una certa epurazione di elementi magici e simili. Dove però molto interessante è un’altra circostanza, che anche lo stesso Murray ha mostrato, e cioè che nell’epos ciclico, quindi nelle epiche tarde, si deve constatare a questo proposito una ricaduta, quasi come quella del Concilio di Trento, nel senso che gli antichi elementi non solo magici, ma anche i più fastosi elementi mitologici — ne richiamo qui soltanto uno: le nozze di Zeus con Nemesi o con Leda — vengono nuovamente ripresi. Si produce di nuovo un ammorbidimento del rigore del modo di pensare omerico, il che significa che vi è certamente uno sviluppo, ma anche con delle ricadute. Una linea di sviluppo perfettamente unitaria dall’inizio fino ai tempi più tardi io non riesco a vederla, e non è conciliabile con il mio sapere. Sulla linea di fondo, naturalmente siamo d’accordo. È sempre così quando lo storico dialoga con il filosofo; poiché il filosofo vede la tendenza di fondo. E su questo, lo ripeto, siamo d’accordo. Ora vengo all’altra questione: come ci si deve rapportare al problema che anche la mitologia si è sviluppata da qualcosa, e in modo tale che di quel momento più antico, che costituisce il presupposto della mitologia, non sarebbe rimasto più nulla di costante. Per me questo pensiero, in questa forma rigida — un pensiero che anche il signor Adorno certamente non voleva sostenere in quella forma (Adorno: No, no!) — ma io lo assumo in quella forma rigida in modo da facilitare la chiarezza del discorso — questo pensiero è per me naturalmente inaccettabile. Infatti la mitologia è l’arte di raccontare intorno agli dèi. E questi dèi, in quanto costituiscono il presupposto della mitologia, sono di fatto elementi costanti di essa. Essi persistono e determinano i narratori. In uno dei miei libri ho addotto, credo, l’esempio moderno del diavolo, di Mefistofele nella saga di Faust e in Goethe. Goethe è già abbastanza lontano da quel tempo, in cui il diavolo era una figura mitologica così viva come nel cristianesimo medievale. Tuttavia nel suo racconto — nella sua rappresentazione, nella sua organizzazione di questo materiale, egli è ancor sempre determinato dalla mitologia cristiana; non ne può fare a meno. E quando Orazio menziona Mercurio, questo Mercurio nel racconto poetico può essere ancor sempre l’omerico Ermes. Niente viene mutato. E se il fatto che i molti racconti su questi dèi a poco a poco si superano, si spezzettano, che ha luogo una sorta di logoramento della mitologia, se questo sia in qualche modo uno sviluppo, è ancora un’altra questione. Certamente si deve constatare, in tutta l’antichità, una certa costanza nel materiale, o forse potremmo dire piuttosto, per evitare il positivismo, nel contenuto della mitologia. E vi è anche una sorta di degenerazione o disgregazione nel modo di raccontare. Io credo tuttavia che qui si debba porre un’altra questione. E cioè questa: se anche questi dèi, che giocano un ruolo nella mitologia, non siano da ricondurre a più antiche figure costanti, a cosiddette figure archetipiche — è questa, a mio parere, a questo proposito la questione fondamentale. E posso rispondere solo empiricamente. Cioè: della costanza di un motivo mitologico di fondo si può parlare solo in quanto in un punto successivo del tempo si incontra di nuovo una forma che si era data anche precendentemente. Quindi si deve in ogni singolo caso sollevare la questione se non si dia anche un altro tipo di permanenza dietro queste figure di dèi. Ma se questa vi sia, se in questo caso si possa generalizzare o no, questo è, io credo, un problema che in questo momento, con i mezzi della filologia storica, non può essere deciso.
