Il processo a Giovanna d’Arco di Robert Bresson nella critica del tempo

Mario Mancini
23 min readMay 30, 2021

I film di Robert Bresson nella critica italiana del tempo
Aller à la serie “Bresson par Bresson”

«Cambiatevi d’abito e io vi accorderò questa grazia.»
L’inquisitore a Jeanne d’Arc

«Dio viene prima,
Dio mi ha mandato.»
Jeanne D’Arc agli inquisitori

Un piccolo capolavoro di Bresson che in Italia è stato doppiato appositamente per la televisione. È il processo alla santa guerriera con inserti inediti del regista. Molto brava l’attrice che dopo il film è diventata una scrittrice.

Adelio Ferrero e Nuccio Lodato

Nel Condannato e in Pickpocket il rapporto tra il protagonista e la “prigione”, imposta o volontaria che fosse, appariva determinante; nel film su Giovanna il rapporto coercitivo resta ma assume essenzialmente la forma del “processo”: non un fantomatico processo dove l’accusatore e l’accusato appaiono coinvolti in uno stesso assurdo che li trascende, ma l’istituto freddamente legalizzato della persecuzione che accompagna sempre il personaggio bressoniano e ne sigla la “diversità”.

Nel 1456, venticinque anni dopo l’esecuzione della figlia, in NotreDame, la madre di Giovanna d’Arco chiede al competente consesso ecclesiastico l’annullamento del processo alla figlia e la sua riabilitazione.

Il testo fa subito ritorno all’apertura di quel processo, con l’imputata che dichiara giurando sul Vangelo le proprie generalità.

Interrogata dal vescovo Cauchon, alla presenza del delegato inglese Warwick, in cinque successive sedute, mentre la folla invoca la sua condanna alla pena capitale, Giovanna rintuzza con lucida coerenza tutti i tranelli che le vengono tesi, chiamando direttamente Dio, attraverso le “voci” che le sono familiari ormai da un decennio, a ispiratore del suo agire.

Un giovane domenicano presente, Isambart, solidarizza in silenzio con lei, e tenta di agevolare, con sguardi e segnali, le sue risposte. Gli inquisitori tendono a dimostrare che l’imputata è una strega, e che i suoi successi anche militari sono da fare risalire a fatture e male pratiche.

Giovanna replica chiamando in causa le sante Caterina e Margherita e lo stesso arcangelo Michele come tramiti delle sue “voci”, rivendicando di avere sempre ottemperato alla volontà della Chiesa Romana e del Papa, in evidente contrapposizione con quella collaborazionista, asservita all’invasore inglese e ai borgognoni, lì rappresentata da chi la interroga (oltre a Cauchon, Beaupère e Lemaître).

Tra un’udienza e l’altra, tentativi di spiare l’imputata e di attentare alla sua integrità, segni di sfaldamento del fronte colpevolista ecclesiastico, impazienze della folla forcaiola e di Warwick. Cauchon decide di continuare gli interrogatori a porte chiuse. Ora si insiste soprattutto sulla scelta di Giovanna di indossare abiti maschili e sulla sua effettiva verginità.

Accertata questa sua condizione e minacciata di tortura, l’imputata rifiuta di indossare un abito femminile.

La requisitoria finale, di nuovo in udienza, le oppone tutte le accuse, incurante della sua autodifesa. Domenicani amici la consigliano di ricorrere al Concilio di Basilea o al Papa. Ma il dichiarato proposito di Giovanna di farlo le vale solo ulteriori accuse e mortificazioni. In un momento di debolezza, anche per la paura del fuoco, accetta di sottoscrivere un’abiura sulla pubblica piazza.

Riportata in cella, prende coscienza di non poter sopportare quella reclusione perpetua. Rinnega l’abiura e si lascia condurre al rogo.

Processo a Giovanna d’Arco non è un film “storico” e non vuole esserlo: la pretesa della ricostruzione e interpretazione critica di un’epoca e di un personaggio neppure lo sfiora. E contro lo “stile storico”, infatti, Bresson ha avuto modo di pronunciarsi, durante e dopo le riprese, con puntigliosa insistenza:

«Quando, l’anno scorso (1961), stavo preparando e poi giravo il film, non avevo soltanto la preoccupazione di ricreare Giovanna attraverso le sue stesse parole, ma avevo anche il problema di renderla attuale. Rimettere il passato al presente è il privilegio del cinematografo, a patto che esso rifugga dallo stile storico come dalla peste». «Mi sono sottratto, ripeto, allo stile storico, che non è credibile. Un film non è un’opera di teatro. Esso deve essere creduto. In breve, ho fatto in modo che Giovanna appaia possibile e verosimile o impossibile o inverosimile — come fu nel suo tempo»
(Études Cinématographiques; i corsivi sono nostri, ndr).

E ancora:

«Nei film storici, nei quali molte cose sono incerte, l’emozione dovrebbe essere la nostra sola guida. Non è dunque strano, se nei nostri film, più allontaniamo i personaggi storici dalla loro epoca, più li avviciniamo a noi ed essi risultano più veri. Il cinematografo coglie l’evento nel momento stesso in cui accade. Sarebbe ridicolo pretendere che io avessi collocato la mia “camera”, cinque secoli indietro» (Cahiers du cinema, n. 140).

