Il ruolo del linguaggio nella lotta transfemminista intersezionale

di Crystal Melisa Corrieri

Mario Mancini
13 min readJun 27, 2022

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Premessa

In questa breve intervento si cercherà di mettere in luce il ruolo del linguaggio nella lotta transfemminista intersezionale attraverso la ricerca sociologica. Si tenterà di dimostrare che il linguaggio inclusivo di genere è uno degli strumenti principali per cambiare la cultura patriarcale della nostra società.

Per una questione di coerenza con la tesi di fondo di questo intervento e con l’obiettivo di dimostrare l’ipotesi di fruibilità di un testo scritto con un linguaggio inclusivo di genere, si è deciso di non utilizzare le desinenze maschili per fare riferimento a soggetti di cui non si conosce il genere o a gruppi eterogenei e, invece, di ricorrere allo schwa, che corrisponde ad una “e” ruotata di 180°, “ə” (in seguito sarà spiegato approfonditamente il funzionamento e le motivazioni di questo morfema). Faranno eccezione, chiaramente, le citazioni provenienti direttamente dai testi presi in esame.

Nella prima parte “Che cos’è la cultura” si definiranno i concetti di cultura e linguaggio, mentre nella seconda parte “Qual è la correlazione tra la cultura e il linguaggio?) ci si concentrerà sulla correlazione tra queste due nozioni. Infine, si esporrà la strategia proposta da alcunə sociolinguistə per iniziare a porre le basi e mettere in atto il cambio di paradigma tanto necessario.

Parte prima
Che cos’è la cultura?

Nella maggior parte degli esseri viventi il comportamento è legato all’istinto, ovvero un insieme di impulsi tramandati dall’informazione genetica che ne indirizzano la condotta al fine di consentirne la sopravvivenza. Ad esempio, le migrazioni degli uccelli o il letargo degli orsi sono fenomeni riconducibili a tendenze innate. Da una parte, l’istinto consente reazioni rapide e funzionali che sostengono la sopravvivenza della specie; dall’altra parte, la rigidità del comportamento istintivo è inadeguata di fronte a repentini cambiamenti ambientali.

Negli esseri umani i comportamenti ereditari si riconducono per la maggior parte ai riflessi primitivi e ad alcuni bisogni fondamentali. Per esempio, ə bambinə ritirano bruscamente la mano se capita loro di toccare una superficie che scotta. Ma, ben presto, sia i riflessi che i bisogni vengono inseriti all’interno di un sistema culturale che ne modifica radicalmente le manifestazioni. In questo senso, il bisogno di nutrimento segue orari ben definiti che non hanno alcun legame con il bisogno originario.

Mentre i comportamenti istintivi sono più o meno uguali in tutti gli individui della stessa famiglia, la cultura è un bene collettivo al quale gli individui partecipano secondo modalità differenti.

La cultura comprende ogni attività umana, conoscitiva, affettiva e relativa al campo dell’azione, condivisa da una pluralità di individui in determinati contesti e trasmessa di generazione in generazione. I vari elementi culturali costituiscono un insieme integrato, in cui ogni aspetto determina il modo di essere degli altri ed è da questi condizionato. Infatti, attraverso la cultura l’uomo percepisce la realtà e la controlla.

Proprio a causa della sua plasticità, la cultura fornisce una pluralità di modelli, che si differenziano nel tempo e nello spazio. Dunque, potremmo parlare più correttamente di culture.

Il carattere complesso e dinamico della cultura può essere inteso come una “cassetta degli attrezzi” (Swilder, 1986) utilizzabile entro strategie d’azione. In altri termini, la cultura non è un insieme coerente di valori ultimi che orientano l’azione, ma un repertorio di risorse di cui individui e gruppi si servono per costruire diversi corsi di azione.

Secondo Richard A. Peterson (1979), “la cultura è costituita da quattro tipi di elementi: norme, valori, credenze e simboli espressivi”. Di seguito, vediamo brevemente queste componenti di base:

– I valori sono “le finalità, pubblicamente condivise da un gruppo sociale, verso i quali gli individui dovrebbero tendere” (Ambrosini & Sciolla, 2019). Non indicano ciò che desideriamo, ma ciò che dovremmo desiderare;

– Le norme, invece, sono mezzi che prescrivono o vietano dei comportamenti in vista di determinati valori. La loro efficacia sociale dipende dalla presenza di una sanzione;

– Le credenze sono proposizioni di tipo descrittivo, basate su dati di fatto o su atti di fede, attraverso cui gli esseri umani rappresentano e classificano il mondo;

– I simboli sono stati spesso definiti come “segni”, sia convenzionali, come i segni utilizzati daə matematicə, sia analogici, cioè capaci di evocare una relazione tra un oggetto concreto e un’idea astratta. Hanno un carattere intersoggettivo e fanno parte della dimensione implicita della cultura. In questo senso, Ferdinand de Saussure ha definito la lingua come “un sistema di segni che esprimono delle idee”, considerandola la più importante tra questi sistemi di segni.