Adorno: Posso forse innanzitutto osservare che noi concordiamo fin tanto che non si tratta di contrapporre staticamente gli uni agli altri i concetti dai quali siamo partiti come fossero concetti astorici. Il punto che tra di noi è autenticamente in discussione è in realtà la questione del permanente o dell’invariante all’interno di questa dinamica, all’interno di questa storia. E a questo proposito io vorrei azzardarmi a sostenere una tesi in una certa misura paradossale. È evidente, ed è assolutamente lontana da me l’idea di contestarlo, che da un certo punto in poi il patrimonio di motivi della mitologia è divenuto definitivo. I mattoni sono in un certo senso finiti, e si producono ancor sempre nuove configurazioni, ma nei motivi veri e propri non cambia effettivamente nulla. Voler contestare ciò sarebbe stolto, sarebbe realmente uno storicismo cieco. Ma il problema è come si debba comprendere questo contenuto. E a questo proposito io direi che proprio nel tempo in cui la mitologia diventa arte si produce un divorzio tra contenuto e forma, che in questa modalità è completamente estraneo al pensiero arcaico. La soggettività, il principio formatore, si pone come qualcosa di autonomo rispetto all’oggetto, a ciò che è da formare. Ma proprio per il fatto che il principio formatore estetico, artistico, si rende autonomo, proprio per questo si rende autonoma anche, dall’altra parte, la mitologia (circa la quale siamo d’accordo che è connessa a una tradizione), l’elemento tradizionale. L’artista si pone come soggetto autonomo nei confronti di una tradizione alla quale egli deve dar forma, ma che proprio in quanto oggetto soggiace a una sorta di pietrificazione, di reificazione o irrigidimento. Perciò direi che la permanenza, di cui Lei parla, cioè il fatto che vengano elaborati sempre gli stessi miti, gli stessi mitologemi, dipende forse proprio dalla circostanza che gli uomini in questa fase non vivono più immediatamente nel mondo mitologico, ma si pongono di fronte ad esso in un modo che in un certo senso è estraneo e autonomo — e proprio in ragione di questa autonomia quel mondo mitologico diventa per loro un materiale che essi elaborano e fissano e rappresentano in modi sempre diversi, senza però poter modificare questo contenuto, come dev’essere accaduto nelle epoche originarie. In questo senso perciò io vedrei l’invarianza dei mitologemi, che Lei sottolinea con piena ragione, essa stessa come un momento nella dialettica storica, e che non intenderei come una sorta di fondamento archetipico, ma come qualcosa che deve essere compreso nella dialettica storica.
Kerényi: Per quanto concerne il fondamento archetipico, questo fondamento risulta fino ad oggi come una ipotesi di lavoro utilizzabile, e a questo proposito non voglio dire niente di più, perché ciò implicherebbe entrare troppo in profondità nel laboratorio della ricerca. Vorrei invece, a proposito di un altro punto, tanto esprimere un consenso, quanto fare una distinzione. A me sembra che Lei abbia parlato ora spontaneamente, con una incomparabile precisione, com’è ovvio, soprattutto del momento in cui la mitologia è divenuta arte poetica, per esempio epica (o naturalmente anche lirica), introducendo nella conversazione il momento dell’estetico, e con ciò anche immediatamente l’elemento dell’opera d’arte autonoma, che si dà forma. Io credo tuttavia che la mitologia come attività non cada sotto il concetto dell’artistico o dell’estetico. Se mi sforzo di rappresentarmi quella attività in base ai testi esistenti, che come si è detto consistono di variazioni, allora devo enunciare la seguente ipotesi per una più precisa determinazione di cosa sia la mitologia come attività. Mi sembra che in ogni creazione artistica l’inconscio e il conscio procedano insieme. Anche la creazione più cosciente non può prevedere esattamente quale direzione prenderà un racconto epico. Rinvio alle dichiarazioni di Thomas Mann sugli sviluppi dei suoi romanzi. Al fatto che lui voleva scrivere