E dunque

«niente film storici, che diventerebbero “teatro” o “travestimento”. In Processo a Giovanna d’Arco ho tentato, senza cadere nell’uno o nell’altro, di trovare con parole storiche una verità non storica» (Notes sur le cinématographe, p. 131).

Le “parole storiche”, riprese testualmente ma organizzate e scandite in una prosa ritmica di cui Estève (Études Cinématographiques) ha indicato puntigliosamente le varie e studiate modalità, sono i verbali del processo di Rouen (gennaio-maggio 1431), che assumono e coprono interamente la funzione riservata in genere alla sceneggiatura e ai dialoghi. In questo, mentre ignora con serena indifferenza tutta una tradizione drammaturgica che, da Voltaire a Schiller a Shaw, ha comunque avvertito la suggestione del personaggio, il film di Bresson è più vicino, per alcuni versi, al radiodramma di Anna Seghers, rielaborato per il teatro da Brecht e Benno Besson nel 1952, che si rifaceva essenzialmente al protocollo delle sedute processuali.

Ma si tratta di un’analogia strutturale tutt’altro che esaustiva perché poi a Brecht premeva soprattutto l’attivismo eroico di Giovanna che egli riconduceva, nelle scene di piazza e di osteria, al sentimento e alla collera popolari, per cui le “voci” delle celesti ispiratrici di Giovanna diventavano, nella versione mondana e realistica di un contadino, «le nostre voci» (Bertolt Brecht, Il processo di Giovanna d’Arco, Teatro, IV, Einaudi, 1974).

In Bresson la storia, simulacro di ufficialità ammantata della sicurezza del dominio e del rituale della tradizione, è rappresentata dai vescovi che, all’ombra del potere il brutale e insofferente Warwick interrogano Giovanna: Cauchon e gli altri hanno dalla loro la carta stampata e le sue formule capziose, la legge ma non la giustizia, la funerea compostezza di istituzioni ridotte a simulacri di una spiritualità inaridita e deviata. Nel conflitto, può manifestarsi con luminosa evidenza quella che Bresson ama riconoscere come l’“attualità” di Giovanna:

«… ho voluto che Giovanna d’Arco fosse un personaggio dell’oggi, ho voluto renderla attuale, il letto, i suoi scarponi appartengono alla nostra epoca, li ho introdotti deliberatamente, con il rischio di urtare. Ho sentito il desiderio di rendere ammirevole agli uomini del nostro tempo questa giovane, e sarei felice se il film contribuisse a farla rinascere. Giovanna aveva quel senso della vita al quale non pensiamo abbastanza sovente. Essa ha sacrificato la vita al senso della vita» (intervista a Michel Capdenac, “Les Lettres françaises”, 24 maggio 1962; i corsivi sono nostri, ndr).

“Attualità” che non significa, né vuole essere, “attualizzazione”, almeno nel senso clamoroso e provocatorio congeniale a certa drammaturgia del Novecento, e non soltanto su Giovanna. Abbiamo ricordato che il regista si attiene scrupolosamente ai verbali del processo, senza interpolazioni o anacronismi di sorta.

“Rendere attuale” significa qui attingere un nucleo di “verità” che lo spettatore possa risentire contemporaneo, ricco, nella apparente lontananza, di echi e prolungamenti attuali. E sarà, in modo più spoglio e radicale del solito, l’antagonismo tra un ordine che riceve la propria legittimità dall’esistente, e ha la pretesa di statuirlo come unico e immutabile, e lo scandalo della disubbidienza in nome di una alterità vissuta e affermata sino alle estreme conseguenze. In questo, Bresson è ancora vicino a Bernanos, che parlava di Giovanna «recidiva e santa» e di processo intentato dal mondo all’«infanzia» (Georges Bernanos, Jeanne relapse et sainte, Plon, 1934, cit. da Bastaire Études cinématographiques).

Ma si dovrà subito aggiungere che l’eroina bressoniana non è poi affatto disarmata: come Fontaine, di cui condivide — lo confessa tranquillamente ai giudici — il pensiero e l’aspirazione alla fuga, è attenta a cogliere i consigli e i segni di incoraggiamento che le vengono dagli altri (il muto colloquio di sguardi e di cenni con il giovane domenicano, aguzza le armi dell’intelligenza e conosce l’efficacia della parola; ferma e sicura davanti ai giudici («passate oltre!», replica duramente alle domande più subdole e indiscrete), si abbandona al pianto nella solitudine della cella («Dio, salvatemi dalla persecuzione di questi uomini di Chiesa!»).

Rifiuta nettamente la mediazione di una chiesa che, ancora una volta, appare l’istituto deformato e distorto di una ormai spenta tensione religiosa, e si appella direttamente a Dio («Dio viene prima di tutto»).