Questi quattro elementi sono strettamente interconnessi e interdipendenti, con gradi più o meno elevati di coerenza.

Che cos’è il linguaggio?

Il linguaggio è la principale forma di oggettivazione dell’espressività umana, in quanto assegna ai diversi elementi dell’esperienza dei suoni e segni convenzionali. Esso si basa sulla capacità degli esseri umani di utilizzare i simboli al fine di soddisfare le necessità comunicative dell’individuo.

Per questo motivo, il linguaggio non è solamente un’associazione psicologica attinente ad un livello privato e individuale: ogni simbolo, per diventare un elemento del linguaggio, deve rimandare a un insieme di esperienze distinte con caratteri talmente simili da essere classificabili nella stessa categoria generale. Infatti, per poter essere adoperato realmente, il linguaggio necessita di una collettività numerosa di parlanti che accetta e condivide lo stesso codice.

Data la sua capacità di veicolare i significati comuni di un contesto sociale, alcunə sociologə, come Peter e Brigitte Berger, ritengono che il linguaggio sia l’istituzione sociale per eccellenza. Dunque, possiede i caratteri tipici di ogni altra istituzione:

– Estrinsecità, perché ogni volta che qualcosa viene espresso verbalmente diviene esterno al soggetto;

– Oggettività, che si riferisce sia all’insieme di regole che preesistono alla soggettività dei parlanti, sia alla capacità propria della lingua di esternare e oggettivare il pensiero e le esperienze;

– Potere coercitivo, cioè si presenta con una struttura predeterminata, con regole ben definite a cui è necessario adeguarsi;

– Storicità, quindi esiste un’evoluzione linguistica che consiste l’introduzione di nuovi termini, il decadere di altri e il modificarsi del significato dello stesso termine nel corso del tempo.

Questa ultima caratteristica è particolarmente interessante ai fini della nostra analisi. Infatti, le lingue cambiano continuamente per adattarsi alle esigenze della struttura sociale di una data società.

Ma prima di addentrarsi in questa disamina, è utile distinguere tra due concetti apparentemente simili: quello di “linguaggio” e quello di “lingua”. Il linguaggio è la facoltà di collegare un’espressione a un contenuto, pertanto è fondato biologicamente e si può supporre uguale in tutti gli esseri umani. Invece, le lingue sono le specifiche forme in cui il linguaggio si presenta e il loro numero può variare illimitatamente.

Parte seconda
Qual è la correlazione tra la cultura e il linguaggio?

“La cultura (valori, norme, simboli, ideologie, credenze religiose) circola nel mondo sociale prevalentemente sotto forma di discorsi, espressioni, parole dette o scritte, attraverso dunque il linguaggio (nei suoi aspetti verbali e non verbali)” (Sciolla, 2012).

In anni recenti si è sviluppata la sociolinguistica, una disciplina che analizza la variazione della lingua, cioè mette in luce gli aspetti contestuali e le funzioni comunicative del linguaggio, i modi in cui il linguaggio viene concretamente utilizzato entro una comunità e situazioni di interazioni specifiche.

Come spiega la ricercatrice linguistica e attivista transfemminista Manuela Manera, in La lingua che cambia:

“Lingua e realtà non sono due dimensioni contrapposte in competizione fra loro, né una prevale sull’altra. Al contrario, possiamo affermare che il loro rapporto è simbiotico perché queste due dimensioni sono intrecciate e in continua e costante influenza reciproca”.