una piccola storia di Lubecca e a come quella si sia sviluppata da sé in un potente romanzo. Quindi questa spinta inconscia, questa inconscia autoformazione degli elementi, è qualcosa di cui non si può negare la presenza anche nell’opera d’arte autonoma. Quindi se volessi determinare più da vicino l’essenza della mitologia, direi: lì questo elemento inconscio dev’essere stato ancora molto più forte. Se un poeta per un qualsiasi motivo ha scelto un dio come oggetto, allora egli — come ho già mostrato con un esempio, quello del Faust di Goethe — è legato a ciò. E tanto più il narratore di miti. Diciamolo precisamente in greco: non il μυθοποιός, il mitopoieta, il facitore di miti, ma lo spontaneo μυθολόγος. I motivi che compaiono nei mitologemi originari sono tali che si può affermare: se una volta era stata evocata la grande madre ed era comparsa in un racconto, aveva portato con sé anche due accompagnatori o due eroi che le stanno accanto, e improvvisamente era comparso anche un figlioletto, l’autentico, il prediletto — cosicché sembra che nella situazione del genuino raccontare miti il narratore, per così dire, non abbia fatto altro che offrire la scena sulla quale recitano gli dèi. Non ci si può rappresentare una scena senza il narratore. L’uomo con le sue condizioni di fatto non si può eliminare, ma tantomeno si possono eliminare questi elementi costanti e viventi, che lì recitano, ancora non completamente separati da quello — non so come lo si debba chiamare, forse il mito caotico, se proprio lo si vuole nominare, sebbene io in generale non creda a qualcosa di simile; quindi non ancora interamente separati, diciamo, dall’identità di soggetto e oggetto — forse questo si adatta meglio al nostro colloquio filosofico — e purtuttavia non ancora così autonomi come tra le mani di un poeta, che tratta di dèi, e ancor meno tra quelle di un poeta che tratta di uomini che egli stesso crea. Io credo che a questo stadio della ricerca noi, da un punto di vista puramente storico, non possiamo risalire oltre questa fase. Forse posso citare a questo proposito un noto detto di Wilamowitz, e cioè: «Gli dèi, semplicemente, ci sono». Ma questo enunciato è ancora povero, infatti gli dèi sono più che delle semplici esistenze, essi sono esseri di una certa natura, strutturalmente determinata. E con ciò comincia la storia della religione, la storia della mitologia, la storia della cultura antica, con il che io non posso dire che il pensiero umano e la filosofia non possano risalire nel passato oltre questi limiti.
Adorno: In ciò che Lei ha detto vi è molto di importante per le questioni filosofiche, e io vorrei perciò tentare di fissare un paio di cose anche nel mio linguaggio e forse di evidenziare alcuni punti di differenza. Innanzitutto tra di noi vi è sicuramente accordo sul fatto che l’opera d’arte formata dev’essere differenziata tanto dal mitologema legato al culto, quanto a sua volta il mitologema dev’essere differenziato dal mito. A questo proposito vorrei osservare che la predominante quantità delle fonti di cui disponiamo per la mitologia ricade già in ampia misura nella sfera dell’opera d’arte formata. Cosicché mi pare molto difficile prescindere dall’epos quando si parla di mitologia, così come a proposito della mitologia è difficile fare interamente astrazione dal mito. Ma forse Lei potrà ritornare ancora proprio su questo punto di grande rilievo (Kerényi: Sì). Io posso forse ricordare, per esempio, che un pensiero come quello della Madre intesa come figura mitica centrale verosimilmente non sarebbe per noi possibile senza la prima Nekyia dell’Odissea, la rappresentazione delle madri, che incontrano Odisseo agli Inferi e che manifestamente rimandano ad un dato preeroico e certamente già vengono viste in una determinata tendenza poetica. Questo è un punto. L’altro che io volevo sottolineare riguarda la questione dell’inconscio. A questo proposito io credo che noi siamo d’accordo nel ritenere che tra il mito e l’inconscio