Il tuo nome è HI-RO-SHI-MA

Recensione di Paola Cristalli a “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais

Mario Mancini
10 min readFeb 14, 2024

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“Tu non hai visto niente, a Hiroshima” è una frase scolpita nella storia del cinema. Percorre come un’eco di sfida il film diretto da Alain Resnais e scritto da Marguerite Duras. L’enigma di queste parole è da subito oggetto di interpretazioni appassionate, cosi come ogni altra voce, ogni altra forma d’un oggetto percepito come nuovo, senza precedenti.

D’altra parte, quelli erano i tempi, la passione era nell’aria. Il film viene presentato a Cannes nel maggio del 1959, stessa edizione che vedrà Francois Truffaut vincere il premio alla regia per 1400 colpi. Annunciata, e in alcune occasioni avvistata, la nouvelle vague cova sotto la cenere — anche sotto la cenere impalpabile, rugiadosa, che copre i due corpi allacciati nella prima sequenza di Hiroshima mon amour.

Il cinema è al centro del mondo. E un momento magico, è il momento dell’euforia.

Hiroshima mon amour avrebbe dovuto essere un documentario, un documentario franco-giapponese sulle conseguenze dell’esplosione atomica.

E in questa forma che nel 1957 il produttore Anatole Dauman lo propone ad Alain Resnais, già autore di cortometraggi in diverso modo implicati con il tema della memoria, e soprattutto di Notte e nebbia, girato tre anni prima, ritorno di un uomo con la macchina da presa ad Auschwitz e Birkenau, luoghi dell’orrore irrappresentabile (“fotografie, in mancanza d’altro, spiegazioni, in mancanza d’altro” dirà Emmanuelle Riva in Hiroshima, confrontata all’irrappresentabilità di un altro orrore).

Resnais ci pensa, poi rilancia: il suo sarà un film di finzione, la storia di una giovane donna francese che nel 1957 arriva a Hiroshima per interpretare un film pacifista, portando con sé un’intermittenza straziante del proprio passato, e ha un breve incontro con un uomo giapponese.

“Si sono incontrati il giorno prima, in un bar. Si amano eternamente”, è la splendida sintesi di Georges Sadoul.

Per la sceneggiatura Resnais cerca, come poi farà sempre, la voce riconoscibile e possibilmente ben risonante d’uno scrittore. Mancato l’incontro con Françoise Sagan (e chissà come sarebbe stato il film, se lei non avesse dimenticato l’appuntamento; e chissà se ci sarebbe stato), le cose vanno a buon fine con Marguerite Duras.

La stesura dura due mesi; Resnais lascia che la voce della scrittrice si dispieghi, ma sorveglia da presso la struttura. “Sapeva quel che voleva: mi provocava, e io rispondevo andando nella sua direzione” (Marguerite Duras).

Poi Resnais va a girare in Giappone, convinto che non riuscirà a portare a termine l’impresa. Invece il film è pronto per Cannes, che lo ammette alla Selection Officielle, ma “fuori concorso”: escamotage politico, si dice, per non turbare gli americani, che peraltro candideranno all’Oscar la sceneggiatura di Duras.

Hiroshima mon amour diventa l’evento dell’anno. È il film di cui tutti parlano. Di cui molto si continuerà a parlare, negli anni. Dal giugno 1959 a oggi, una letteratura monumentale.

“E un film che oggi ammiriamo un po’ ciecamente”, esordisce Jacques Rivette, in una celebre tavola rotonda che i “Cahiers” organizzano per il numero di luglio 1959. Ciecamente, perché è difficile stabilire da che luogo (del cinema, della sua storia) ci parli.

Ciecamente, perché “Tu non hai visto niente, a Hiroshima”. Perché occorre fare i conti con una superficie fredda, modernista, di alta elaborazione intellettuale; fare i conti con un “modo di filmare in cui non passa nessun affetto” (Serge Daney, nel 1983) e che tuttavia ci fa tremare con la sua “dolcezza terribile”, e non si fa dimenticare.

Rohmer sente l’urgenza di andare dritto al punto: “Resnais è il primo cineasta moderno del cinema sonoro”. E Godard: “Un film che non potevamo prevedere, sulla base di quanto già sapevamo del cinema”.