Questo rapporto di interazione può essere inteso in due modi:

1. Il linguaggio non è neutro, ma esprime precise valutazioni sociali. Ad esempio, alcuni gruppi marginali riconoscono alla propria lingua una particolare importanza con l’obiettivo di identificarsi e autodeterminarsi, come quei popoli che hanno rilevato la centralità della propria lingua nel percorso di decolonizzazione. Dunque, la lingua è uno strumento e un simbolo;

2. Secondo la teoria di Sapir-Whorf (o principio di relatività linguistica), la struttura di una lingua condiziona il modo in cui l’individuo comprende e percepisce la realtà. In questo senso, il nostro mondo reale è il prodotto del nostro linguaggio. Per esempio, la lingua dei Pirahã, una popolazione dell’Amazzonia brasiliana, non usa forme per indicare il passato e, mentre gli altri popoli accumulano scorte di farina per diversi mesi, i Pirahã provvedono al massimo per qualche giorno.

Alcune critiche hanno messo in luce i limiti metodologici di questo secondo punto, sostenendo che, da un punto di vista empirico, bisognerebbe osservare e descrivere separatamente gli eventi culturali e quelli linguistici. Per questo motivo, presentiamo di seguito gli studi di Boroditsky, Schmidt e Phillips (2000) esposti al ventiduesimo incontro annuale di Cognitive Science Society.

Ə tre ricercatorə si chiedono se il linguaggio modelli effettivamente il pensiero (e di conseguenza la percezione). Ma rispondere a questa domanda risulta difficile, in quanto è molto approssimativa. Slobin (1996) propone una differente formulazione, che consiste nel sostituire linguaggio e pensiero, con parlare e pensare, quindi thinking for speaking. Questa sostituzione permette di distinguere tra il pensiero linguistico e quello non linguistico, cioè non relativo alla lingua. In sostanza, i processi cognitivi coinvolti nella selezione delle parole, nella collocazione delle strutture grammaticali, nella pianificazione del discorso e così via, sono tutti esempi di thinking for speaking.

Un’ulteriore specificazione rispetto al quesito iniziale riguarda la competenza cognitiva, ovvero se alcune conoscenze sono più suscettibili di altre all’influenza linguistica. Ad esempio, i primi studi sui colori hanno mostrato una sorprendente somiglianza nella memoria del colore tra parlanti di lingue diverse. Invece, le ricerche sul modo in cui le persone concettualizzano domini più astratti come il tempo hanno mostrato notevoli differenze. Secondo Boroditsky, “one possibility is that language is most powerful in influencing thought for more abstract domains, that is, ones not so reliant on sensory experience”.

Successivamente, gli studi si sono concentrati sulla correlazione tra genere grammaticale e descrizione degli oggetti: può il genere grammaticale assegnato agli oggetti da una lingua influenzare la rappresentazione mentale degli oggetti stessi?

Per rispondere a questa domanda, Boroditsky, Schmidt e Phillips hanno prodotto una lista di 24 nomi di oggetti che hanno il genere grammaticale opposto in spagnolo e tedesco (metà erano femminili e metà maschili in ogni lingua). Dopodiché hanno chiesto a un gruppo madrelingua spagnolo e un altro gruppo madrelingua tedesco di scrivere i primi tre aggettivi che venivano loro in mente per descrivere ogni oggetto sulla lista. Lo studio è stato condotto interamente in inglese e nessunə deə partecipanti conosceva lo scopo.

Come previsto, ə partecipantə hanno generato aggettivi più stereotipicamente maschili per gli oggetti i cui nomi erano grammaticalmente maschili nella loro madrelingua, e viceversa.

“For example, the word for key is masculine in German and feminine in Spanish. German speakers described keys as hard, heavy, jagged, metal, serrated, and useful, while Spanish speakers said they were golden, intricate, little, lovely, shiny, and tiny. The word for bridge, on the other hand, is feminine in German and masculine in Spanish. German speakers described bridges as beautiful, elegant, fragile, peaceful, pretty, and slender, while Spanish speakers said they were big, dangerous, long, strong, sturdy, and towering” (Borodotsky, Schmitdt & Phillips, 2000).

Dunque, i risultati esaminati in questi studi dimostrano che una distinzione grammaticale nella lingua ha il potere di influenzare la memoria delle persone, le loro descrizioni di parole e immagini, le loro valutazioni delle somiglianze delle immagini e la loro capacità di generare somiglianze tra le immagini.

Possiamo affermare che, se esistono circa 7000 lingue parlate nel mondo, allora non esiste un solo universo cognitivo, ma 7000. La lingua è un vero e proprio ambiente dentro il quale siamo costantemente immersə. Cambia e cresce insieme a noi per colmare dei vuoti o per rispondere a nuove esigenze della comunità.