vige una connessione straordinariamente stretta, e credo che questa convergenza sia stata esposta con grande ampiezza da entrambi i lati, sia dal lato della ricerca sui miti che dal versante psicologico. Forse questo ci dà l’occasione di dire ancora qualcosa, a questo punto, su una questione che sta molto a cuore ad entrambi, e cioè quella del rapporto con la psicologia. Se posso cominciare a introdurre qualche osservazione a questo proposito, direi che nonostante l’indubitabile vicinanza che sussiste tra le categorie mitologiche e quelle psicologiche, è necessario procedere su questo terreno molto prudentemente per non cadere in quello che noi filosofi chiamiamo psicologismo. Con ciò voglio dire che proprio i concetti della psicologia del profondo, da cui Lei è, come me, molto fortemente influenzato, sono innanzitutto ricavati dall’io articolato e altamente sviluppato; che dunque questi concetti della psicologia del profondo sono per dirla in breve concetti propriamente moderni; e che i miti da parte loro, o le mitologie, per esprimermi prudentemente nel Suo linguaggio, le mitologie si connettono a uno stadio dell’umanità nel quale, come afferma Nietzsche, l’individuazione non è propriamente ancora compiuta; che esse sono testimonianze proprio di quel processo di individuazione che oggi è compiuto e che forse comincia a regredire, e dal quale sono ricavati i concetti psicologici. Quindi, detto in modo rozzo: su questi fondamenti storici io tenderei a dedurre le categorie psicologiche in modo socio-genetico dalle mitologie, piuttosto che non al contrario a dedurre le mitologie dai reperti che l’odierna psicologia fornisce. Ma forse lei avrà la gentilezza di esprimersi su questi due problemi appena toccati, e quindi anche sulla mia tesi che il momento mitologico non può essere facilmente sciolto da quello estetico, come anche su questa molto intricata e difficile questione del rapporto tra ricerca e interpretazione dei miti e psicologia.
Kerényi: Naturalmente. Per quanto concerne la prima questione, Lei si è richiamato a un esempio che proprio nel Suo libro mi ha molto colpito. Infatti Lei, nella Sua interpretazione dell’Odissea, ha mostrato nel modo forse più persuasivo che dietro il comparire delle eroine della Nekyia deve esserci il culto materno. Io credo che su questo Lei abbia esattamente… (Adorno: Precisamente. Horkheimer ed io intendevamo proprio questo) interpretato. Quindi, questo mi pare anche da un punto di vista filologico e storico assolutamente esatto. Il patrimonio delle nostre fonti per quel che riguarda il culto materno non è costituito dall’Odissea, questa forma del tutto umanizzata e sbiadita del culto materno, ma da un grande culto anatolico e dell’Asia minore, i cui documenti sono presenti non solo nella religione greca e nella rielaborazione poetica greca ma anche nei culti. E io ho scelto l’immagine della scena proprio con questo intento, perché con ciò io posso rinviare anche a un altro tipo di rappresentazione, e cioè al culto. È un fatto che nel culto gli dèi vengono rappresentati. In esso la grande madre o i suoi accompagnatori possono apparire nelle processioni, essere rappresentati. E proprio in queste processioni gli originari accompagnatori demoniaci della dea che vengono rappresentati sono al tempo stesso anche uomini. È proprio questo passaggio, diciamo, dallo stadio premitologico allo stadio del… (Adorno: Magico…) — usiamo ancora una volta questa parola così imprecisa: mito, oppure magico — entrambi; persino l’«oppure» è detto qui in modo molto impreciso, poiché non abbiamo il tempo di spiegarlo. Quindi: da questo stadio precedente a quello che costituisce uno stadio intermedio tra il primo e quello successivo, nel quale le categorie estetiche sono già vigenti. Questa è la mia risposta alla prima questione. Volevo solo concretizzare questo punto, come io lo intendo. Ma veniamo ora alla seconda questione, cioè la questione dell’inconscio, del metodo psicologico, della considerazione