Rifiuto della istituzione e della sua autorità mediatrice e normativa nel quale rinveniamo la persistenza, nel tempo, del singolare giansenismo di Bresson dove la Grazia, lungi dall’annullare l’azione individuale, è come assorbita e interiorizzata in essa, voce interna della spiritualità che sembra rimandare, piuttosto che all’improbabile misticismo in cui ha cercato di imbrigliarla certa critica cattolica, alla “bella estraneità”, cara ad Adorno, la quale «fa tutt’uno con l’amore per l’altro e il diverso che è la confutazione vivente della funerea dittatura esercitata dall’irrigidito principio di identità» (Tito Periini, “Bianco e Nero”, n. 12, 1974).

Del resto, nella dialettica della solitudine e dell’attesa, l’accento si sposta ora, e radicalmente, sul primo termine: di fronte ai giudici che la interrogano, la spiano, la torturano di domande e insinuazioni, Giovanna è sola con se stessa e con l’alternativa tra rinuncia e opposizione. Le “voci” non sono altro che la “voce”, manifestazioni di una trascendenza-diversità interiore, immanente, che spetta a lei spegnere o esaltare: «ho creduto cosi perché ne avevo la volontà», dice Giovanna rispondendo alle domande su come poteva sapere che l’apparizione fosse san Michele: e Bresson non a caso invitava a ripensare il senso di queste parole.

Nel primo impatto del processo, il rapporto tra la chiesa e l’imputata svela la sua misura fondamentalmente persecutoria: la freddezza protocollare dei giudici, l’assedio delle contestazioni malevole e insinuanti, lo scricchiolio della penna del cancelliere che trasforma ogni incertezza e abbandono della parola in una “prova” a carico, l’odiosità dei soldati, la messa a fuoco costante (in un film senza primi piani) dei dettagli della prigionia, la catena e l’anello di ferro al piede, le mura spoglie della cella, lo spioncino attraverso il quale ogni sguardo e movimento della ragazza viene scrutato con malevolenza e sospetto (Estève, Études Cinématographiques — ricordava il «tema sartriano della libertà interiore violata dallo sguardo altrui»), la risonanza e lo strazio dei rumori (il contrappunto lancinante delle porte sprangate, dei passi che si arrestano e si allontanano) concorrono ad accentuare la dimensione dell’isolamento e della solitudine, risvolto doloroso e segreto dell’«insolenza», come diceva Bresson, di Giovanna.

Il secondo tempo, la sconfitta, è la diretta conseguenza di questa condizione di smarrimento: la stanchezza e l’abbandono, l’illusione di ritrovare comunque il rapporto, la speranza di sentirsi nuovamente “accettata” si pagano a caro prezzo. Per la prima volta Giovanna appare inerte, annientata.

Ma nell’ottica bressoniana di un giansenismo ormai interamente secolarizzato, quanto più profonda è la caduta (cedimento alle ragioni dell’immediatezza, dello sgomento della propria “diversità”, dell’ansia di essere come e con gli altri), tanto più risoluta è l’aspirazione a salvarsi (impossibilità di dissipare e disperdere l’alterità che attraverso la propria esperienza si manifesta, di offuscarne la potenzialità antagonistica). E dunque, nel terzo tempo, si risolve con rapida, inarrestabile progressione il motivo centrale dell’opera: «Giovanna illustra una legge umana, quella del “chi perde, acquista”».

Per vincere, bisogna perdere sino al limite, se si vuole accedere al regno delle grandi cose, anche della terra» (intervista alle “Lettres françaises”). Il senso di questa sconfitta gloriosa è la riaffermazione intransigente di una misura di alterità, di non conciliazione, che in Pickpocket assumeva la forma di un sofferto paradosso.

La dialettica benjaminiana e adorniana del “minuscolo” e dell’“illimitato”, sottilmente analizzata da Perlini, offre qui uno dei suoi esiti più luminosi: al personaggio, diseroicizzato, depurato di qualsiasi enfatizzazione, viene restituita muovendo dal particolare più umile, una diversa eroicità interiore.

Nella bellissima sequenza che precede il supplizio, Giovanna corre a piedi nudi verso il rogo e l’impossibilità della “camera” di staccarsi da quella corsa infantile e leggera, mentre svela per un attimo la turbata tenerezza del regista verso il personaggio, ribadisce il senso affermativo e liberatorio di quella risoluzione estrema.

Ma in un autore inquieto e problematico come Bresson, il “dubbio” e l’interrogativo permangono: sul rogo, attraverso la fitta cortina delle fiamme che divampano su uno sfondo inalterabile di cime di alberi, la croce scompare alla vista di Giovanna e quando, con un rabbrividito battito d’ali, anche i piccioni sono fuggiti, l’immagine conclusiva è quella di un palo annerito e fumante.

Warwick, che aveva detto al boia: «raccogliete tutte le sue cose: non deve rimanere nemmeno un capello», sembra avere vinto. Resta, unico baluardo contro la disperazione, il senso di una presenza che continua, la fondazione di una diversa moralità contro la “necessità” angusta e mortificante della storia, l’ultima confessione di fedeltà alle proprie “voci” mentre le fiamme già lambiscono il volto.