Inoltre, il linguaggio serve a conservare le conoscenze accumulate dalla collettività e a favorirne la trasmissione da una generazione all’altra. La conoscenza, invece, è un meccanismo di strutturazione della realtà sulla base di schemi interpretativi che ne riducono la complessità (Arielli & Scotto, 2003). Di conseguenza, il linguaggio crea un’immagine del mondo che influenza anche la nostra percezione.

Ad esempio, la parola femminicidio è comparsa in Italia per la prima volta nel 2001 in un articolo giornalistico ed è stata registrata nel 2008 nel dizionario dei neologismi Treccani. Questo fenomeno esisteva già nella realtà, ma grazie a questa nuova parola possiamo riconoscere e descrivere con più precisione, concretezza e consapevolezza la violenza di genere, che non è una questione individuale ma sociale. In questo modo è cambiato anche il nostro sguardo al problema.

Dati questi presupposti, per riprendere il punto centrale della nostra tesi, le riflessioni sulle discriminazioni di genere presenti nelle lingue si intrecciano con la lotta sociale e politica per rivendicare l’uguaglianza dei diritti.

All’indomani della Rivoluzione francese, Olympe de Gourges scrive La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791) per integrare, in modo fortemente critico, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789). Millicent Fawcett, in un suo articolo del 1899, spiega:

“L’assioma per cui in una legge la parola uomo include la donna è vero solo quando c’è del denaro da pagare o un reato da espiare. Quando si tratta invece di un privilegio, la parola uomo viene ad assumere il significato più limitato di persona di sesso maschile”.

Parte terza
Come possiamo trasformare lo spazio linguistico a favore della lotta femminista?

Alma Sabatini, ne Il sessismo nella lingua italiana (1987), indaga in modo approfondito la rappresentazione delle donne in articoli giornalistici e annunci di lavoro realmente prodotti, fornendo un’accurata classificazione dei vari casi e un vademecum per evitare le forme sessiste.

In sostanza, lo studio segnalava due fenomeni: (1) la saturazione dello spazio linguistico da parte del genere maschile; (2) le numerose asimmetrie di trattamento tra uomo e donna.

Nella lingua italiana, come in molte altre lingue, esistono solo due generi grammaticali (questo perché storicamente i generi riconosciuti nella nostra cultura sono due). Il genere grammaticale femminile è usato unicamente, e neppure sempre, con valore referenziale specifico, cioè per indicare una determinata persona socializzata come femmina nella realtà. Il genere grammaticale maschile, invece, ha altri due valori: quello di neutro-generico, quando non ci si riferisce ad una persona nello specifico, e quello di universale-inclusivo, quando ci si riferisce ad un gruppo eterogeneo.

Questo uso del maschile permette agli uomini di identificarsi e strutturare in modo immediato un immaginario in cui essere protagonisti. Ad esempio, il Titolo II della Costituzione italiana riguarda le modalità di elezione, i poteri e le responsabilità del Presidente della Repubblica. Inevitabilmente il maschile conduce il pensiero ad un corpo maschile, mentre la possibilità che questa carica possa essere rivolta ad altre soggettività rimane nascosta in secondo piano. Manera scrive:

“Cariche, professioni, ruoli, non sono concetti astratti, sono necessariamente associati a una persona che li incarna; perciò, se nominiamo sempre e solo un genere, diamo a quel genere un vantaggio rispetto agli altri in visibilità e opportunità, perché sarà percepito come normale (dunque confortante) avere un uomo presidente, come un’eccezione (fonte di preoccupazione) avere, per esempio, una donna presidente”.

Inoltre, ancora oggi molte delle cariche professionali femminili vengono declinate al maschile dalla maggior parte deə parlanti, mentre il genere grammaticale maschile con valore referenziale viene sempre rispettato. La sociolinguista e divulgatrice Vera Gheno evidenzia il problema in Femminili Singolari, rispondendo ai dubbi della comunità linguistica. Non è un caso che le opposizioni più vigorose all’uso dei femminili professionali riguardino gli ambiti lavorativi più prestigiosi e qualificati. Ma parole come assessora, ingegnera e notaia sono tutte forme regolari e previste dal sistema grammaticale italiano e le incertezze derivano solo dal mancato utilizzo.