Più o meno tutti registrano l’impatto di una narrazione che usa i piani temporali in un contrappunto libero, un nastro continuo che evoca e depista. Ci si appella alle arti, si fanno i nomi di Faulkner, Klossowski, Borges, Stravinskij, Picasso.

Il consenso critico è molto alto, anche se non manca chi dissente. Se dall’America, dove il film arriva nel 1960, Dwight MacDonald scrive che “Hiroshima mon amour è il film più originale, commovente, importante che abbia visto da anni… un’esplorazione della memoria paragonabile alla Recherche di Proust”, un’imbizzarrita Pauline Kael rispedisce oltreoceano quella che considera solo “un’elucubrata fantasia masochistica”, peraltro politicamente dubbia (“certo, ci convincono a comprare la pace. Ma la domanda è: chi ce la sta vendendo?”).

E non parliamo di Jacques Lourcelles, che non solo non ammette Hiroshima (né nessun altro film di Resnais)al Dictionnaire, ma attribuisce al suo autore la palma di “intellettuale più noioso che sia apparso in questo secolo”.

Ci vorrà comunque tempo e distanza perché letture più attrezzate a considerare un’oggettiva prospettiva storica possano vedere in Hiroshima mon amour, fonte inesauribile per il futuro cinema sperimentale, l’eredità “delle lunghe carrellate di Lumière e Promio, del montaggio ultrarapido di Vertov e Gance” (Dominique Noguez, 2009).

“Il passato risale a sprazzi alla superficie del presente, e lo avvelena”, scrive Jean Douchet nel 1959.

È il veleno che ancora scorre nel sangue malato di chi sopravvisse alla bomba. È il veleno di ricordi che non ci abbandonano, o che invece ci stanno già abbandonando, e non si sa quale sia la vera disfatta, la disfatta di tutti noi specie umana. Intanto accade che ci si possa muovere in un momento sospeso, in un “misterioso, iperrealistico surplus generato da ogni immagine: la stanza d’albergo, i viali, il museo, il corridoio dell’hotel, il caffè sul fiume, il parco, la sala d’aspetto d’una stazione.

La fisicità degli ambienti, l’intensità degli oggetti sono affascinanti” (Peter von Bagh, 2008). Una donna alla finestra, una tazza di caffè, il sorriso d’una notte d’amore — con vista su Hiroshima. “Il volto dell’orrore con un profilo di dolcezza” (ancora Douchet).

Lo scandalo di Hiroshima mon amour è iscritto nel suo titolo fenomenale e certamente molto letterario, molto rive gauche. Prima di (e dopo) ogni altra cosa, Hiroshima è l’amore.

Lo scandalo è aver raccontato senza separazioni e visibili giunture, senza gerarchie, la tragedia d’una città che “si solleva dalle sue fondamenta, poi ricade a terra in cenere” e il cuore e le unghie sanguinanti d’una ragazza che piange fino alla follia la morte del suo amore sbagliato, del suo amante dal nome tedesco.

È uno scandalo che ha a che fare con la poesia — quella poesia che non doveva o poteva più essere possibile “dopo Auschwitz”. E invece, in quel 1959, tutto sembra possibile.

“Il cinema ha bisogno di amanti”, scrive Jacques Becker nel numero di novembre di “Arts”. The world will always welcome lovers|as Time goes by. l’ultimo locale, dove lei e lui non riescono a dirsi addio, si chiama Casablanca.

Naturalmente, Resnais verrà accusato di “fare del melodramma”. Persino l’entusiasta Sadoul (“Quel Resnais, che grand’uomo, che cineasta!”) lamenta certi cedimenti del recitativo di Duras, paragonandoli al teatro boulevardier di un Henri Bernstein. (Del resto, a Resnais piace il melodramma e piace Bernstein, come dimostrerà realizzando nel 1986 un film che si chiama Mèlo).

Ma anche o soprattutto per questo azzardo Hiroshima mon amour è un film che ancora ci fa sentire “sopraffatti, incantati, violentati” (Kent Jones, in una bellissima lettura del 2003.

“Guarda che tutto questo si è già visto” disse Dauman a Resnais, per scaramanzia o per perfidia, dopo aver visto la prima copia del film, “S’è visto in Quarto potere, un film che spezza la cronologia e risale il corso del tempo”.

“Si” rispose Resnais “ma il mio film lo risale in ordine sparso”. La poetica del tempo frantumato risplende nello scambio di battute che chiude il film.

