Il monopolio e la responsabilità sociale delle imprese
di Milton Friedman
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [aprile 2021]
Il monopolio
La competizione economica
Il termine di competizione ha due significati completamente diversi. Nel linguaggio corrente, competizione significa rivalità personale, per cui un individuo cerca di sopraffare il suo diretto competitore che ben conosce. In campo economico, competizione significa esattamente l’opposto. Non esiste rivalità personale nell’ambito di un mercato competitivo. Non esiste alcun confronto personale. L’agricoltore produttore di grano in un libero mercato non si sente in rivalità personale col suo vicino che, di fatto, è il suo competitore, né si sente da esso minacciato.
L’essenza di un mercato competitivo risiede nel suo carattere impersonale. Nessuno di coloro che partecipano alla competizione può determinare unilateralmente le condizioni alle quali gli altri partecipanti possono avere accesso ai beni o agli impieghi. Tutti devono prendere i prezzi come dati dal mercato e nessun individuo può da solo esercitare un’influenza più che trascurabile sul prezzo, benché tutti i partecipanti nel loro complesso determinino il prezzo per l’effetto congiunto delle loro azioni individuali.
Il monopolio esiste quando un dato individuo o una data impresa esercita su un dato prodotto o servizio un controllo così esteso da determinare in misura decisiva le condizioni alle quali altri individui possono avere accesso ad esso. In certo qual modo, il monopolio si avvicina molto al concetto corrente di competizione, dato che esso comporta rivalità personale.
Il monopolio pone due categorie di problemi a una società libera. In primo luogo, l’esistenza del monopolio significa una limitazione dello scambio volontario attraverso una riduzione delle alternative aperte agli individui. In secondo luogo, l’esistenza del monopolio solleva la questione della “responsabilità sociale”, come è stata denominata, di colui che detiene un potere monopolistico. Colui che opera in un mercato competitivo non ha poteri così rilevanti da modificare le condizioni di scambio: egli è quasi impercettibile come entità separata; quindi è difficile sostenere che egli abbia una qualche particolare “responsabilità sociale” all’infuori di quella che è propria di tutti i cittadini e che consiste nell’obbedire alle leggi del paese e nel vivere conformemente alle proprie possibilità. Il monopolista è visibile ed ha potere. È facile giungere alla conclusione che egli dovrebbe esercitare questo suo potere non solo per favorire i propri personali interessi, ma anche per favorire il perseguimento di fini socialmente desiderabili. Eppure un’ampia applicazione pratica di questi principi porterebbe a distruzione la società libera.
Naturalmente, la competizione è qualcosa di ideale, come una linea o un punto della geometria euclidea. Nessuno ha mai visto una linea euclidea — assolutamente priva di altezza e di larghezza; eppure noi tutti troviamo utile considerare dei volumi — come la funicella dell’agrimensore — come un linea euclidea. Parimente, non esiste in realtà una competizione “pura”. Ogni produttore esercita un qualche effetto, per quanto modestissimo, sul prezzo del prodotto che produce.
La questione importante ai fini della comprensione e della politica da seguire è se questo effetto sia rilevante o possa tranquillamente essere trascurato, come l’agrimensore può far astrazione dalla sottigliezza di quella che esso chiama una “linea”. La risposta, naturalmente, dipende dal problema. Ma io, studiando le attività economiche degli Stati Uniti, sono rimasto in misura crescente colpito dall’ampiezza dei problemi e dal numero delle industrie per le quali è giusto trattare l’economia come effettivamente competitiva.
Le questioni sollevate dal monopolio sono tecniche e coprono un campo nel quale non ho competenza specifica. Di conseguenza, questo capitolo si limita ad essere un rapido scorcio panoramico di alcune delle questioni più rilevanti: l’estensione del monopolio, le fonti del monopolio, la più appropriata politica di governo in questo campo, e la responsabilità sociale del mondo imprenditoriale e del mondo del lavoro.
L’estensione del monopolio
Ci sono tre importanti aree di monopolio che richiedono ciascuna una considerazione a sé: il monopolio nell’industria, il monopolio nel lavoro e il monopolio di origine governativa.
1. Il monopolio nell’industria
Il fatto più importante per quanto riguarda il monopolio di intrapresa, è la sua relativamente scarsa importanza dal punto di vista dell’economia nel suo complesso. Ci sono circa quattro milioni di aziende operanti negli Stati Uniti; circa quattrocentomila nuove ne sorgono ogni anno. Circa un quinto della popolazione lavoratrice non lavora alle dipendenze di altri. In quasi ogni ramo d’industria, vediamo operare, fianco a fianco, piccole imprese e complessi giganteschi.
Al di là di queste impressioni generali, è difficile fornire una soddisfacente misura obiettiva del grado di concentrazione monopolistica e di competizione. La ragione essenziale è già stata accennata: i concetti impiegati in teoria economica sono costruzioni ideali destinate ad analizzare problemi particolari piuttosto che a descrivere situazioni globali. Ne consegue che non disponiamo di alcun criterio preciso di discriminazione per stabilire se una particolare impresa o industria deve considerarsi monopolistica o competitiva. La difficoltà, in cui ci troviamo, di attribuire significati precisi a codesti termini è generatrice di molti equivoci e incomprensioni.
La stessa parola viene usata con riferimento a cose diverse, in relazione al bagaglio di esperienza in funzione del quale viene giudicato il grado di competitività. Forse il più significativo esempio di queste incongruenze ci è offerto dal fatto che molti sono i casi in cui uno studioso americano può essere indotto a definire monopolistici assetti che il suo collega europeo propenderebbe a ritenere invece altamente competitivi. Ne consegue che gli europei che seguono la letteratura e i dibattiti americani interpretandoli secondo il significato che abitualmente si attribuisce in Europa ai termini di competizione e di monopolio, tendono a credere che negli Stati Uniti ci sia un grado di monopolizzazione in campo industriale molto maggiore di quanto in realtà non sia.