Ma per ora Giovanna è sola e il principio del “chi perde, acquista” si afferma attraverso la più desolata delle negazioni. Nessuna ribellione o pietà popolare fa da coro e commento al martirio di Giovanna: in questo Dreyer e Brecht trovavano, almeno per un istante, un provvisorio punto di contatto. Qui, invece, l’unica voce di fuori, che irrompe tra un’udienza e l’altra, chiede la morte della “strega”.

Non a caso, la presenza del popolo è, letteralmente, cancellata dallo schermo, ridotta a rumore di fondo, respinta nella cieca ripetizione di una storia senza alternative e rotture. Con rigore anche più teso del solito, con disadorna parsimonia, il regista si attiene al partito preso di una drammaturgia scarna e oggettiva, senza forzature e violenze espressionistiche dell’immagine e del ritmo: in questo la sua maggiore divergenza tematica e stilistica dal Dreyer della Passione, che Bresson notoriamente rispetta ma non ama.

«Dreyer, interiorizzando i personaggi dei suoi film, ha servito particolarmente bene il cinematografo. La sua Passione di Giovanna d’Arco ha meriti enormi, soprattutto se si pensa all’epoca in cui fu girata. È un film che colpisce ancora molta gente. E questo è notevole, anche se ottenuto con mezzi che non sono sempre cinematografici. L’insieme, sebbene (a me) sembri abbastanza teatrale (scenografie, gesti, espressioni del volto) esercita ancora una seduzione incontestabile, che sono incapace di spiegarmi. Il movimento di Giovanna che raccoglie la corda e la tende al boia è teatrale e bello» (Cahiers du cinéma, n. 140).

Ma nelle Notes (p. 129) con maggiore asprezza:

«In mancanza del vero, il pubblico si aggrappa al falso. La maniera espressionista con cui la Falconetti levava gli occhi al cielo, nel film di Dreyer, strappava le lacrime.»

Sémolué, che ha studiato con sottigliezza i rapporti di affinità e divergenza tra i due film, osservava che in Dreyer e Bresson non mancano importanti convergenze di principio: il rigore, ad esempio, e il rifiuto del “costume”, anche se «la scenografia viene cancellata in Bresson, stilizzata in Dreyer». «Il film di Dreyer è di una lentezza liturgica, quello di Bresson di una rapidità procedurale torturante» e, infine, «il film sonoro mostra immagini del processo, o piuttosto sul processo; quello muto propone la “passione” di Giovanna dopo il processo».

Ma troppo netta risulta, a nostro avviso, la divaricazione, accentuata dal critico, tra la «debolezza umana, carnale», che sarebbe la forza dell’eroina di Dreyer, e «l’orgoglio, la sicurezza di sé» del personaggio bressoniano (Sémolué in «Études cinématographiques»).

Abbiamo osservato come il momento del dubbio, dello sconforto, della disperazione acuita dalla solitudine, sia tutt’altro che assente, o marginale, nella Giovanna bressoniana, la quale è molto più ricca e complessa di quanto non sembri ritenere Sémolué. Certo, Bresson sdrammatizza ritmo e composizione, spogliandoli di ogni enfasi, risolvendo il contrasto in opposizione frontale (Giovanna sola e il gruppo dei giudici, ripresi quasi esclusivamente con piani medi, in una successione scabra e martellante di campi e controcampi, interrotti solo dalle dissolvenze tra una seduta e l’altra) dove, di fronte a ogni domanda, a ogni minaccia o lusinga, Giovanna deve riconquistare e opporre incessantemente la propria radicalità, in un conflitto estenuante, senza tregua.

La Giovanna di Dreyer, anch’essa condannata al rogo, prima che il processo si apra, è, in un certo senso, salva fin dall’inizio; la sua “diversità” è scritta, una volta per tutte, in quei grandi occhi di povera lucertola braccata ma ormai inattingibile: da una parte c’è una che è già santa, dall’altra una muta di sordidi, repellenti mastini.

In Bresson il processo è ancora aperto, e da una parte c’è una fanciulla dalle apparenze normali curate, dall’altra un autorevole tribunale di vescovi e assessori che non hanno bisogno di atteggiarsi a “vilains” perché appaia chiaro quanto la loro servitù all’esistente sia diventata abiezione.

Il conflitto tra queste due misure morali non è scritto ed esasperato fin dall’inizio sulle facce che si guardano e contrastano, cresce e si radicalizza progressivamente: nella “oggettività” dell’ambiente e delle figure in campo affiora in trasparenza la verità dell’uno e delle altre, e l’impossibilità di conciliazione tra rottura e continuità dell’esistente. Ché di questo, ancora una volta, si tratta.