La donna francese e l’uomo giapponese, che non si sono mai chiamati per nome, decidono infine di darsi l’un l’altro il nome delle città testimoni delle loro indistricabili tragedie. Ma i nomi ci arrivano dilatati, sillabati, disgregati. Hi-ro-shi-ma, il tuo nome è Hi-ro-shi-ma.

Restaurare un film per sua natura frantumato è cosa delicata. Il restauro del 2013, supervisionato da Renato Berta (direttore della fotografia per Resnais in Smoking-No smoking, Parole parole parole e Mai sulla bocca), lavora a recuperare il contrappunto tra la fotografia di Sacha Vierny, che filmò le sequenze di Nevers, con il loro cupo riverbero di cinema francese anni Quaranta, e quella di Michio Takahashi, che filmò le sequenze di Hiroshima, con astratto chiarore ‘moderno’. “Tu non hai visto niente, a Hiroshima”. Solo, oggi, con un nuovo nitore.

Anatole Dauman, il produttore racconta

Un giorno del 1957, Resnais trovò la propria strada per il lungometraggio attraverso il percorso singolare d’un film che avevo proposto a M. Nagata, il presidente della Daiei, un’importante compagnia cinematografica giapponese che aveva come filiale, in Francia, la Pathé Overseas.

Si trattava della coproduzione ufficiale di un documentario sulla bomba di Hiroshima. Il titolo pensato in un primo tempo riassumeva il soggetto in una parola: Pikadon (in giapponese, il lampo dell’esplosione nucleare).

Passarono mesi interi e Resnais non trovava l’ispirazione. Cominciavamo ad avere dei dubbi sul senso dell’avventura quando un’idea si impose di colpo alla sua immaginazione: mostrare il Giappone attraverso lo sguardo d’una donna.

D’improvviso, Pikadon veniva sopraffatto dal desiderio di raccontare una storia. Firmati i contratti, non restava che scrivere la sceneggiatura. A chi rivolgersi? Resnais mi propose una nuova arrivata nel mondo delle lettere e del cinema, Marguerite Duras. L’accordo fu rapidamente concluso, in due mesi la sceneggiatura fu scritta e dialogata.

L’ora era venuta. Resnais doveva partire solo per il Giappone, precedendo la script-girl Sylvette Baudrot e l’attrice Emmanuelle Riva. Mi rivedo ancora ai piedi dell’aereo, all’aeroporto di Orly: con una franca stretta di mano, Resnais mi confidava il suo pensiero segreto: “Vado per constatare che questo film è, semplicemente, impossibile”.

In Giappone, in studio come nelle riprese esterne, Resnais sorprese tutti quanti con la sua autorità. Senza conoscere la lingua, riusciva a far capire esattamente tutto quel che voleva agli attori e ai tecnici giapponesi. Miracoli della gentilezza! All’annuncio delle buone notizie, Marguerite Duras si mise a battere le mani e mi trascinò nel vortice del suo salutare entusiasmo… Quale film Resnais aveva portato a casa dal Giappone? Lo ignoravo ancora, preferendo alla visione dei giornalieri l’emozione d’un primo montaggio.

Dopo la proiezione della copia zero, sussurrai perfidamente a Resnais: “S’è già visto tutto questo in Quarto potere, un film che spezza la cronologia e risale il corso del tempo”. Lui mi rispose: “Sì, ma il mio film lo risale in ordine sparso”.

È vero che Hiroshima ha spezzato la struttura del racconto cinematografico e l’ha sottomessa all’intreccio della memoria affettiva, come ha ben sintetizzato François-Régis Bastide: “Il passato diventa l’indicativo presente per meglio seguire le tracce del futuro”.

Il cinema cambiava. Nel mondo intero, il pubblico fu folgorato dal film. Il testo ebbe certamente il suo ruolo nel suscitare l’emozione generale. Resnais aveva rispettato l’apporto della sua sceneggiatrice al punto di calcolare, cronometro alla mano, la durata dei suoi travelling sul ritmo moderato cantabile della prosa durasiana.

Ma a mio avviso, la forza di Hiroshima mon amour risiede essenzialmente nella regia e nell’arte del montaggio. A costo di dispiacere la sua modestia, voglio affermare che Alain Resnais è in tutto e per tutto il vero autore dei suoi film, e che passando da una sceneggiatura all’altra, da uno scrittore all’altro, si rivolge a noi in uno stile unico che è il suo, e nient’altro che il suo.