Parecchi studi, in particolare quelli condotti da G. Warren Nutter e da George J. Stigler, hanno tentato di classificare le industrie come monopolistiche, competitive e gestite o controllate dal governo, e di delineare i cambiamenti intervenuti nel tempo in queste categorie.[1] Tali studi giungono alla conclusione che, intorno al 1939, circa un quarto dell’economia poteva considerarsi come gestito o controllato dal governo. Dei tre quarti rimanenti, al massimo un quarto, e forse soltanto il 15%, può essere considerato monopolistico, almeno tre quarti, e forse l’85%, competitivo. Il settore gestito o controllato dallo stato è naturalmente cresciuto enormemente nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Nel settore privato, d’altra parte, non ci sono indizi di alcuna tendenza all’allargamento del potere monopolistico, e può anzi darsi che esso in realtà sia diminuito.
Credo sia molto diffusa la convinzione che il monopolio sia non solo molto più importante di quanto questi studi indicano, ma anche che sia andato costantemente crescendo col tempo. Una delle ragioni di questa erronea impressione è la tendenza a confondere le dimensioni assolute con quelle relative. Poiché l’economia è cresciuta, le imprese sono diventate maggiori in dimensioni assolute. Ciò ha indotto a credere che esse coprano anche una più larga parte del mercato, mentre, in realtà, l’ampiezza del mercato può essere cresciuta molto più rapidamente di esse.
Una seconda ragione è che il monopolio è un argomento più spesso dibattuto sulla stampa e attira l’attenzione dell’opinione pubblica più della competizione. Se si chiede a qualcuno di fare l’elenco delle maggiori industrie degli Stati Uniti, quasi invariabilmente si scopre che quella lista comprende la produzione automobilistica ma esclude il commercio all’ingrosso. Eppure l’importanza del commercio all’ingrosso è doppia di quella della produzione automobilistica.
Il commercio all’ingrosso è un settore altamente competitivo e quindi attira poco l’attenzione su di sé. Ben pochi sono in grado di fare i nomi di grandi imprese di commercio all’ingrosso, benché ce ne siano alcune che in dimensioni assolute sono grandissime. La produzione automobilistica, mentre per certi rispetti è altamente competitiva, ha un numero molto minore di imprese ed è certamente più prossima a condizioni monopolistiche. Una terza ragione risiede nella generale propensione e tendenza a sopravvalutare l’importanza dei grossi nei confronti dei piccoli, cosa di cui l’esemplificazione che ho fornito è soltanto una manifestazione particolare. Infine, la caratteristica principale della nostra società si ritiene sia il suo carattere industriale. Ciò induce a porre soprattutto l’accento sul settore manifatturiero dell’economia, il quale peraltro copre solo un quarto circa della produzione o dell’occupazione. Inoltre il monopolio è molto più diffuso nel campo manifatturiero che in altri settori dell’economia.
La sopravvalutazione dell’importanza del monopolio è accompagnata, in genere per le stesse ragioni, da una sopravvalutazione dell’importanza di quelle innovazioni tecnologiche che favoriscono il monopolio rispetto a quelle che invece estendono la competizione. Per esempio, si è insistito molto sulla diffusione della produzione di massa. Gli sviluppi registrati nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, sviluppi che hanno favorito la competizione riducendo l’importanza dei chiusi mercati locali e allargando l’ambito entro il quale la competizione può svilupparsi, hanno richiamato molto meno attenzione. La crescente concentrazione dell’industria automobilistica è diventata un luogo comune; ma la crescita dell’industria dei trasporti stradali, che riduce il grado di dipendenza dalle ferrovie, passa pressoché inosservata; altrettanto va detto della declinante concentrazione che si registra nell’industria siderurgica.
2. Il monopolio nel lavoro
Si nota un’analoga tendenza a sopravvalutare l’importanza del monopolio nel campo del lavoro. I sindacati comprendono circa un quarto della popolazione lavoratrice e ciò comporta una grossa sopravvalutazione dell’importanza dei sindacati sulla struttura delle remunerazioni. Molti sindacati sono assolutamente inefficienti. Anche i più forti e potenti sindacati esercitano solo effetti limitati sulla struttura delle remunerazioni. Nel caso del lavoro sono ancora più chiare che nel caso dell’industria le ragioni per cui si nota una forte tendenza a sopravvalutare l’importanza del monopolio. Se esiste un sindacato di lavoratori, ogni miglioramento salariale verrà attraverso il sindacato, anche se può darsi benissimo che non sia stato determinato dalla presenza dell’organizzazione sindacale. Le remunerazioni del personale di servizio domestico sono cresciute considerevolmente negli ultimi anni. Se fosse esistito un sindacato delle persone addette ai servizi domestici, tale aumento sarebbe passato attraverso il sindacato e il merito ne sarebbe stato attribuito ad esso.
Con ciò non intendiamo affatto dire che i sindacati siano privi di importanza. Come il monopolio di impresa, essi svolgono un ruolo rilevante e importante facendo sì che molte tariffe salariali differiscano dai livelli ai quali le fisserebbero le sole forze di mercato. Sarebbe un errore del pari grave tanto sottovalutare che sopravvalutare la loro importanza. Io una volta feci alcune valutazioni che mi permisero di concludere che, per effetto dell’azione sindacale, grosso modo il 10–15% della popolazione lavoratrice aveva ottenuto incrementi di remunerazione pari al 10–15% circa. Ciò significa che circa l’85–90% della popolazione lavoratrice aveva visto ridursi del 4% circa i propri livelli salariali[2]. Dall’epoca in cui io effettuai queste valutazioni, studi molto più dettagliati sono stati condotti da altri economisti. La mia impressione è che essi presentino grosso modo dei risultati dello stesso ordine di grandezza.