L’asprezza crescente di questa opposizione si impenna in un montaggio incalzante e rovinoso di sequenze brevi e di rapidi frammenti (il processo come rito alto e “neutrale”, smascherandosi, corre verso la rovina della propria credibilità etica e istituzionale), scandito sulla prosa asciutta dei verbali. I dialoghi sono densi e contratti, il “racconto” impietosamente scarnificato ma vibrante di pathos implicito e reticente, del tutto assente il “commento” musicale (soltanto un martellante rullar di tamburi in apertura e in chiusura), smantellata la recitazione (tutti gli interpreti sono non professionisti) e sostituita dalla dialettica implacata dei volti e degli sguardi:

«ho detto che non c’è recitazione — ricordava Bresson. Voglio dire con questo che la ragazza si limita a essere quello che è realmente e che io l’ho scelta perché la trovavo estremamente interessante, piena di vita, straordinaria nel suo modo d’essere, piena di fermezza, quella stessa fermezza che mostra nei film e che non è affatto recitata» (“Bianco e Nero”).

Gli spasimi e le alternative del personaggio non si depositano nella espressività del primo piano ma cercano e conquistano una durata che non vive solo nel “pieno” dei singoli frammenti e nel loro collegamento ma anche e non meno nei vuoti e negli interstizi trasferendosi nel rapporto personaggio-ambiente (Murray insisteva sulla riduzione del campo visivo della macchina da presa a quello di Giovanna) o spostandosi sugli oggetti e sui dettagli: si veda la persistenza e pregnanza semantica del grigio dell’abito e del bianco del letto e dei guanciali di Giovanna contro il nero degli abiti talari dei giudici.

La dimensione morale del personaggio — un sentimento sofferto di solitudine e di esclusione come prezzo della intransigenza, la lotta difficile se pure vittoriosa con se stessa e la propria dismisura, metaforizzata nei motivo della verginità («è questa la sua forza», ammette uno dei giudici) — ne esce contemplata senza enfasi e abbandoni, puntigliosamente “documentata”.

Al totale disinteresse del regista per le motivazioni storico-retrospettive del personaggio (evidente e immediato nella restituzione figurativa: Giovanna non è mai “in costume”, l’acconciatura dei capelli e la semplicità dell’abito maschile la rendono, anche esteriormente, “contemporanea”; nessuna accentuazione di dettagli d’epoca nel tribunale ecclesiastico) fa riscontro la sua turbata emozione, dietro la griglia del resoconto impassibile, di fronte alla credibilità storico-attuale di Giovanna.

Non nel senso, accennato da alcuni (si veda l’ipotesi di un Guitton, «Études Cinématographiques»), di una rilettura bressoniana del personaggio in chiave “giovannea” e “conciliaristica” (ché anzi, secondo il regista, Giovanna «penetra nel mondo soprannaturale ma si chiude la porta alle spalle»), ma di quella rivendicazione eroica di alterità, di una diversa misura dell’esistente, su cui ci siamo fermati. Pertanto, contrariamente a quanto pensava Ayfre, per il quale, nell’ultima sequenza, davanti alla croce «si condensano e si risolvono tutte le contraddizioni degli uomini» (A. Ayfre, L’universo di Robert Bresson), il conflitto resta drammaticamente aperto. L’ultima immagine non è quella della croce ma, in armonia con la struttura e gli strumenti del processo, un palo annerito proteso tra lo spegnersi del brusio della folla in un cieco silenzio e l’inalterabile distanza di un cielo inattingibile.

Da Adelio Ferrero, Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro Cinema n. 25, Editrice Il Castoro, 2004, pp. 74-83

Giorgio Tinazzi

«L’argomento del film — ha detto il regista — è anche l’ingiustizia che prende le forme della giustizia, la secca ragione che lotta contro l’ispirazione, l’illuminazione»; il processo si qualifica naturalmente come contrasto, tra certezza e dubbio insinuante, tra fatti ed evocazioni, tra tensione e ostacolo; si rinserra la dialettica tra umano e invisibile e il loro “misterioso” punto di contatto, tra fisico e rimando ad altro. Ed è contrasto anche evidente tra personaggio e ambiente, e tra personaggi.

La riduzione all’essenziale non produce però schematismi: anche tra i giudici trova posto la differenziazione, in particolare la figura di Cauchon assume un proprio carattere, perché la sua ostinazione ha anche il senso dell’ordinario cui sfugge il diverso.

Stilisticamente i difficili ricambi tra i poli indicati esigono la gravità e l’allusione, il realismo e la spinta metafisica; il fatto dunque, consolidato (gli atti processuali), è riesplorato, ne sono colte le diramazioni appena accennate; la fedeltà al documento porta al minimo l’intervento ma permette anche la decantazione; la riduzione dell’entropia di cui ha parlato Rivette si unisce all’intento di astrazione.

Il Processo è un film storico non perché ricostruisce una situazione, ma perché ne coglie le coordinate interne: la rappresentazione non può diventare illustrazione (o forzato adeguamento esterno). Si pensi per esempio all’uso dello spazio: la situazione di chiusura di cui più volte si è parlato permette l’insistenza (la monotonia, che è però accumulazione del contrasto), l’esplorazione, il crescendo per ripetizione, ma anche l’allentamento (lo spazio prima o dopo del personaggio ecc.); la cella o l’aula del tribunale o la piazza finale non sono mai riprese in totale (ed è evidente l’analogia con il Condannato). È una visione soggettiva, relativa alla protagonista, un modo per articolare la dialettica bressoniana tra testimonianza e intervento.