Produttore e distributore internazionale, Anatole Dauman (1925–1998) fonda a ventiquattro anni la società Argos Films che inizia la sua attività producendo corti e documentari, fra i quali Notte e nebbia e La Jetée.Grazie ai lungometraggi di Rouch, Marker, Resnais, Bresson, Godard, Oshima, Schlöndorff, Tarkovskij e Wenders, la Argos Films si afferma in seguito come una delle più importanti case di produzioni indipendenti di cinema d’autore.

L’intervento qui riportato su Hiroshima mon amour è apparso originariamente in Jacques Gerber, Souvenir-Ecran, Editions Centre Georges Pompidou, Parigi 1989.

Da: Hiroshima mon amour, booklet della Cineteca di Bologna, pp. 5–11

Paola Cristalli è direttore responsabile delle edizioni della Cineteca di Bologna e collabora come critico cinematografico a varie testate.

Il restauro di Hiroshima mon amour

A cinquantaquattro anni dalla sua uscita nelle sale, Hiroshima mon amour è stato restaurato interamente in 4K attraverso un lungo e complesso lavoro, realizzato a partire dal negativo-camera e da un controtipo positivo di prima generazione. Particolare attenzione è stata riservata al rispetto della grana originale del film, che ha caratteristiche diverse soprattutto tra le parti giapponesi e quelle francesi ma anche nei molti e diversi stock di pellicola montati nel negativo.

Il restauro ha rispettato pienamente l’estetica originale del film e il grading curato da Renato Berta è stato portato avanti grazie alla sua grande esperienza di direttore della fotografia e al costante riferimento a una copia d’epoca. Il restauro del suono è stato fatto, seguendo le indicazioni di Resnais, nel modo più trasparente possibile e nel pieno rispetto delle sonorità della copia d’epoca che anche in questo ambito ha costituito un importante riferimento.

Un viaggio nel cuore del film

di Renato Berta

Gli elementi dai quali siamo partiti per il restauro provengono da tre diverse fonti: i negativi originali, girati dai capo-operatore Sacha Vierny in Francia e Takahashi Michio in Giappone, gli internegativi degli effetti speciali (dissolvenze, dissolvenze incrociate) e diverse sequenze d’archivio. Con Hiroshima mon amour non ci troviamo di fronte a un film classico in cui la fotografia è invariata dall’inizio alla fine.

La narrazione del film è perfettamente lineare ma basata sulla discontinuità del montaggio fotografico, temporale e geografico. Le parti relative ai ricordi girate in Francia non hanno nulla a che vedere con quelle relative al presente in Giappone, per di più riprese da due operatori differenti. Questa eterogeneità fotografica contribuisce perfettamente al sistema di lettura del film ed è ciò che abbiamo voluto preservare.

Grazie alle moderne tecniche digitali disponiamo ormai di diverse opzioni per trattare i parametri fisici e fotografici, cosa che le tecniche analogiche non consentivano in precedenza. È stato dunque necessario comprendere il film, rispettando le intenzioni dei diversi interventi che hanno contribuito alla sua realizzazione.

È stata questa la linea di condotta che abbiamo adottato per questo restauro: faccio riferimento alle immagini dei ricordi di Emmanuelle Riva che ritroviamo lungo tutto il film. Abbiamo dovuto tener conto del contrasto e della densità dei diversi supporti.

Avendo girato quattro film di Alain Resnais come capo-operatore, ho maturato una certa esperienza che mi ha aiutato a prendere decisioni, e ho avuto la possibilità di discuterne telefonicamente direttamente con Resnais.

Il lavoro che ho fatto su questo restauro ha rappresentato un viaggio inusuale e affascinante nel cuore del film. Spesso mi è sembrato di avere accesso alle dinamiche più profonde dei diversi creatori: i due direttori della fotografia, gli attori e, naturalmente, il regista. Spero di non aver tradito le loro intenzioni.

Nell’incertezza, mi sono lasciato guidare dagli innumerevoli modi in cui viene filmata Emmanuelle Riva, dalla sorprendente quantità di posizioni che assume questo magnifico viso, e dunque dalle luci e dagli angoli di ripresa, che fanno di questo film una grande lezione di cinema.

Da: Hiroshima mon amour, booklet della Cineteca di Bologna, pp. 44–45

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.