Se i sindacati fanno aumentare i livelli salariali in una particolare occupazione o industria, essi necessariamente rendono il totale dei posti di lavoro disponibili in quell’occupazione o industria minore di quello che altrimenti sarebbe — proprio come ogni aumento di prezzi determina la contrazione del totale acquistato. L’effetto è quello di un maggior numero di persone che cercano altri impieghi, il che determina abbassamenti dei livelli salariali in queste altre occupazioni. Poiché i sindacati sono in genere risultati più forti fra i gruppi che avrebbero in ogni caso ottenuto remunerazioni elevate, l’effetto della loro azione è stato quello di far aumentare i salari dei lavoratori ad alta remunerazione a spese dei lavoratori a più bassa remunerazione. I sindacati, quindi, non hanno soltanto danneggiato in generale il pubblico in genere e i lavoratori, provocando distorsioni nell’impiego del lavoro; essi hanno anche contribuito a rendere i redditi della classe lavoratrice più diseguali, riducendo le opportunità aperte ai lavoratori in condizioni più svantaggiate.
Sotto un certo aspetto, sussiste una notevole differenza fra il monopolio di lavoro e il monopolio di impresa. Mentre pare che non ci sia stata alcuna tendenza all’accrescimento di importanza del monopolio di impresa nell’ultimo mezzo secolo, ciò invece si è verificato per quanto riguarda il monopolio di lavoro. I sindacati dei lavoratori crebbero notevolmente di importanza durante la prima guerra mondiale, diminuirono di importanza durante gli anni venti e la prima parte degli anni trenta, per compiere poi un grande balzo in avanti nel periodo del New Deal. Essi consolidarono le loro posizioni durante e dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni più recenti, essi o hanno mantenuto le loro posizioni o hanno anche registrato delle flessioni. Tali flessioni non sono il riflesso di flessioni intervenute nell’ambito di particolari industrie od occupazioni, ma piuttosto di un declino di importanza di quelle industrie od occupazioni nelle quali i sindacati sono forti rispetto a quelle nelle quali i sindacati sono deboli.
La distinzione che ho tracciato fra monopolio di lavoro e monopolio di impresa è, in un certo senso, troppo netta. In una certa misura, i sindacati dei lavoratori hanno avuto la funzione di mezzi per imporre il monopolio nella vendita di determinati prodotti. L’esempio più evidente è quello del carbone. Il Guffey Coal Act fu un tentativo di legalizzazione di un cartello per la fissazione dei prezzi costituito dagli operatori delle miniere di carbone. Quando, verso la metà degli anni trenta, questa legge fu dichiarata incostituzionale, John L. Lewis e la United Mine Workers scesero in lotta. Proclamando scioperi o interruzioni del lavoro dovunque la quantità di carbone nei piazzali delle miniere diventava così elevata che si profilava il pericolo di una inevitabile flessione dei prezzi, Lewis controllò la produzione, e quindi i prezzi, con la tacita cooperazione dell’industria. I vantaggi derivanti da questo sistema di cartellizzazione furono divisi tra le società che gestivano le miniere e i minatori. Il guadagno per questi ultimi assunse la forma di più alte tariffe salariali, il che naturalmente comportò una minor occupazione di minatori. Perciò, soltanto i minatori che conservarono l’impiego parteciparono ai vantaggi della cartellizzazione e ottennero larga parte di tali vantaggi sotto forma di maggior tempo libero.
La possibilità, per i sindacati, di svolgere un ruolo siffatto, deriva dal fatto che ad essi non si applica lo Sherman Antitrust Act. Molti altri sindacati hanno tratto vantaggio da questa esenzione e sarebbe più giusto considerarli imprese che vendono i servizi di cartellizzazione di un’industria invece che organizzazioni di lavoratori. Il caso più rimarchevole è dato forse dalla Teamster’s Union.
3. Monopoli governativi e di patrocinio governativo
Negli Stati Uniti, il monopolio pubblico diretto nella produzione di beni per la vendita non è molto esteso. Il servizio postale, la produzione di energia elettrica, come nel caso della TVA e di altre centrali di produzione di proprietà pubblica; la gestione dei servizi autostradali, in forma indiretta attraverso la tassa sulla benzina o in forma diretta attraverso i pedaggi, e gli impianti comunali di acquedotto e simili sono gli esempi più rilevanti. Inoltre, data l’enorme incidenza che hanno nel bilancio degli Stati Uniti le spese per la difesa, per lo spazio e per la ricerca, il governo federale è diventato sostanzialmente il solo acquirente dei prodotti di molte imprese e di intere industrie. Ciò solleva gravissimi problemi per la preservazione di una società libera, ma essi non rientrano in quella categoria di problemi che è opportuno considerare, sic et simpliciter, in termini di “monopolio”.
L’intervento del governo per l’istituzione, per il sostegno e per la applicazione degli accordi di cartello e di monopolio tra produttori privati è cresciuto molto più rapidamente del monopolio pubblico diretto ed è, allo stato dei fatti, molto più importante. La Interstate Commerce Commission ne è uno dei primi esempi ed ha esteso il suo ambito di attività dalle ferrovie ai trasporti stradali e ad altri mezzi di trasporto. Il programma agricolo ne è indubbiamente il più noto esempio. Esso è, nella sostanza, un cartello imposto dal governo. Altri esempi sono la Federai Communications Commission, con il suo controllo sulla radio e sulla televisione; la Federal Power Commission, con il suo controllo sul commercio del petrolio e del gas fra gli stati della federazione americana; il Civil Aeronautics Board, con il suo controllo sulle linee aeree; e la fissazione coattiva da parte del Federal Reserve Board dei saggi massimi di interesse che le banche possono pagare sui depositi a tempo e la proibizione legale del pagamento di interessi sui depositi a vista.