Basandosi sul fatto, documentato dalla parola, il regista attua un processo di elisione, l’adesione è anche riduzione. Già l’inizio è particolarmente significativo: la madre di Giovanna, accompagnata da due figli, entra in chiesa, e la macchina da presa — mobile — non la coglie per intero, dà solo alcuni particolari. Le prime parole sono accompagnate da rintocchi di campane, mentre l’inquadratura è fissa sulla donna di spalle; senza staccare riprende poi i membri del consesso cui viene avanzata la richiesta di riabilitazione; un suono brusco e il rullo dei tamburi immettono nell’evento (il processo), quasi senza soluzione di continuità tra fatto e sua revisione, tra interpretazione e oggettività; il passaggio dei titoli di testa fissa questo momento cruciale (l’inquadratura della madre), omettendo ulteriori introduzioni.

In seguito non troviamo l’esplicitazione fisica degli atti; la tortura non si vede, l’ispezione di verginità è marcata da poche immagini: dopo l’accusa rivolta da Warwick e d’Estivet a Giovanna, nella cella, la macchina da presa rimane sulla porta; una dissolvenza introduce l’inquadratura di alcune coperte che si muovono / le donne escono, salgono le scale / d’Estivet afferma «Le donne l’hanno esaminata. È vergine», «È questa la sua forza», aggiunge il vescovo.

Anche il dialogo è talora interrotto, non si sente tutto, e le omissioni denotano ancora lo sforzo di essenzializzazione.

La spogliazione investe la costruzione drammatica, i momenti determinanti non sono acuiti, le implicanze psicologiche emarginate: l’inquadratura, spesso fissa e in piano americano, sembra neutralmente non sottolineare. Solo in un paio di casi avviene il contrario: il primo piano di Giovanna in lacrime che ascolta le campane di Pasqua, e poi ancora il viso di lei quando Warwick raccomanda: »Abbiate cura di lei, l’abbiamo pagata a caro prezzo. Ma attenti, è molto furba».

La musica non interviene mai a rendere evidente, solo un rullo di tamburi si sente in taluni momenti (l’inizio, il primo interrogatorio, in lontananza prima dell’esecuzione, nel finale, in crescendo sopra le fiamme); i rumori incidono, come le campane iniziali, o i passi del percorso di Giovanna, o l’abbaiare dei cani (per esempio, prima del terzo interrogatorio), o il brusio durante il processo.

La messa in stile conosce allentamenti (gli interni insistiti, i gesti), iterazioni (figurative e sonore, le porte, i cigolii, i particolari dei piedi) spesso coordinate dal legame delle dissolvenze, i tempi morti (Giovanna in cella, i suoi movimenti).

La mobilità della macchina da presa si accompagna alla consistenza dell’inquadratura fissa; le ampie alternanze dei “blocchi” principali scandiscono i tempi, le cinque sedute del processo in aula, i quattro interrogatori in cella. Vi è al fondo, come legge portante, una sorta di sottile ma non esile legame ritmico.

Anche la parola è materiale ed elemento espressivo; è parola «storica», cioè il reperto sul quale lavorare, cui Bresson è rimasto fedele; la verità è acuita anche da alcune frasi che (non nell’edizione italiana doppiata per la Tv) sono state volutamente lasciate in inglese.«Il mio film nasce dalle parole, è stato costruito da parole»: esse sono rivelazione di carattere (un ritratto, ha insistito Bresson), ma anche fattore di intervento nell’andamento del film, la cui dinamica formale è anche nello svolgersi e alternarsi del dialogo.

Ma essa è anche “dichiarazione”, cioè estrinsecazione della tensione interna: la solitudine (l’abbandono) e la fermezza ne sono i momenti caratterizzanti. La spinta drammatica data dalla costrizione, e il particolare iniziale delle mani incatenate che giurano la sottolineano subito. La parola è infine spesso rivelatrice, soprattutto nella sua dimensione “ordinaria” (un soldato inglese: «Ho cambiato la guardia e ho distaccato un ufficiale. Ma ricordate che deve andare al rogo»); anche la brutalità è secca, quasi trattenuta («Se è la verginità che fa la sua forza, che gliela facciano perdere», suggerisce il governatore inglese a Cauchon).

Si accennava prima alla generale tendenza antidrammatica, all’abituale riduzione dei contrasti; anche per questo l’allusione coesiste con la fisicità, e quasi ne trae forza, come nella breve corsa finale, nel senso di liberazione che essa denota.

Il crescendo è affidato a risorse interne, ai particolari che danno l’inevitabilità dei fatti, alle alternanze degli interrogatori (il concreto), ma pure ai rumori (l’astratto), anche quelli esterni che sostituiscono le immagini: la folla che si ode alla fine dell’interrogatorio, il grido «morte alla strega» su una inquadratura fissa del giudice, l’aumentare delle voci nel finale, alla richiesta di abiura. Le parole di commento all’interrogatorio fatto in cella (spesso sottolineato dall’inquadratura al di qua della fessura) costituiscono una sorta di pausa riflessiva.