di certe ipotesi di lavoro psicologiche. A questo proposito c’è solo un’unica parola sulla quale io ho qualcosa da obiettare. E questa parola è «influenzato». Per quanto mi riguarda, io non sono stato influenzato dai metodi e dai concetti degli psicologi, non più di quanto un fabbro sia influenzato dal suo martello. Io tento di utilizzare questi concetti; e credo che questo sia il mio compito scientifico. Se da qualche parte nel mondo in certo campo scientifico sono stati scoperti nuovi metodi, allora non è un procedere scientifico quello di chi — come non facciamo né io né Lei — si chiude e condanna coloro che usano questi metodi; ciò che si deve fare è metterli alla prova. Chi non ha sperimentato, non ha il diritto di dire in generale nemmeno una parola su queste cose. Adesso tocca a me di rendere a questo proposito una testimonianza, nella misura in cui io ho potuto applicare con successo questi metodi. E a questo proposito vorrei dire quanto segue: che gli dèi siano là e appaiano, questa circostanza non si lascia certo ricavare dall’inconscio. Io credo che Rilke lo dica in modo molto bello in una delle sue poesie meno conosciute: «Es ist Zeit, dass Gòtter aus bewohnten Dingen treten». Se gli dèi ci sono, non si può in generale dire se sono scaturiti da questo tavolo, da questa parete o da qualcosa di inconscio oppure da un fondamento metafisico originario, del quale si dovrebbe parlare anche in senso filosofico, oppure mistico. Quindi, la comparsa degli dèi non ci costringe alla assunzione di un inconscio. Ciò che ci obbliga a questa assunzione è il fatto che questi dèi compaiono rivestiti da diverse qualità umane, secondo specifiche tipologie. Queste qualità umane sono qualità tipiche, universalmente umane, e ciò significa che gli dèi si vestono di una stoffa umana. Essi sembrano quindi di fatto scaturire non dalle pareti, ma dagli uomini, e poiché in una epifania sono emersi dagli uomini, recano elementi umani, originariamente e universalmente umani, che quegli uomini che per primi hanno raccontato questi mitologemi non erano ancora in grado di osservare coscientemente. Non erano ancora all’altezza della più alta creazione romanzesca della nostra epoca, che si è nuovamente inoltrata in questo tipico. Queste caratteristiche sono quelle che ci spingono a pensare che certi elementi della mitologia, insieme con gli dèi, siano emersi dall’inconscio. E questa ipotesi di lavoro, perché tale è, si è fin qui, almeno nel mio proprio lavoro, confermata. Questa è di nuovo solo una concretizzazione.
Adorno: Affinché non sorga alcun fraintendimento, posso tuttavia aggiungere che io con l’espressione «influenzato dai concetti della psicologia del profondo» non volevo dire niente di estrinseco — anche gran parte del mio lavoro si muove, come Lei sa, in quelle stesse categorie. Io volevo solo evitare che si rendessero le cose troppo semplici in un punto, in cui l’azione reciproca dei concetti utilizzati è tale che è estremamente complicato capire se il concetto dell’inconscio costituisca l’ὕστερον o il πρότερον. Questa è stata anche, per esempio, l’opinione di Freud stesso, che ciò che oggi accade nell’inconscio un tempo è stato in un certo senso reale; che quindi i conflitti inconsci, che oggi si ripetono nel mondo delle rappresentazioni, rimandano a realtà arcaiche; che per esempio il padre, al quale oggi si riferisce il cosiddetto complesso di Edipo, nella preistoria è stato realmente ucciso, e simili. Io credo che questo non debba qui venir trascurato. Ma vorrei ora, quando purtroppo il tempo stringe, tornare ancora una volta a un punto centrale. E cioè all’intera questione dell’epifania ovvero dell’esserci degli dèi. Lei ha detto or ora, e credo a buon diritto, che la formulazione di Wilamowitz, gli dèi semplicemente ci sono, è in un certo senso troppo primitiva. Infatti in tutte le figure di dèi che noi in generale conosciamo si riscontra un momento — diciamo — di scissione tra i loro diversi attributi, un elemento