Tutti questi sono esempi a livello federale. In aggiunta, si è registrata una grande proliferazione di interventi analoghi a livello dei singoli stati o a livello locale.
La Texas Railroad Commission, che, per quanto ne so, non ha niente a che fare con le ferrovie (railroads), impone restrizioni alla produzione dei pozzi petroliferi, limitando il numero dei giorni in cui i pozzi possono produrre. Essa svolge questa attività in nome della preservazione delle risorse, ma, di fatto, allo scopo di controllare i prezzi. In tempi più recenti, essa ha tratto forti vantaggi dal contingentamento delle importazioni petrolifere deciso dal governo federale. Mantenere gran parte del tempo inattivi i pozzi petroliferi per mantenere alti i prezzi mi sembra un caso di featherbedding esattamente dello stesso genere di quello praticato in campo ferroviario, dove si pagano i fuochisti delle macchine a vapore perché viaggino sulle locomotive Diesel senza far niente. Eppure, alcuni esponenti del mondo economico che sono particolarmente drastici nella loro condanna del labor featherbedding come violazione della libera intrapresa — particolarmente nell’ambito della stessa industria petrolifera — sembrano muti e sordi nei confronti del featherbedding in fatto di produzione petrolifera.
L’imposizione di licenze per l’esercizio di attività economiche, fenomeno che esaminerò nel prossimo capitolo, è un altro esempio di monopolio creato e sostenuto dai pubblici poteri a livello statale. La limitazione del numero dei taxi in circolazione è un esempio di restrizione analoga a livello locale. A New York, una licenza che conferisce il diritto a svolgere l’attività di tassista indipendente si vende oggi per una cifra compresa tra i 20.000 e i 25.000 dollari; a Filadelfia per 15.000. Altro esempio a livello locale ci è fornito dalla promulgazione di codici edilizi, dichiaratamente intesi a salvaguardare la sicurezza pubblica, ma, di fatto, generalmente sotto controllo dei locali sindacati dei lavoratori dell’edilizia o delle locali associazioni di impresari privati. Restrizioni di siffatto genere sono numerose e si applicano a una considerevole varietà di attività, sia a livello comunale che a livello statale. Tutte costituiscono limitazioni arbitrarie alla facoltà degli individui di stipulare contratti di mutuo scambio. Nello stesso tempo, esse restringono la libertà e favoriscono la dissipazione delle risorse.
Un genere di monopolio di istituzione governativa molto diverso, in linea di principio, da quelli finora presi in considerazione, è la concessione di brevetti di invenzione e di diritti di autore. Si tratta di un genere diverso, perché si possono a buon diritto anche considerare come rientranti nell’ambito dei diritti di proprietà. In senso letterale, se io ho un diritto di proprietà nei confronti di un determinato appezzamento di terreno, si può dire che io godo di un monopolio nei confronti di tale appezzamento, monopolio riconosciuto e fatto rispettare dal governo. Per quanto riguarda le invenzioni e pubblicazioni, il problema è di stabilire se sia o meno desiderabile la istituzione di un analogo diritto di proprietà. Questo problema è un aspetto particolare della generale necessità di ricorrere al governo per stabilire ciò che debba e ciò che non debba essere considerato come proprietà.
Per quanto riguarda i brevetti e i diritti di autore, appare evidente, a prima vista, l’opportunità di stabilire diritti di proprietà. Se ciò non avviene, può riuscir difficile o impossibile all’inventore di ottenere un compenso per l’apporto recato dalla sua invenzione all’attività produttiva. Cioè egli finirà col rendere ad altri benefici per i quali non può essere compensato. Quindi egli non avrà alcun incentivo a consacrare il tempo e gli sforzi necessari a realizzare l’invenzione. Considerazioni analoghe valgono per il diritto di autore.
Nello stesso tempo, bisogna tenere anche conto dei costi che tutto ciò comporta. Innanzitutto molte “invenzioni” non sono brevettabili. L’“inventore” del supermercato, per esempio, ha recato grandi benefici ai suoi simili, benefici che egli non ha potuto farsi pagare. Nella misura in cui lo stesso genere di capacità è richiesto per l’uno e per l’altro genere di invenzione, l’esistenza di brevetti tende a concentrare l’attività dei ricercatori sulle invenzioni brevettabili. D’altra parte, brevetti sciocchi o brevetti la cui legittimità sarebbe contestata qualora venissero portati davanti a un tribunale, sono spesso usati come strumenti per mantenere accordi privati di collusione che altrimenti sarebbe più difficile o impossibile mantenere.
Tutte queste sono considerazioni quanto mai superficiali intorno a un problema alquanto difficile e importante. Lo scopo di queste nostre considerazioni non è, comunque, quello di proporre soluzioni specifiche al problema, ma solo quello di mostrare perché i brevetti e i diritti di autore rientrano in una categoria diversa da quella degli altri monopoli di patrocinio governativo, e di illustrare le questioni di politica sociale che essi sollevano. Una cosa, comunque, è chiara. Le specifiche condizioni applicate ai brevetti e ai diritti di autore — per esempio, la concessione dell’esclusiva per diciassette anni invece che per un periodo diverso — non rientrano nella categoria delle questioni di principio: si tratta di questioni di convenienza, che devono essere determinate in base a considerazioni d’ordine pratico. Per quanto mi riguarda personalmente, io propendo a credere che sarebbe preferibile un periodo molto più breve di esclusiva brevettuale. Ma questo è un giudizio estemporaneo, formulato intorno a una questione sulla quale si sono condotti molti studi dettagliati e sulla quale molti altri studi sono ancora necessari. Quindi, esso ha un valore piuttosto limitato.
Le fonti del monopolio
Ci sono tre fonti principali di monopolio: ragioni “tecniche”, intervento governativo diretto e indiretto, collusione privata.