La monotonia è in realtà un continuum di fondo, una costante stilistica di rigore: «mi sono accontentato di usare la monotonia come un background sul quale le sfumature sarebbero apparse con chiarezza» (Bresson).

Stilisticamente prevale l’omogeneità, come forma indiretta di allusione o risalto; il rarissimo uso del primo piano denota l’apparente distanza, ma l’inquadratura fissa (di Giovanna, soprattutto) diventa in realtà una sottolineatura, quasi una oggettività dosata nella quale mancano le pagine di “abilità” che avevamo visto in Pickpocket. Alcuni momenti sono perciò rinforzati, come avviene per mezzo del carrello indietro finale, quando Giovanna sale il patibolo, e in altri casi trova spicco il netto uso del campo-controcampo.

Il gioco allusivo è appena percettibile, frantumato in particolari, affidato alle iterazioni, all’esplorazione dei gesti; osserviamo, ad esempio, il ritorno in cella di Giovanna dopo il primo interrogatorio: i piedi di lei e dei carcerieri che la seguono / gli oggetti della “costrizione” (le catene, il martello) / un piano medio di lei che piange.

Oppure si pensi all’utilizzazione del suono che sottolinea l’assenza (le campane di Pasqua): introdotta e chiusa da una dissolvenza, la sequenza registra gesti (Giovanna cambiata d’abito), parole-documento (l’interrogatorio del vescovo), particolari, indici (il suono), reazioni (due volte il primo piano di Giovanna, intervallato dall’uscita di fratel Isambart e dalla chiusura della porta), un monologo («Cosa fanno quelli che erano dalla mia parte? Mi hanno dimenticata»); ancora suoni.

La dissolvenza riapre sulla lettura del capo di accusa. Tutto il finale inoltre è una progressione di particolari caricati in crescendo, che non passano però al simbolo, mantenendo al segno una correlazione reale che lo qualifica.

In questa trama di riferimenti sottili, il richiamo all’interno non è di ordine psicologico, così come quello all’esterno allusivo; anche le connessioni ideologiche rimangono allo stadio di rimando pregnante; è il caso principalmente del significato “politico” del processo, del rapporto tra Chiesa e potere, della connessione tra religione e risvolto storico, che è quasi un filo rosso sotteso.

La distanza può quindi essere considerata la cifra stilistica di questo film; perciò avviene che il nucleo drammatico si rivela proprio perché ridotto. Il rapporto dialettico è tra volontà e storia, tra tensione e segno.

L’inizio mostra la richiesta di riabilitazione fatta dalla madre (su cui figurativamente si insiste nell’inquadratura fissa, nera e di spalle, con mani bianche che la sorreggono), che getta l’ombra sul processo (la “colpa”: «essi falsamente e mendacemente l’accusarono di diversi crimini; alfine vilmente la condannarono e la fecero bruciare viva»). Come ho già osservato, lo stesso processo, segue quasi senza soluzione di continuità, la cesura (il tempo) essendo data solo dal fotogramma fisso su cui corrono i titoli di testa.

La volontà è nel sentirsi investita: «Come mai il vostro re ha prestato fede a quanto dicevate? — Ha avuto un segno prima di credermi. — Che segno? — Passate oltre, non ve lo dirò mai» (e l’inquadratura è sempre fissa su Giovanna); la “vocazione” di cui in senso generale si è già parlato qui diventa specifica, si circoscrive e si qualifica; il segno sta anche nel rimando ad altro, le vie attraverso le quali agisce la Grazia: «Giovanna — ha detto il regista — è la cifra di un’operazione misteriosa». È la forza della sua “insolenza”: «Avete già tentato di fuggire altre volte? — Come ogni prigioniero, ne ho diritto», e più avanti: «Come sapevate che era una voce d’angelo? — Perché avevo la volontà di crederlo».

Lo schema del contrasto è avvalorato dalla storicità del personaggio; torna allora il discorso sulla storicità come emblematicità e non come ricostruzione (il che permette anche taluni anacronismi): Bresson per un verso tende a sottolineare l’eccezionalità dell’esperienza, ma anche la diluisce, mirando dunque a renderla tipica.

Si è partiti dicendo che la struttura di base è quella del contrasto, e si è poi constatato che la tendenza progressiva è la sdrammatizzazione. Anche per questa via si può toccare il problema del rapporto con Dreyer; raffronto che può essere utile, per esaminare alcuni elementi comuni o le divergenze stilistiche radicali, ma che rischia anche di essere scontato se fatto generalmente.

Conviene allora accennare a due soli elementi particolari. Da un lato c’è una diversa tendenza: quella di Dreyer è una “Passione”, quello di Bresson un “Processo”; il primo mira soprattutto a inquadrare un fatto da esplorare dall’interno, da dilatare, il secondo coglie più le risonanze.