Per quanto riguarda il binarismo di genere della lingua italiana, invece, fin dagli anni Novanta nell’ambiente dell’attivismo femminista e nella comunità LGBTQIA+ si sono sperimentate strategie alternative per declinare le parole per fare riferimento a soggetti di cui non si conosce il genere o a gruppi eterogenei. Quello più adottato era l’asterisco, quindi al posto di scrivere “Ciao a tutti”, si scriveva “Ciao a tutt*”. Il problema principale di questa soluzione era l’impossibilità di utilizzarla anche nel parlato. Infatti, negli ultimi anni ha iniziato a diffondersi un’altra proposta: lo schwa.

Lo schwa è un fonema dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), cioè il sistema riconosciuto a livello internazionale per definire la corretta pronuncia delle lingue scritte. Nel sistema fonetico lo schwa identifica una vocale intermedia, il cui suono si trova esattamente al centro del trapezio vocalico. Si pronuncia tenendo rilassate tutte le componenti della bocca, senza deformarla in alcun modo e aprendola leggermente. Non è presente nell’italiano, ma esiste in alcuni dialetti, come quello napoletano.

Ma come si usa? Ecco una breve guida:

– Gli articoli sono al singolare e ə al plurale, ad esempio lə studentə e ə studentə;

– Il pronome della terza persona singolare lui/lei diventa ləi;

– Per i sostantivi si parte sempre dalla radice, per cui ad esempio autore/autrice diventa autorə;

- Per i termini ambigenere, invece, si mette lo schwa solo all’articolo, cioè lə pediatra e lə giudice, e al plurale ci si regola di conseguenza mettendo lo schwa solo laddove maschile e femminile sono diversi, quindi ə pediatrə e ə giudici.

La proposta è stata messa per iscritto per la prima volta nel 2015 da Luca Boschetto, curatore del sito Italiano inclusivo. Nello stesso periodo questa soluzione è giunta ad alcuni gruppi di attivistə, per poi essere popolarizzata anche al di fuori della comunità LGBTQIA+ da Vera Gheno.

Chiaramente, l’introduzione dello schwa non è una soluzione priva di ostacoli. In primis, alcunə hanno fatto notare che lo schwa rappresenterebbe un problema per le persone con dislessia, neurodivergenti o, in generale, con difficoltà di lettura. Questo è vero, ma possiamo compiere alcune riflessioni in merito: esiste una forma che possa accontentare tuttə? Probabilmente no. E, probabilmente, si tratta più che altro di una questione di abitudine. In secondo luogo, lo schwa sarebbe difficile da usare perché le tastiere non lo possiedono e non viene letto dai software di lettura ad alta voce per le persone cieche e ipovedenti. In questo caso, però, i problemi sono legati alla tecnologia, quindi sono più facilmente risolvibili.

In ultimo, il più grande limite dello schwa riguarda il fatto di implicare un cambiamento alla morfologia dell’italiano, turbando anche la sintassi e la testualità. Si tratta di intaccare un piano molto più resistente, rispetto a quello ortografico o lessicale. Tuttavia, riteniamo che discutere sulla liceità di un uso sperimentale sia fuori fuoco: lo schwa rappresenta prima di tutto il segnale dell’esigenza di una maggiore inclusività. Infatti, tutto il dibattito attorno a questa questione ha avuto il pregio di attirare l’attenzione anche su altri temi sociali e politici importantissimi per la lotta transfemminista intersezionale.

Bibliografia

Ambrosini, M., & Sciolla, L., (2019), Sociologia, Milano: Mondadori Università.
Arielli, E., & Scotto, G., (2003), Conflitti e mediazione, Milano: Paravia Bruno Mondadori.
Boroditsky, L., & Schmidt, L., & Phillips, W., (2000), Sex, syntax, and semantics, in Proceedings of the 22nd Annual Conference of the Cognitive Science Society, pp. 42–47.
Gheno, V., (2021), Femminili singolari, Firenze: Effequ.
Gümüşay, K., (2021), Lingua e essere, Roma: Fandango Libri.
Manera, M., (2021), La lingua che cambia, Milano: Eris Edizioni.
Sciolla, L., (2012), Sociologia dei processi culturali, Bologna: Il Mulino.

Sitografia

https://www.sapere.it/
https://www.treccani.it/

Crystal Melisa Corrieri, 22 anni, è attivista transfemminista. Studia presso la Scuola di scienza politica “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Un suo racconto ha vinto il contest letterario “We are Back” istituito in occasione della ripresa delle attività del Laboratorio Multimediale della “Cesare Alfieri” e del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.