1. Ragioni tecniche
Come abbiamo sottolineato nel capitolo II, il monopolio è dovuto in qualche misura al fatto che motivi tecnici rendono più efficiente e più economica l’esistenza di una sola piuttosto che di molte imprese. Gli esempi più ovvi di ciò ci sono dati dal servizio telefonico o di fornitura dell’acqua e da altri servizi analoghi in seno a una data comunità. Sfortunatamente non esiste alcuna soluzione ideale per il monopolio tecnico. Resta perciò solo la scelta fra tre mali: il monopolio privato senza controllo pubblico, il monopolio privato regolamentato dallo stato e la gestione pubblica.
È impossibile stabilire in via di principio se uno di questi tre mali è senz’altro preferibile in ogni caso agli altri. Come abbiamo indicato nel secondo capitolo, il grosso svantaggio sia della regolamentazione governativa, sia della gestione pubblica del monopolio sta nel fatto che è estremamente difficile ottenerne, in un secondo tempo, lo smantellamento. Di conseguenza, io propendo a credere che il male minore sia rappresentato dal monopolio privato non regolamentato in tutti i casi in cui esso è sopportabile. Mutamenti dovuti alla dinamica economica rendono molto verosimile, a più o meno lunga scadenza, il suo indebolimento e, in caso di mancata regolamentazione pubblica, c’è almeno una qualche possibilità che questi mutamenti finiscano per esercitare i loro effetti in senso anti-monopolistico. Ma, anche a breve scadenza, c’è, in genere, una più ampia varietà di prodotti sostitutivi di quanto appaia a prima vista, sicché per le imprese private risulta sempre piuttosto limitata la possibilità di trarre vantaggio dal mantenimento dei prezzi molto al di sopra del costo. Inoltre, come abbiamo visto, gli enti di controllo spesso tendono a cadere essi stessi sotto il controllo dei produttori e così i prezzi, in caso di regolamentazione, possono non risultare affatto minori di quelli vigenti in un sistema senza regolamentazione.
Fortunatamente, i settori nei quali le ragioni tecniche rendono verosimile o probabile una soluzione di monopolio sono quanto mai limitati. Essi non rappresenterebbero alcuna seria minaccia alla preservazione di un’economia libera se non si avesse, purtroppo, la tendenza ad estendere la regolamentazione, introdotta appunto in base a giustificazioni siffatte, a situazioni nelle quali essa non è altrettanto giustificata.
2. Intervento governativo diretto e indiretto
Probabilmente la più importante fonte di potere monopolistico è l’intervento governativo, diretto e indiretto. Numerosi esempi di accettabile intervento governativo diretto sono stati citati più sopra. L’intervento indiretto a favore del monopolio consiste nell’adozione di misure prese per altre finalità le quali hanno l’effetto, per lo più inintenzionale, di imporre limitazioni ai potenziali concorrenti delle imprese esistenti. Forse i tre esempi più evidenti sono le tariffe doganali, la legislazione fiscale e la regolamentazione legislativa dei conflitti di lavoro.
Le tariffe doganali, naturalmente, sono state adottate in larga misura per “proteggere” le industrie nazionali, il che significa imporre degli handicaps a potenziali concorrenti. Esse interferiscono sempre con la libertà degli individui a impegnarsi in rapporti di scambio volontario. Dopo tutto, per il liberale l’unità di base di ogni suo ragionamento e valutazione è l’individuo, non la nazione o il cittadino di una particolare nazione. Perciò, per esso, il fatto che cittadini degli Stati Uniti e della Svizzera siano impediti di effettuare uno scambio che riuscirebbe loro mutuamente vantaggioso costituisce una violazione della libertà individuale non diversa da quella che si verifica se sono impediti di effettuare tale scambio due cittadini statunitensi.
Le tariffe doganali non producono necessariamente situazioni di monopolio. Se il mercato per l’industria protetta doganalmente è sufficientemente largo e le condizioni tecniche permettono la coesistenza di parecchie imprese, ci può essere, sul piano nazionale, un’effettiva competizione nell’ambito dell’industria protetta, come avviene, per esempio, negli Stati Uniti, per quanto riguarda il settore tessile. Tuttavia è chiaro che le tariffe doganali favoriscono notevolmente le tendenze monopolistiche. È molto più facile che si mettano d’accordo per la fissazione dei prezzi poche piuttosto che molte imprese ed è, in genere, più facile la stipulazione di tali accordi fra imprese dello stesso paese che fra imprese di paesi diversi.
La Gran Bretagna fu protetta proprio per merito del libero scambio da una diffusa monopolizzazione durante il secolo decimonono e la prima parte del ventesimo, nonostante le dimensioni relativamente modeste del suo mercato interno e le grandi dimensioni di molte imprese. Il monopolio è diventato in Gran Bretagna un problema molto più serio a cominciare dall’epoca in cui venne abbandonato il libero scambio, da principio nel periodo successivo alla prima guerra mondiale e poi, in misura molto più estesa, nella prima metà degli anni trenta.