dinamico immanente, se così posso chiamarlo, che non è immediatamente compatibile con questa rappresentazione alquanto classicistica della semplice esistenza degli dèi, a tutto tondo e non problematica. Credo che a questo proposito l’antico nemico di Wilamowitz, Nietzsche, abbia visto più chiaro del suo grande avversario filologico, in quanto egli ha sottolineato molto energicamente questi momenti. E l’idea che noi abbiamo sviluppato nel nostro libro è proprio quella che questi aspetti di scissione, questi momenti antitetici nelle immagini stesse degli dèi rimandino alla origine storica degli dèi nella vita reale degli uomini. In quanto dunque il concetto della mera esistenza degli dèi si svela come storico e dinamico, viene al tempo stesso anche posto un blocco a quel romanticismo che anche Lei, come so, non condivide, e che assume che si dia qualcosa come una verità in sé di questi dèi; e quindi questi dèi vengono di nuovo resi quello che è contenuto nel concetto della mitologia come un suo momento: cioè qualcosa di inventato, qualcosa che non ha letteralmente, come invece accade in Klages, l’attributo della realtà, fosse anche solo la realtà delle immagini. E proprio per questo credo che sarebbe bene dire appunto qualcosa su questo momento di scissione, su questa antiteticità interna delle immagini divine, perché attraverso di essa viene trasceso il concetto della mera datità, o, come si direbbe oggi, del mero essere degli dèi.
Kerényi: Credo che ora abbiamo toccato problemi molto difficili e, per quanto riguarda il colloquio odierno, anche conclusivi. Mi rallegro straordinariamente di aver ascoltato proprio questa precisa determinazione della natura degli dèi che anch’io ho sempre sostenuto. La storia delle religioni e quella della mitologia, a mio avviso, nella situazione attuale, possono giungere fino a questo punto, e non andare oltre. Che questi dèi in se stessi divisi, al tempo stesso chiari e oscuri, che sono gli dèi greci, possiedano anche una verità, io non lo contesto. Ciò che io rifiuto è solo il prendere letteralmente per veri i racconti intorno a questi dèi (Adorno: Molto giusto!). Vorrei dirlo ancora più precisamente: è inconcepibile che un uomo pensante prenda per buona una poesia nello stesso senso di un dato storico (Adorno: Molto giusto!). Questo lo ha già detto Aristotele: la poesia possiede un’altra verità. Un’altra verità contengono anche i racconti degli dèi. E il compito scientifico non è quello di semplificare e — poiché oggi vediamo che non possiamo trascurare queste datità della storia, come gli dèi, — semplicemente affermare: prego, credete pure a questi dèi; ma si deve invece porre la questione, che tipo di verità gli dèi esprimano. Ma non potrei rispondere a questa domanda in un tempo così breve.
Adorno: Credo che con ciò Lei abbia toccato una questione assolutamente decisiva, che conduce il nostro colloquio verso la sua naturale conclusione. E spero che non Le sembri un espediente retorico se dico che Lei non è così lontano dal punto di vista dell’illuminismo quanto forse si potrebbe pensare. Infatti uno dei più grandi illuministi, Feuerbach, ha detto una volta che non si tratta di essere contro la religione, ma sopra. E con ciò non voleva dire altro se non che il compito della filosofia consiste proprio in questo, nell’assicurarsi quella verità che è contenuta nei mitologemi, senza confonderla, letteralmente e immediatamente, con ciò che essa vuol far credere di essere; ma anche senza misconoscere questa verità prendendola per un inganno deliberato o una fantasticheria, ma comprendendo invece quali necessità nel cammino della coscienza dell’umanità si sono rispecchiate in queste immagini. E se noi potessimo assumere questo come esito comune del nostro colloquio, io sarei, almeno per quanto mi riguarda, straordinariamente soddisfatto del risultato.
Kerényi: Condivido pienamente.
Da Theodor W. Adorno, Interpretazione dell’Odissea, a cura di Stefano Petrucciani, Roma, manifestolibri, 2000