Per entrambi la ricerca è quella dell’essenziale, che comporta anche un lavoro di riduzione-caricamento; «la fantasia è abolita, l’immagine esaltata»: lo spazio e il tempo sono costruiti. Ma (ecco il secondo lato) con un diverso processo stilistico; non è (o non è tanto) una contrapposizione tra composizione classica e deformazione, quanto piuttosto una diversa utilizzazione dell’elemento essenziale.

Perché Dreyer tende a caricare, Bresson a stemperare (e forse per questo giudica il primo un autore “teatrale”). I processi di dissezione e allusione sono perciò assai differenziati, e il complesso lavoro di coordinamento degli elementi espressivi va in direzioni non analoghe; a questo proposito Sémolué ha parlato di descrittività geometrica e di allusività algebrica.

All’origine c’è probabilmente un diverso obiettivo, perché il clima creato da Dreyer mira soprattutto a una situazione, quello di Bresson a una dimensione più soggettiva. In questa direzione si rintracciano anche le differenti propensioni stilistiche, la convergenza e la scansione spaziale in Dreyer («il suo film è soprattutto spaziale» insiste ancora Sémolué), e l’iterazione temporale in Bresson, che cerca un tempo “storico” che si infiltra all’interno.

Riparliamo allora, in conclusione, della forma; è soprattutto attorno al modo che va giudicata l’“attualità” del film, secondo la capacità di riproporre un contrasto storicamente depositato e decantato. Quando allora si afferma che, analogamente a Bernard Buffet, Bresson «tende a una spogliazione molto premeditata, più sistematica che naturale», si rischia di spostare il vero nodo del problema. Il quale consiste non tanto nel discutere la qualità della spogliazione, quanto la sua funzione, cioè il suo grado di incidenza in una struttura complessiva che tende preminentemente a rendere una complessità temporale.

Da: Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, Venezia, 1976, pp. 93–98

Mino Argentieri

Processo a Giovanna d’Arco (’62) sembra contraddire, con la prevalenza del dialogo, la predisposizione di Bresson a visualizzare universi spirituali e sfere metafisiche. Ma si tratta solo di apparenze.

In realtà, Bresson si converte a un tessuto linguistico semplice e diretto che, nel solco dei documenti vergati durante le estenuanti sedute processuali, elimina qualsiasi alone di teatralità e di eloquenza insita in un dibattimento inquisitoriale.

Spogliata la tragedia della pulzella di ogni ingrediente che ne forzi il pathos (strumenti di tortura, angolazioni espressionistiche, roghi accarezzati dalla camera, esasperazione dell’apparato scenografico), l’autore è pago di suggerire gli elementi decorativi pertinenti e necessari e punta le sue risorse sul personaggio e sul dibattito di cui è protagonista.

Fredda, si direbbe distante, quasi estraniata dalle vicessitudini che la investono (l’interprete adotta moduli recitativi brechtiani).

In Giovanna bressoniana non ricorda né la pastorella divenuta trascinatrice di combattenti, né la donna folgorata dalla luce del Signore, che oppone ai giudici la cieca tenacia della propria indistruttibile fede.

Non che Bresson le spenga il fuoco della passione, anche se ne smorza i contorni e lo mette in sordina, ma alla inflessibile perseveranza di Giovanna aggiunge una lucidità intellettuale, che risalta nella confidenza con una strumentazione dialettica atta a resistere agli assalti degli inquisitori.

Una Giovanna che cederà, infine, per estenuazione e stanchezza, ma che si configura nella fattispecie di un’eroina protestante. Nel suo rifiuto di sottomettersi a coloro che la martellano con quesiti avviluppanti, vedremo ancora esaltata quella tensione della volontà cui mai Bresson rinuncia, ma allorché Giovanna antepone Dio alla obbedienza agli intermediari ecclesiastici e reclama il diritto a una comunione mistica da consumarsi nella solitudine sublime e schiacciante della coscienza, si giunge alla radice della poetica bressoniana.

Poetica d’indole spiritualistica, ma problematica e tesa a osannare l’irriducibilità dell’individuo chiuso nelle circostanze più avverse e dotato della forza che gli viene dalle sue convinzioni, dal suo istinto vitale, dalla certezza che non può esservi liberamente al di fuori delle idee e delle molle che lo animano.

Più che ricostruire fedelmente la cronaca del processo intentato a Giovanna d’Arco (nonostante l’esattezza dei riferimenti), Bresson s’insinua nel mondo segreto e invisibile del processo stesso, seguendo un itinerario che dall’esterno — i riti tribunalizi — risale all’interno delle anime e si esplica in uno stile secco, essenziale e nudo, che sarebbe glaciale se non lo vivificasse una intensità che soprattutto si evidenzia nella sequenza conclusiva del film, annodata nel silenzio di un sacrificio rievocato mediante inquadrature scabre e liricamente pulsanti.

Parola e immagine, soggettività e oggettività, ricognizione dei fatti e degli impulsi che li nutrono trovano in Processo a Giovanna d’Arco una sintesi artisticamente compiuta e ci lasciano il rammarico per la presenza così saltuaria di Bresson sugli schermi invasi da un mare di ciarpame.

Da Rinascita, 19 luglio 1965, p. 20

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.