Gli effetti della legislazione fiscale sono stati di natura anche più indiretta, ma di rilevanza non minore. Un elemento essenziale è stata la connessione fra l’imposta sul reddito sia delle società che degli individui e il trattamento speciale riservato ai guadagni da capitale nel contesto dell’imposta sul reddito personale. Supponiamo che un’azienda registri un reddito di un milione di dollari al netto dell’imposta sulle società. Se essa distribuisce l’intero milione di dollari sotto forma di dividendo ai suoi azionisti, essi devono denunciare tale cifra come parte del loro imponibile. Supponiamo che essi debbano, in media, pagare il cinquanta per cento di questo reddito addizionale come imposta sul reddito. In tal caso essi avrebbero a disposizione soltanto cinquecentomila dollari da spendere in consumi o da destinare a risparmio e investimento. Se, invece, l’azienda non paga nessun dividendo in contanti ai suoi azionisti, essa può destinare a investimenti, mediante autofinanziamento, l’intero milione di dollari. Tale reinvestimento avrà l’effetto di elevare il valore capitale dei suoi impianti. Gli azionisti che avrebbero risparmiato gli utili, qualora fossero stati distribuiti, possono più semplicemente conservare il loro pacchetto azionario e rinviare il pagamento di tutte le tasse relative fino al momento in cui vendono il pacchetto stesso. Essi, al pari degli altri che vendono a una data più ravvicinata per conseguire un reddito da destinare a consumo, pagheranno la tassa relativa in base alle aliquote sui guadagni di capitale, che sono più basse di quelle sul reddito normale.
Questa struttura della fiscalità incoraggia la non distribuzione degli utili delle società. Anche se il provento che si può ricavare da questa operazione di autofinanziamento è sensibilmente minore del provento che l’azionista stesso potrebbe conseguire investendo i suoi fondi in altre imprese, può riuscir vantaggioso effettuare l’investimento stesso per via di autofinanziamento per il risparmio fiscale che ne consegue. Ciò porta a uno spreco di capitale, all’uso del capitale per scopi meno produttivi invece che per scopi più produttivi. Questa è stata una delle ragioni fondamentali della tendenza, impostasi nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, alla diversificazione orizzontale, a mano a mano che le aziende hanno cercato degli sbocchi per il collocamento dei loro utili. Essa costituisce anche un rilevante vantaggio per le società già operanti rispetto a quelle nuove. Le società già operanti possono essere meno produttive delle nuove imprese, eppure i loro azionisti possono avere un incentivo ad investire in esse piuttosto che a richiedere la distribuzione del reddito per investirlo in nuove imprese attraverso il mercato dei capitali.
Una delle fonti principali del monopolio di lavoro è stato l’interventismo governativo. Il sistema delle licenze, quello dei codici edilizi e così via, discussi più sopra, ne sono stati una fonte. La legislazione che statuisce immunità speciali a favore dei sindacati dei lavoratori, come l’inapplicabilità nei loro confronti delle leggi anti-trust, le limitazioni alla responsabilità sindacale, il diritto di adire tribunali speciali e così via ne sono un’altra fonte importante. Forse di eguale o di importanza ancora maggiore è l’orientamento generale dell’opinione pubblica e l’applicazione legale di criteri diversi di valutazione nei confronti di azioni verificatesi nel corso di un conflitto di lavoro e nei confronti delle medesime azioni qualora avvengano in circostanze diverse. Se qualcuno rovescia delle automobili o danneggia la proprietà per mera malvagità o per vendicarsi di qualcuno, nessuno alza un dito per proteggere i colpevoli delle conseguenze legali dei loro atti. Ma se questi stessi atti vengono commessi nel corso di un conflitto di lavoro, può darsi benissimo che i responsabili restino impuniti. Azioni sindacali implicanti coercizione o violenza fisica in atto o in potenza difficilmente avrebbero luogo senza questa tacita acquiescenza delle autorità.
3. Collusioni private
Un’altra fonte di monopolio sono le collusioni private. Come scrisse Adam Smith, “persone che svolgono la stessa attività economica raramente si riuniscono, anche per diletto e svago, ma quando lo fanno, la riunione finisce sempre in una intesa a danno del pubblico o in qualche accordo per aumentare i prezzi”[3]. Tali collusioni o accordi privati di cartellizzazione sono quindi in costante crescita. Tuttavia, essi sono in genere instabili e di breve durata a meno che i loro promotori non riescano a ottenere che il governo intervenga in loro aiuto. L’istituzione del cartello, per effetto dell’aumento dei prezzi, rende più profittevole, per coloro che non ne fanno parte, la produzione dei relativi prodotti. Inoltre, poiché il prezzo può essere mantenuto alto solo mediante la riduzione, da parte degli aderenti al cartello, della produzione al di sotto del livello al quale essi sarebbero disposti a produrre al prezzo fissato, ciascuno degli aderenti, singolarmente preso, si sente incentivato a ridurre il prezzo al fine di espandere la produzione. Ciascuno degli aderenti, naturalmente, spera che gli altri si sentano vincolati dall’accordo. Basta soltanto uno o al massimo pochi “crumiri” — i quali sono in realtà dei pubblici benefattori — a rompere il cartello. Qualora non ci sia un intervento governativo a favore del cartello, questi “crumiri” sono quasi certi di conseguire rapidamente e con facilità il successo.
Il ruolo più importante svolto dalle nostre leggi antitrust è stato quello di impedire siffatte forme di collusione privata. Il loro maggior contributo, per questo rispetto, esse lo hanno dato non tanto attraverso incriminazioni dirette, quanto per via indiretta. Esse hanno liquidato gli strumenti più correnti di collusione — come i pubblici convegni a questo fine — ed hanno quindi reso più onerose le collusioni. Cosa ancora più importante, esse hanno riconfermato esplicitamente il principio del diritto consuetudinario che le associazioni per la limitazione dell’attività economica non possono essere fatte valere nei tribunali. In parecchi paesi europei, i tribunali legalizzano gli accordi stipulati da gruppi di imprese che si impegnano a vendere soltanto attraverso un organismo comune di vendita, imponendo alle imprese il pagamento di determinate penalità se violano l’accordo. Negli Stati Uniti, un accordo del genere non può essere legalizzato dai tribunali. Questa differenza è una delle ragioni essenziali per cui i cartelli sono stati più stabili e diffusi nei paesi europei che negli Stati Uniti.
Un’adeguata politica governativa
La prima e più urgente necessità, nell’ambito della politica governativa, è l’eliminazione di tutte le misure di sostegno diretto del monopolio, si tratti di monopolio di impresa o di monopolio di lavoro, e l’applicazione imparziale delle leggi sulle imprese e sui sindacati di lavoratori. Imprese e sindacati dovrebbero essere parimente sottoposti alle leggi anti-trust; entrambi dovrebbero essere trattati allo stesso modo nell’applicazione delle leggi riguardanti le pene per danneggiamenti alla proprietà e per interferenza nelle attività private.
Oltre a ciò, il più importante e decisivo passo verso la riduzione del potere monopolistico sarebbe una radicale riforma delle leggi fiscali. L’imposta sulle società dovrebbe essere abolita. Ma, sia o non sia abolita tale tassa, alle società dovrebbe essere imposto di attribuire ai singoli azionisti gli utili che non vengono distribuiti sotto forma di dividendo. Vale a dire, quando la società spedisce l’assegno con il dividendo, tale assegno dovrebbe contenere una dichiarazione di questo tenore : “oltre a questo dividendo di … cents per azione, la sua società ha registrato anche utili di … cents per azione che sono stati reinvestiti”. Il singolo azionista dovrebbe, a sua volta, essere obbligato a denunciare nella sua dichiarazione al fisco non solo il dividendo ma anche gli utili non distribuiti. Le aziende sarebbero ancora libere di destinare ad autofinanziamento le somme che desiderano, ma non avrebbero a far ciò altro incentivo all’infuori del giusto incentivo che esse possano ottenere da quell’investimento interno un rendimento maggiore di quello che l’azionista potrebbe ricavare investendo all’esterno la stessa somma. Poche misure sarebbero più efficaci di questa per rinvigorire il mercato dei capitali, per stimolare le imprese e per promuovere un’efficace competizione.
Naturalmente, finché la tassa individuale sul reddito è altamente progressiva come ora, c’è una forte tentazione a cercare scappatoie per sottrarsi alla sua incidenza. In questo modo, oltre che per via diretta, la tassa sul reddito altamente progressiva costituisce un serio impedimento all’uso efficiente delle nostre risorse. La soluzione più appropriata è quella di una drastica riduzione delle aliquote maggiori, combinata con l’eliminazione di quelle possibilità di scappatoia che sono offerte dalla legge stessa.
La responsabilità sociale degli imprenditori e dei lavoratori
Ha guadagnato sempre più terreno nell’opinione pubblica l’idea che i dirigenti delle aziende e dei sindacati dei lavoratori abbiano una “responsabilità sociale” che va ben oltre la mera responsabilità abilità funzionale della difesa degli interessi dei loro azionisti o dei loro membri.
Questa idea trae origine da un fondamentale fraintendimento del carattere e della natura di un’economia libera. In tale economia, l’imprenditore ha una ed una sola responsabilità sociale: quella di usare le risorse a sua disposizione e di impegnarsi in attività dirette ad accrescere i profitti sempre con l’ovvio presupposto del rispetto delle regole del gioco, vale a dire dell’obbligo a impegnarsi in una aperta e libera competizione, senza inganno o frode. Parimenti, la “responsabilità sociale” dei dirigenti dei sindacati è semplicemente quella di servire gli interessi dei loro associati. Rientra nella responsabilità di noi tutti invece lo stabilire una cornice legale tale che un individuo, nel perseguimento del suo proprio interesse, sia, come scrisse appunto Adam Smith, “guidato da una mano invisibile al perseguimento di un fine che non rientra specificamente nelle sue intenzioni coscienti. Del resto, questa inintenzionalità non è sempre un male per la società. Perseguendo il suo proprio interesse, il singolo spesso promuove quello della società in forma più efficace di quando egli effettivamente si propone di promuoverlo. Non mi risulta che abbiano reso molti benefici alla società quanti hanno dichiarato di dedicarsi all’attività economica per il pubblico bene”[4].
Poche tendenze possono scardinare in maniera così totale i fondamenti stessi della nostra società libera, come l’accettazione, da parte dei dirigenti delle imprese, di una responsabilità sociale diversa dalla pura e semplice responsabilità di guadagnare la maggior quantità possibile di denaro per i loro azionisti. Si tratta, infatti, di una dottrina fondamentalmente sovversiva. Se gli imprenditori hanno una responsabilità sociale diversa dalla semplice responsabilità di realizzare il massimo possibile di profitti per gli azionisti, come possono essi sapere in che concretamente consista questa loro ulteriore responsabilità? Possono dei privati cittadini autoproclamarsi competenti a stabilire che cosa in concreto sia l’interesse sociale? Possono essi decidere qual è la misura legittima dell’onere che essi imporrebbero a se stessi o ai loro azionisti per servire codesto interesse sociale? È ammissibile che le funzioni pubbliche dell’imposizione fiscale, della spesa e del controllo siano esercitate da persone che, in un determinato momento, si trovano occasionalmente alla testa di particolari imprese, perché sono state scelte a ricoprire il posto che occupano da gruppi strettamente privati? Se gli imprenditori sono funzionari civili invece che impiegati dei loro azionisti, allora, in un sistema democratico, essi saranno, presto o tardi, designati ai loro posti dalle tecniche pubbliche dell’elezione e della nomina.
E, ben prima che ciò avvenga, ogni potere decisionale sarà stato strappato ormai dalle loro mani. Una drammatica esemplificazione di ciò fu l’annullamento di un aumento dei prezzi dell’acciaio da parte della U.S. Steel nell’aprile 1962 in seguito a una pubblica manifestazione di collera da parte del presidente Kennedy, accompagnata dalla minaccia di rappresaglie che andavano dall’applicazione della legge anti-trust al controllo delle denunce fiscali presentate dai responsabili della società siderurgica. Fu un episodio impressionante, perché diede pubblicamente la misura della vasta concentrazione di poteri che si ha a Washington. Tutti, in tale circostanza, abbiamo avuto chiara coscienza di quanta parte del potere necessario alla realizzazione di uno stato di polizia sia già disponibile e utilizzabile da parte dei nostri massimi responsabili politici. Ma quell’episodio serve anche a illustrare un aspetto della nostra argomentazione: se il prezzo dell’acciaio è una decisione pubblica, come la dottrina della responsabilità sociale comporta, allora non si può consentire che esso sia fissato per via privata.
Questo episodio richiama l’attenzione su un aspetto particolare della questione, e precisamente sull’aspetto mag-giormente posto in evidenza in questi ultimi tempi: quello cioè della pretesa responsabilità sociale degli imprenditori e dei lavoratori di mantenere bassi i livelli dei prezzi e dei salari al fine di evitare l’inflazione. Supponiamo che nell’epoca in cui si registrava una spinta verso l’alto dei prezzi — che, naturalmente, rifletteva, in ultima analisi, un incremento dello stock monetario — ogni imprenditore e ogni dirigente sindacale avessero accettato questa responsabilità, e supponiamo che tutti fossero riusciti nel loro sforzo di impedire ai prezzi di salire; ebbene, in tal caso noi avremmo avuto un controllo volontario dei prezzi e dei salari senza inflazione aperta. Ma quale sarebbe stato il risultato? Evidentemente quello di carenza di prodotti, di carenza di manodopera, di mercato nero, di speculazione. Se non si consente ai prezzi la funzione di razionare i prodotti e il lavoro, ci devono essere altri mezzi per poterlo fare. Possono questi mezzi alternativi di razionamento essere lasciati in mani private? Forse la risposta può essere positiva, se si tratta di un breve spazio di tempo e di settori ristretti e di scarsa rilevanza. Ma, se i prodotti sono molti e importanti, si determinerà necessariamente una pressione, e probabilmente una pressione irresistibile, perché il governo intervenga e attui il razionamento dei prodotti stessi, la determinazione dei salari e l’allocazione e ripartizione della forza di lavoro.
I controlli dei prezzi, siano essi volontari o legali, se effettivamente attuati, finirebbero col provocare la distruzione del sistema di libera intrapresa e la sua sostituzione con un sistema a controllo centralizzato. Inoltre, tali controlli non risulterebbero efficaci neppure per prevenire l’inflazione. La storia ci dimostra, con numerosi e chiari esempi, che ciò che determina il livello medio dei prezzi e dei salari è l’ammontare di moneta nell’economia e non l’avidità degli imprenditori o dei lavoratori. I governi invitano gli imprenditori e i lavoratori a praticare l’auto-controllo proprio perché sono incapaci di adempiere alla funzione che è propria dei governi — funzione che comprende tra l’altro il controllo della moneta — e per la tendenza, naturale degli esseri umani, a scaricare su altri le proprie responsabilità.
Un punto che, in tema di responsabilità sociale, ritengo doveroso accennare, in quanto tocca i miei interessi personali, è quello relativo all’affermazione che il mondo imprenditoriale dovrebbe contribuire a sostenere le attività caritative e soprattutto le università. Ma la destinazione di somme, da parte delle imprese, a tali fini di sostegno rappresenta un uso non corretto delle risorse delle imprese stesse, in una società di libera intrapresa.
L’azienda è uno strumento degli azionisti che ne sono proprietari. Se l’azienda concede sovvenzioni, essa impedisce all’azionista singolo di decidere di sua libera scelta sull’impiego dei propri fondi. Con la tassa sulle società e con la detraibilità delle somme destinate a sovvenzioni, gli azionisti possono naturalmente desiderare che la loro società faccia un donativo per loro conto, dal momento che, in questo modo, il donativo può risultare di entità maggiore. La miglior soluzione consisterebbe nell’abolizione dell’imposta sulle società, ma, fino a che esiste un’imposta sulle società, è assolutamente ingiustificato consentire detrazioni dall’imponibile per contributi a istituzioni caritative ed educative. Siffatti contributi dovrebbero essere dati dai singoli che, in ultima analisi, sono i detentori della proprietà nella nostra società.
Coloro che sollecitano un allargamento della detraibilità di questo genere di contributi societari in nome della libera intrapresa operano in sostanza contro il loro proprio interesse. Una delle maggiori e più diffuse lamentele nei confronti della moderna attività economica è che essa implica la dissociazione fra proprietà e controllo — vale a dire che l’azienda è diventata un’istituzione sociale che funziona secondo una logica propria, con dirigenti irresponsabili che non servono gli interessi dei loro azionisti. Questa accusa non è vera. Ma l’indirizzo oggi prevalente, quello cioè di permettere alle aziende di dare contributi per scopi caritativi e di consentire la detrazione ai fini dell’imposta sul reddito, è un passo verso la creazione di un effettivo divorzio tra proprietà e controllo e verso la corruzione della essenziale natura e del fondamentale carattere della nostra società. È un passo che ci allontana dalla società individualistica e ci avvicina allo stato corporativo.
Da Milton Friedman, Efficienza economica e libertà, Longanesi, Milano 1967, pp. 183–206
Note
[1] G. Warren Nutter, The Extent of Enterprise Monopoly in the United States, 1899–1939, University of Chicago Press, 1951, e George J. Stigler, Five Lectures on Economic Problems, Longmans, Green and Co., London 1949, pp. 46–65.
[2] Some comments on tje Significance of Labor Union for Ecomonic Policy, in The Impact of the Union, a cura di David McCord Wright, New York 1951, pp.204–234
[3] Adam Smith, The Wealth of Nations (1776), Bk. I, cap. 10, pt. 2 (Edizione Cannan, London), p. 130.
[4] Ibidem, Bk. IV, cap. 2, pt. II, p. 421.